Prosa
» Romanesque
» Allo stato brado
» Girandola
» Sette Sapienti
» Recreation
» Mandala
» Cavalieri erranti
» Sabba
Poesia
» Oltre cortina
» Un filtro amoroso
» Plautinus
» Cieco mondo
» Plancton
» Jack O'Lantern
» Pastelli Giotto
» Mab
» Preludi a Lutin
versione italiana
english version
|
|
Canto alla croce
Aveva piantato la tenda in un giardino incustodito, ciò che restava di selvatico attorno ai ruderi dell’antico cimitero di quella provincia sconosciuta, nascosta ai più, perché non figurava nemmeno sulle guide turistiche internazionali.
Essa sorgeva troppo appresso a città conosciute e osannate da tutti come vere e proprie perle di ricchezza e cultura. Cercava un crocefisso antico, unico nel suo genere, una specie di Cristo quasi sorridente e addormentato, per ridisegnarlo a modo suo, come già aveva fatto con i suoi fumetti preferiti e con i quadri famosi che gli avevano sconvolto la vita.
Emozioni violente, confusione tra cielo e terra, un’oasi speciale s’apriva davanti a lui e lo catturava completamente.
Bravo lo era sul serio, Manolo, in grado di fare e disfare creazioni veloci, eleganti, dal tratto sicuro, segnato già virtualmente da qualche parte entro sé. Come un dono consegnato nelle sue mani dai padri spagnoli senza fatica, né particolari sacrifici, una vera fortuna per lui.
Aveva iniziato molto giovane e già in tanti lo avevano notato, ma non piaceva a tutti, anzi. Qualcuno lo detestava apertamente, ritenendolo poco rispettoso nei suoi maneggiamenti particolari dei capolavori del passato.
Lo poteva fare coi fumetti o con le sue bizzarre elucubrazioni, ma non era ammissibile veder deformare opere classiche, considerate la perfezione stessa.
Per la sua bravura egli aveva facili commissioni, ma poi c’erano quelli che s’indignavano a morte del suo lavoro e non volevano pagarlo.
Non gl’importava granché, poiché erano quelli i giorni in cui egli inseguiva i suoi capolavori sulle tracce di avi amati come belle donne.
In quel posto così spoglio, tra gente un po’ squallida, sconnessa dalle proprie origini, Manolo cercava la purezza di un tratto potente.
Rimase per alcuni giorni a ciondolare tra il giardino e il cimitero, senza allontanarsi che di pochi passi dalla tenda, come in attesa.
Non pioveva da settimane e la vegetazione sembrava implorare assieme a lui un dono celeste, un segnale dall’azzurro terso e totale che s’indorava solo di sera tra intensi odori di bruciato.
Infine si decise ad entrare nella decrepita chiesina del cimitero che aveva un buco proprio sotto al campanile ed una parete crollata quasi per intero.
Non si capiva come i restanti muri avessero resistito, incancreniti nella loro sfida al tempo.
Il crocefisso aspettava Manolo là in fondo, in un buio rischiarato da dietro, da un unico raggio rossastro nell’ora più calda del giorno, quando le cicale cercavano alla loro maniera di confondere la natura delle cose.
Egli voleva rimanere a lungo da solo a sentire quel chiasso fisso con il silenzio dei morti attorno, lui, così volitivo, incontenibile e corporale.
E voleva più d’ogni altra cosa catturare il sonno spensierato del Cristo, così sicuro di risvegliarsi presto verso la fresca alba pasquale, da sembrare che stesse facendo un pisolino sotto gli effetti del variabile clima primaverile.
Al suo fianco altre timide figurine dormivano tranquillamente. Non aveva sofferto, il suo corpo era magnificamente giovane, intatto, dunque non era mai stato ucciso. Un corpo senza ferite sanguinanti, come qualche guerriero dei fumetti, le cui ferite si rimarginano in tutta fretta, così da celare con pudore i punti deboli nella foga del combattimento.
Le cicale iniziarono la loro colonna sonora ad un’ora così precisa da far pensare ad un grande orologio a pendolo, nascosto da qualcuno tra le foglie dei platani.
Manolo adorava il caldo, perché assopiva anima e corpo in un’unica estatica totalità, proprio come alla nascita e alla morte, come in amore all’apice del sentimento.
Manolo entrò cauto in chiesa, avvicinandosi piano piano al Cristo silente. L’immaginazione galoppava selvaggia per la troppa calura e sussultava alla vista di un ramo d’albero che sbatteva controsole ad un’alta finestra.
La campana più piccola suonò mossa dal vento. Quella grande forse non aveva mai suonato da quando era stata messa lassù.
Il pittore si mise comodo davanti alla croce e cominciò a dipingere una sposa che s’agghindava maliziosa, lenta, come dovesse aggiustare qualcosa di non puramente fisico.
Immaginava un’ombra che passava sulle lenti dei suoi occhiali rotondi da vista. Un insetto, una foglia, chissà.
Il Cristo era sempre più assente, come uno spettatore che non vuole essere tale. Non era più quello del giorno prima, era muto al cuore dell’artista, sfigurato dalla presenza umana.
Immaginò una statua di donna che prese a camminare con lui di notte. Poi una nuvola che come panna montata si posò sulla sua graziosa testolina.
Il paesaggio oscurò ogni sentimento religioso, lasciando sullo sfondo il cimitero e in primo piano il giardino selvatico. Manolo comprese che era questo il regalo del maestro del crocefisso.
Anagrafe
Non ho più da anni una carta d’identità che ho sempre sostituito con un solido passaporto, ma esso m’era scaduto, dovevo rinnovarlo. Ed è in questo frangente che ho scoperto di non esistere più.
Quando mi sono presentato allo sportello dell’autorità competente per l’innocente, ovvia richiesta, mi hanno guardato allibiti, mi hanno chiesto la carta d’identità che non avevo e poi mi hanno detto che quel passaporto non garantiva la mia vaga esistenza, perché era scaduto, dunque chi ero io? Nessuno. Almeno avessi guidato un’automobile, avessi posseduto una patente, niente.
Dovevo rifarmi una carta d’identità, altrimenti chi rinnovavo?
E poi, ammesso che fossi riuscito nell’ardua opera, dove mi sarei recato, in quale continente avrei voluto andare? A detta loro, meglio in Africa, dove fanno entrare anche con foto vecchie, o strane, senza fare storie, tanto cosa hanno da fare o da perdere?
Oppure in Estremo Oriente, dove sembra che siano più spiritosi.
Nella remota ipotesi di rinnovo del passaporto, l’importante era che io non mi azzardassi ad andare in America, perché lì con la foto di prima dell’imbarco o lievemente sfuocata, non realistica a sufficienza, io sarei rimasto bloccato in aeroporto.
Quando mi sono azzardato a dire che il rinnovo era soprattutto per questo, per andare lì, sono andati su tutte le furie, asserendo che era impossibile, che non si poteva più farlo, anche rifacendo di netto sia il passaporto, sia la carta d’identità.
Pensai a quante pasticche prendono i funzionari pubblici per resistere a tanto lavoro, in questo paese che sta trasformandosi inesorabilmente in un incubo, una mortifera iattura senza fine.
Pensai anche che l’ufficio dell’anagrafe era sito nei locali del vecchio manicomio cittadino, dove per tanto tempo s’erano aggirati i matti in camicia di forza slacciata, sbrodolando giù saliva e pasticche da cavallo.
Quelle mura custodivano i segreti peggiori dell’essere umano, cose aborrite dal mondo animale e vegetale, cose rimaste lì, riverniciate in troppa fretta da infermieri e dottori, bidelli liceali, impiegati assunti di fresco, e giù, giù, fino a qui.
Lì c’erano i discendenti, i parenti, gli eredi spirituali. Lungo il corridoio dell’anagrafe il destino mi veniva pietosamente in aiuto sotto le spoglie di un vecchio compagno del liceo che aveva fatto una grande carriera all’interno della medesima stanza in cui entrambi avevamo declamato Eschilo ed Omero.
Egli era diventato alto dirigente dell’anagrafe, addetto alla ricerca di documenti scaduti e schede elettorali mai utilizzate.
Lo trovai bene rispetto ad altri commilitoni quasi irriconoscibili. E’ vero che s’era rifatto il naso diritto e che prima l’aveva adunco, ma nell’insieme era identificabile, pallido, tristemente vanitoso come al solito.
Sapevo di dover fingere ammirazione e gioia nell’incontrarlo, così egli non poteva esimersi dall’offrirmi il suo appoggio per il mio passaporto.
Entrammo insieme in quella che fu, dopo i matti legati, l’aula di fisica dove mi rinchiudevano assieme ad un antico amore rinnegato. Una cosa odiosa allora, come i bigliettini per i rendez-vous nascosti nelle tasche del mio cappotto, divenuta tenera battuta, conversazione piacevole per contrattare una identità.
Il dirigente impartì un po’ di ordini ad una ragazza che non aveva voglia di far nulla, e quella cominciò a trafficare a malincuore con uno sgargiante portatile avvezzo a ben altri compiti molto più leggeri.
Alla fine venne stampata una scheda con una mia foto di tanti anni prima con sotto scritto “studente”. L’ultima identità riconosciuta da tutti. Avevo davvero studiato tanto!
Ed ora, cosa mi azzardavo ad essere?
Presi il coraggio a quattro mani, e senza chiedere il parere del direttore dell’anagrafe, suggerii in un orecchio a quella sfaticata la mia nuova identità sconosciuta ai più.
La ragazza era talmente ebete che potevo aver detto qualsiasi cosa.
Ai saluti falsamente affettuosi, quell’uomo in carriera sfrenata mi sorrise sarcastico, dicendo che sicuramente sarei sparito dalla circolazione per tanti, tanti anni, e che lui, chissà, non avrebbe potuto godere della mia piacevole compagnia.
La capacità di mentire spudoratamente, dicendo l’esatto contrario, era una delle doti che lo avevano portato ai vertici del suo partito.
Mentre sto pensando a questi fatti, sono ancora in attesa del mio passaporto, una faccenda lunga e complicata. Sono curioso di vedere come andrà a finire.
Ripensando al vecchio compagno del liceo, mi sono reso conto che come lui ce ne sono molti in giro. Non sono cattivi, sono stati educati così, non potrebbero essere altrimenti.
Loro pensano d’essere nel giusto e che io sia un degenere, uno scellerato. Non possono dire però la cosa a loro più gradita, che sono un irriconoscente, poiché nessuno ha mai fatto qualcosa per me.
E ciò che hanno fatto contro, non se ne sono neanche accorti.
Soubrette
Rosemary aveva un cognome celebre mai abbandonato, un cognome che si meritava come prima e, a detta sua, unica moglie di un celebre regista comico, che la piantò in asso dopo averla tradita ripetutamente, per una ragazzina di quindici anni.
Mary era alta e bionda, occhi di un verde intenso ed un corpo da statua greca. Fece l’unico errore di contare sulla magnanimità del regista che poteva fare di lei una stella del teatro di varietà.
Ella ripeteva con enfasi i versi dannunziani, danzava alla Duse e cantava tremolante famose canzoni popolari di tutto il mondo.
Oggi, anche se più giovane del marito, avrebbe sì e no cent’anni.
E’ grottesco immaginare questa casta, tragica figura del secolo scorso, aggrappata ai tendaggi di velluto del salotto, mentre il marito modernista scriveva commedie per far ridere la gente sulla morte e la malasorte.
Figurarsi la sciantosa piangere disperatamente per la sua vita di reclusa, mentre il mancato pigmalione cercava ben più sostanziose consolazioni in ogni angolo della capitale.
C’erano mariti in grado di dedicare il loro tempo alla carriera di una moglie, ma, ahimè, quello non ne voleva sapere. Quello voleva semplicemente una bella sposa da esibire come accompagnatrice del grande artista, un addobbo in grado di sfornare dolci e bambini, di intrattenere soavemente ospiti e servitori.
Di nascosto Rose ballava e recitava in casa, fingendo d’essere a teatro, mentre l’infame scriveva. E se lui la sorprendeva, volavano fiori in vaso, piatti e bicchieri.
Alla fine la soubrette fu spedita come un pacco postale a Beirut, dove poté fare l’adorato mestiere in un famoso palcoscenico esotico molto in voga in quegli anni. In alberghi lussuosi, in pianobar e nights lussuriosi, sopra piattaforme spaziali, in piscine illuminate di giorno e di notte, sempre stracolme di clienti.
La vita di Rosemary si divise in due stagioni. Nella stagione fredda ella s’esibiva sfavillante per tutta Beirut, ammirata, rincorsa da sceicchi e affaristi libanesi che la trattavano come una regina, infilando assegni in bianco sotto la coda del pianoforte nella vana speranza d’ottenere qualche favore peccaminoso, dopo le cantate e le ballate.
Nella stagione calda qualche nababbo la riportava in Italia, a Capri, il punto più vicino a Roma dove le era ancora consentito d’esibirsi. Tornava per un breve periodo anche nella capitale, passando da un grande hotel ad un altro, inseguendo l’infame marito sotto gli occhi dei paparazzi, a suon di insulti e sputi che mai vi sareste aspettati da una tale dama. Lui chiamava la polizia e la cosa finiva lì, dopo aver pagato gli eventuali danni procurati dal passaggio di un ciclone incontrollabile.
Quando il vigliacco morì, non le lasciò niente di niente, e lei seppe da fonti sicure che l’infame aveva persino tagliato la figura alta e sottile di lei da tutte le fotografie che avevano fatto insieme.
Poi Rose, ormai in età matura, non calcò più il palcoscenico come soubrette, smise di zampettare a Beirut e se ne tornò nella sua amata Roma, dove esaurì i risparmi d’una vita.
Finì in una casetta di periferia, messale a disposizione da un ammiratore governativo, magari per fare un dispetto al marito morto.
Io l’ho conosciuta quasi centenaria, sulla spiaggia di Ostia in costume da bagno bianco e ombrellino turchese, perché il sole si deve prendere solo alle gambe. Per il resto il color paglierino non dona alla pelle d’una donna.
Ella dormiva tutto il giorno, non mangiava che di notte e pochissimo. Danzava, cantava, chiamava i suoi fantasmi a raccolta.
Quando era in casa, viveva praticamente in bagno, per curarsi e truccarsi con semplici artifizi, quelli cari alle nonne. La toilette era anche l’ambiente dove teneva l’unico telefono della casa, per rispondere immediatamente alle poche chiamate.
Rosemary veniva in centro, prendendo la metro B e poi la A, vestita come la dama che era stata, tra le risate dei borgatari e l’ammirazione di qualcuno del centro che conosceva il suo passato.
Mi portava a prendere l’aperitivo o il the a tardo pomeriggio, nella hall degli hotel dove aveva a lungo vissuto e dove qualche vecchio proprietario o cameriere affezionato le faceva ancora una specie di corte, i complimenti per la silhouette ben conservata.
Quei cocktails costavano l’ira divina e lei pretendeva di donare anche la mancia.
Mi presentava come dottore della mente, “Tanto questi non capiscono niente d’arte”, mi diceva.
Ma lei in privato mi lodava come poeta: “lode, omaggi al poeta!”, diceva enfatica sottovoce.
Scomparve per sempre in un giorno che a Roma c’era il diluvio universale. Io mi recai alla stessa ora al nostro solito posto per il rendez-vous, che era una delle chiese preferite dal D’Annunzio. Naturalmente non aveva potuto avvertirmi che non sarebbe venuta per il the verde al Caffè Greco.
Di Rosemary mi resta una musicassetta che devo far sdoppiare prima che finisca pure quella. Niente foto, non voleva.
Ingenuamente ho cercato la sua mirabile figurina in rete, nel sito che gli eredi hanno fatto fare allo scrittore. Vita, prima moglie sconosciuta, nome non bene precisato, origine incerta.
E nella foto in via Veneto si vede solo lui, perché lei era stata veramente tagliata. Apparivano solo le piumette di struzzo del suo prorompente cappello.
Carità
C’era un covo di zanzare molto aggressive, incattivite dalla lunga siccità, che aveva impestato l’angusta stanzuccia tra il bagno sporco con lo scarico rotto e un deposito di scarpe e vestiti usati, coperte centenarie, borsette da signora della seconda guerra mondiale, giocattoli rifiutati ad ogni Natale da quei bimbi insulsi, viziati, cui è permesso di urlare e importunare chiunque, perché così faranno anche da grandi, ricchi e potenti.
Le brave donne della parrocchia regnavano lì incontrastate, giocando a fare le gran dame di carità, mentre piegavano panni sporchi e sfilacciati, con enormi guanti trasparenti per non prendere le malattie.
Decidevano con lunghe e forbite conversazioni a chi assegnare quel ben di Dio, e se non c’era un cane a prenderselo, lo trascinavano a malincuore al riciclo, in speciali contenitori, per i quali percepivano ugualmente una piccola somma di danaro.
Non buttavano niente. Roba da eleggere tra di loro la presidentessa d’un paese bisognoso.
Per ora le gran dame s’accontentavano di tenere per il bavero tre sacerdoti e una serie di poveracci selezionati per rappresentare ufficialmente la loro categoria attraverso gli anni, come se fossero un partito politico della parrocchia più bisognosa di tutta la ricca provincia.
I poveri preferiti dalle massaie erano naturalmente quelli del ceppo locale, ma ultimamente s’erano dovute adattare a disgraziati che venivano da fuori, poco redditizi che chiedevano l’aiuto a diventare come le loro benefattrici. Roba da matti!
Quando si presentava un extracomunitario, ci pensava la capessa del gruppo, una macellaia che frequentava il doposcuola per anziani e parlava forbito, lentamente, come se fosse con lei rinato al mondo un altro Galileo.
In primis ella faceva accomodare il mendico direttamente dentro il covo delle zanzare tigrate, in una seggiola vicino ai sacchi della monnezza lasciati lì aperti da settimane.
Poi gli faceva il terzo grado, parlando da inflessibile giudice di Dio sulla terra, specificando che se quel miserabile aveva intenzione di mangiare, lì avrebbe spiluccato di tanto in tanto gli avanzi in cambio di occhiatacce e molta umiliazione.
Infine la dottoressa dei mendicanti s’alzava dalla sua seggiola, incastrata dietro ad un tavolo che occupava metà della stanzuccia, cercando di uscirne indenne tra l’armadietto e la porta di Pollicino.
Poco dopo ricompariva con una busta del centro commerciale, riempita alla meno peggio d’alimenti scaduti in offerta. E fissava il prossimo incontro, sospirando appagata dalla buona azione compiuta per la raccolta punti “Il paradiso è tuo”.
Un altro hobby della macellaia in pensione era quello di visitare le mostre d’arte per poi riferirlo alle colleghe, alle quali impartiva nozioni spicciole di cultura prese in qua e in là dalle guide o dai dépliants che forniscono gratis all’entrata di un vernissage come spiegazione dei misteri eleusini.
Ma poi ci aggiungeva di suo. “Mozart era solo un bambinetto che funzionò per merito dell’accorto e probo padre; e finì male per colpa della depravazione che s’impossessò del musicista adulto nei confronti delle donne”.
“E anche Caravaggio, diciamolo in confidenza, era privo di spiritualità!”
Avrete senz’altro compreso che la povera donna aveva una certa confusione in testa, che peraltro dissimulava abilmente.
La grande passione della caritatevole dama era un attore che faceva di tutto, arrivando ad essere proclamato “genio della nazione” senza ch’egli avesse un’arte precisa, se non quella di parlar d’altri e dirne d’ogni colore, zompettando ora su un piede, ora su un altro.
Quando le signore piegavano i panni usati e l’inscatolavano per farli vendere nei mercatini dell’est come merce alla moda, di prima scelta, parlavano d’ogni argomento come veri intellettuali, ma tutte sgranavano gli occhi, prendevano appunti alle conferenze della responsabile del centro per l’assistenza ai poveri.
A volte istruivano anche qualche malcapitato, tra un pizzico e l’altro, senza mai dargli una lira, solo spirito, spirito santo.
Ciompi, carbonari, picciotti
Si riunirono in gran segreto all’alba, in mezzo alla nebbia che c’è anche in piena estate al margine dei boschi su, verso la sorgente del fiume.
Nessuno doveva sapere. Come quando fecero saltare una torre.
I rivoltosi non ne potevano più dei giorni presenti. Dovevano fare qualcosa per mutare il corso balordo degli eventi, se non altro per far vedere che ancora contavano, che avevano agganci e appoggi, estimatori sinceri nella capitale, dentro ai palazzi governativi.
Già da diversi giorni qualche potente aveva sollecitato il loro aiuto, perché quando il paese è messo male, lo salva solo lo zoccolo duro del mulo di campagna, la furberia dell’impiegatuccio di provincia che escogita le migliori macchinazioni per affrontare l’inverosimile, per ribaltare di sana pianta una situazione estrema.
Qui non si trattava più di andare contro una fabbrica di stoffe indiane o di dichiarare fuorilegge i giochini elettronici cinesi. Qui si trattava di salvare i propri mercatoni, le care, immani mangiatoie di casa propria.
Avevano impestato ogni luogo di computers, avevano già messo alla fame mezzo pianeta, ma lì si sarebbero fermati. Non avrebbero messo le mani su amici, parenti e protetti. Avrebbero sconfitto i nemici con ogni mezzo.
Ci voleva di raddrizzare la ruota, un’idea che facesse presa, una cosa mirabolante come lo specchio per una popolazione primitiva che non l’aveva mai visto.
Prima che sopraggiungesse il caldo afoso, i Ciompi, discendenti diretti degli straccioni storici, si lanciarono in una partita di calcio, ma cominciarono a litigare, perché tutti volevano stare all’attacco e nessuno in porta o al centro del campo.
Esaurita la partita, perché impossibile da giocare, i Ciompi si dettero alla magia nera, evocando lo spirito di un grande statista morto.
All’inizio sembrava facile, ma l’opera si rivelò più ardua del previsto, perché erano in molti i politici defunti a non volerne sapere di tornare a questo mondo.
Alla fine si prestò la buon’anima di un morto ammazzato da qualcheduno seduto al tavolo spiritico.
Perdonando da buon cristiano, egli consigliò agli astanti d’inventarsi un verseggiatore che potesse ammansire gli animi imbufaliti dalle privazioni. Un personaggio che sapesse fingere bene d’esser bisognoso, un lebbroso come i poveracci a cui era toccato in sorte di mantenere grassi padroni al governo.
“E’ assai difficoltoso inventare un poeta di sana pianta, ma ci riusciremo, e sarà il più grande di ogni tempo, nazionale, popolare, amato smisuratamente”, disse uno dei Ciompi.
“Ma chi scriverà i suoi versi?” fece eco un altro.
Domanda più che legittima.
“Intanto spargiamo la voce che sia nato e cresciuto tra noi. Poi cominciamo a farlo vedere ad ogni occasione che si rispetti, così s’abitueranno alla sua faccia. Scegliamo per lui i versi migliori dei veri poeti morti, così non possono replicare.
Lui li reciterà altisonante e la cosa andrà da sé. Ecco l’incantatore delle masse agitate”.
La scelta del comitato dei saggi andò a finire sul più bischero dei Ciompi, un ometto un po’ ritardato che divenne in quattro e quattr’otto un ispirato, essendolo già in buona parte di suo.
Per fortuna erano tempi talmente ingarbugliati che l’operazione riuscì alla perfezione e per un po’ la gente affamata ebbe di che cibarsi a piene mani, sognando di diventare un attore, un verseggiatore, oltre che un calciatore o un attentatore.
L’invenzione dei Ciompi fu ammirata a tal punto che l’ometto vispo divenne un genio nazionale, osannato persino da nemici dichiarati.
Ad esempio dai Carbonari, i cospiratori del nord, che ne seguirono l’esempio.
Essi infatti si recarono nottetempo nel locale manicomio femminile e prelevarono una donna coi baffi che stava scolando un boccione di barolo.
Dalla scheda d’internamento si accorsero che quella da ragazza era stata uno schianto di figliola.
La truccarono pesantemente, la ingioiellarono vistosamente e le spiegarono che ella era destinata a diventare una guida spirituale.
La poverina non afferrava bene cosa stesse succedendo, ma accettò al volo, se non altro per uscire dal manicomio e fare la signorona.
Divenne ben presto la versione femminile dell’ometto dei Ciompi, tanto come le spiegarono i suoi dottori: “Poeti si è dentro. Non ha importanza ciò che si scrive”.
Verso sud un’altra popolazione iniziò a manifestare in piazza per avere il suo rappresentante ufficiale di poesia.
Era la potente lega dei Picciotti, il fior fiore della delinquenza dell’intera nazione, con affiliati anche al centro.
I picciotti faticarono molto meno ad avere i propri artisti, perché erano più furbi e sapevano come fare alla svelta senza dolori. Proposero subito una rosa di nomi celebri per i premi letterari più ambiti.
Nomi noti per reati atroci e raggiri truffaldini ai danni del patrimonio comune, diventati in galera autentici poeti, oltre che sorvegliati speciali.
D’altronde l’animo umano nasconde segreti, misteri, risorse imprevedibili.
Faceva un certo effetto vedere un venerabile dei Ciompi ingentilirsi a tal punto da frignare ogni giorno nella sua villa solitaria, agli arresti domiciliari.
Dopo un’intera esistenza passata dietro ad imbrogli, ad estorsioni, a piazzare gente affidabile in ogni posto di potere, ecco che le Muse l’avevano baciato in fronte.
IL venerabile divenne il più bravo verseggiatore, persino dello stracciaiolo e di un collega napoletano che dietro alla sbarra verseggiava da mane a sera.
Forse è per questo che si suol dire “terra di santi, poeti e navigatori”, altro che grandi del passato o piccolissimi del presente!
Foto Alinari
Doveva essere veramente carina da ragazza quella piemontese che s’era inventata un’origine portoghese ed aveva sposato giovanissima il più che maturo produttore cinematografico dal cognome fiorentino celebre, ereditato direttamente da un padre talmente rispettato da avere una statua in piazza, una via a lui dedicata dappertutto come l’eroe dei due mondi.
Cognome ben meritato da Anna Maria che si chiamava in modo più modesto, ma aveva trent’anni meno del consorte e un caratterino indipendente che pagò nel tempo con l’ostracismo e l’avarizia dei miliardari parenti acquisiti.
Non era molto che s’era sposata, quando il figlio di tanto padre prese a consumarsi di cancro e l’unica persona a restargli accanto fu la sana signorina nessuno, finché il poveraccio spirò dietro al sole che tramontava al Pincio.
Anna Maria rimase vedova senza una lira bucata, nel meraviglioso attico di Via Margutta, con i cimeli della breve vacanza romana coll’impresario fiorentino. Le macchine da presa mastodontiche che coprì con un telo, i quadri che lei dipingeva tra una fuga e l’altra da una storia impossibile, in quella Roma a cavallo tra guerra e pace.
Nelle eterne giornate della malattia del marito, soprattutto in inverno, Anna Maria dipingeva quasi senza illuminazione, se non quella che scendeva dall’amato colle.
Aveva fatto una decina di quadri sulla via crucis di quel libertino impenitente che aveva adorato la vita e le donne.
Per il resto ella eseguiva delle nature morte su ordinazione per i facoltosi amici del marito che la pagavano poco o niente.
Quando l’impresario morì sparirono tutti e la pittrice si trincerò in casa con due cani raccattati per strada, durante i suoi lunghi vagabondaggi fuori dal tempo.
Temeva che le togliessero la casa che faceva gola a molti. Allora attaccò alcune scritte perentorie alla porta, perché potessero dissuadere gli avventori malintenzionati. “Attenzione ai feroci cani”, e “se qualcuno prova a forzare, io sparerò”.
Ingenuamente Anna Maria pensava che bastasse.
Passò un periodo di fame nera, mangiando chili di zucchero, bevendo troppi alcolici, stravizi di cui pagò il prezzo in salute abbastanza avanti negli anni. Poi iniziò a ricevere una miseranda pensione come invalida, quando le gambe cominciavano a fare le bizze.
Erano i tempi in cui Anna Maria dava lezioni private di pittura a signorotti annoiati che andavano lì per vantarsi di passare un paio d’orette sotto l’Accadémie Française.
Qualche allievo danaroso prendeva probabilmente le misure dell’attico, in caso di morte dell’occupante abusiva.
Lei e i suoi cani annusavano gli scolaretti spocchiosi, davano loro il voto e se sospettavano di qualcheduno, lo spedivano a calci e ululati giù per le larghe scale dell’antico palazzo cinquecentesco, tra gli sguardi scandalizzati dei vicini.
Dio mio, quella tremenda, zozza canara!
Io ho incontrato Anna Maria giù in strada, vecchia e grassa come uno dei due cani, la femmina denominata “la pecoraia”, perché di razza scozzese e addetta alle mandrie di pecore della prateria.
L’altro cane era un impeccabile bracco, regale nel portamento come fosse vissuto a corte con la regina, meno quando la povera bestia cedeva ai raptus amorosi.
Allora bisognava farlo scendere da solo per strada e aspettare con pazienza che tornasse a bollori sfogati.
Esso aveva un occhio di vetro che Anna Maria gli aveva fatto mettere con una difficile operazione, dopo essere finito sotto una macchina durante una delle consuete scorribande amorose.
Entrambe le bestie prendevano the, camomilla e bevevano anche vino rosso assieme alla padrona, quando ne avevano l’occasione.
Anna Maria mi fece salire, ma mi vietò di camminarle alle spalle, poiché così mi poteva tenere sotto sorveglianza. Siccome lei faticava non poco a fare le scale ed ogni due gradini doveva appoggiarsi al muro, perché il bastone non le bastava, si fermavano anche i cani, uno da una parte, uno dall’altra.
Dopo la prima rampa mi adeguai a quel ritmo, aspettando più su di tre gradini, con la sensazione di mancarle di rispetto.
IL palazzo lievitò come avesse un numero infinito di piani e noi ci mettemmo quasi un’ora ad arrivare all’attico.
Ebbi tutto il tempo che volevo per riflettere sulle condizioni di vita della povera donna, mentre lei respirava a fatica e continuava a scrutarmi dal basso in alto con sospetto.
Il meraviglioso attico così ambito da palazzinari e affaristi d’assalto era un’immensa stalla con mangime per cani, escrementi, peli, penne di piccione che entravano dalle vetrate rotte.
La pittrice dormiva sopra un divano rosicchiato per affetto dalle bestie, sotto ai ritratti del marito sofferente che nella straordinaria luce rossiccia del tramonto romano sembrava seguire ogni nostro discorso.
Ella mi offrì del the in due tazze d’altri tempi e in mezzo a quella miseria giocammo a fare le donne d’una nobiltà molto particolare.
Le chiesi di cosa aveva più bisogno, esclusi i soldi di cui nemmeno io abbondavo. Così fui eletta sui due piedi accompagnatrice giornaliera dei cani in strada.
Anna Maria tenne duro finché poté, finché le fu possibile materialmente, anche perché non riusciva ad immaginare un altro posto dove vivere fuori da quelle antiche mura.
Ma arrivò l’orribile giorno in cui ella ebbe bisogno delle cure di un ospizio alle porte di Roma e non la fecero più rientrare a casa sua.
Mi caricheranno sul carrettone, diceva ridendo.
Adesso io me la figuro a tenere corsi accelerati di pittura agli altri ospiti dell’ospizio, trattandoli con sufficienza, lei, abituata al gran mondo di Via Margutta.
Avrà sistemato i cani lì vicino e perbenino, così, dal pianoterra dove si trova finalmente, può andare da loro a guardare il cielo che è identico a quello del Pincio.
Il treno
Alle ultime elezioni, i vincitori assoluti di sempre avevano dovuto dispensare più favori del solito, venendo a diminuire la fede gratuita negli ideali dei tempi d’oro, quando tutti credevano ciecamente a tutto.
Furono così distribuiti più posti di lavoro da paesino a paesino, facendo sorgere una nuova urgenza per alleggerire la vita ai fedelissimi. Un trenino personalizzato che li accompagnasse nelle operose giornate avanti e indietro.
Questa volta l’amministrazione volle esagerare nel dimostrare al suo elettorato la gratitudine e l’affetto per ora e gli anni a venire. Essa comprò un treno speciale color porpora, munito di due carrozze soltanto, poiché per i pochi lavoratori pendolari era più che sufficiente. C’era da stare larghi a sufficienza.
Il treno al suo interno aveva più operatori che passeggeri, ma questo faceva parte dell’altissima qualità del servizio. Tre macchinisti, cinque controllori e due uscieri nel senso che, facendo pochi metri di percorso a passo d’uomo, il trenino era munito di due giovanotti in livrea come quelli da ascensore d’hotel deluxe.
Essi scendevano ad aprire perbene le porte e risalivano solerti fino alla prossima abitazione, depositando i passeggeri tra saluti, pacche sulle spalle, frizzi e lazzi.
Col tempo furono assunte a turno dieci donne delle pulizie. Cinque addette alle poltroncine e cinque alla suntuosa toilette molto superiore a quelle della prima classe d’altri treni a lunga percorrenza.
Ognuno si sentiva in cuor suo di ringraziare Dio o chi per lui, per il lavoro e per il treno, due doni del cielo in quei tempi bui di miseria altrui e scarsità di lavoro.
Il treno marciava spedito in mezzo al paesaggio immortalato da pittori, cantato da poeti famosi in tutto il mondo, tanto che venivano fin là milioni di persone ogni anno, stranieri sporchi, noiosi, chiassosi. Per fortuna viaggiavano su altri binari, in treni superveloci. Che pazienza per fare un po’ di soldi sulla curiosità di quegli importuni!
Un brutto giorno qualcuno osò dirottare i vandali dai loro treni scassati e in ritardo sul glorioso trenino locale, perché uno di quei lumaconi di latta s’era veramente rotto e non c’era verso di farlo ripartire.
I forestieri invasero le due povere carrozze rattrappite dallo scandalo. Si misero in fila per andare alla toilette, imprecavano ad ogni fermata, pretendevano il rimborso del biglietto per eccessiva lentezza del convoglio, chiedevano persino un carrello portavalige.
Un handicappato furibondo pretese d’essere accompagnato a braccio, visto che le stazioncine non erano attrezzate per lui.
Il conduttore e i suoi assistenti si riunirono in cabina di pilotaggio per un gran consulto.
Dovevano in qualche maniera salvare il loro treno, usando qualsiasi mezzo consentito dalle autorità locali, cioè quasi tutti quelli che non fosse possibile scoprire fuori dal loro territorio.
Fermarono il treno ad una stazione prestabilita e annunciarono che lì stava per giungere un veloce eurostar fornito dalle ferrovie in sostituzione di quello rotto.
I passeggeri abusivi scesero zeppi di valige e viveri per la notte, che sopraggiungeva più veloce del mezzo di trasporto.
Finalmente il trenino era di nuovo vispo e allegro, deserto.
Poco dopo chiusero anche la stazioncina sperduta in mezzo alla campagna, perché l’omino dei giornali e quello dei tabacchi rincasarono alla spicciolata.
Era d’estate e nell’aria si spargevano le lucciole come lanciate a piene mani invisibili, assieme al lamento della civetta dagli occhi rotondi e il fioco borbottare dei grilli più anziani.
I forestieri dormirono lì e la mattina dopo s’avviarono a piedi verso la città più vicina con la speranza di riprendere uno dei treni più grandi.
Si salvi chi può
I
Tre ombrelli a volte s’aprono da soli e parlano a lungo, raccontandosi con dovizia di particolari alcuni episodi della vita assieme al loro proprietario.
Vanno avanti così per ore ed ore, pensando di svolgere un ruolo importante, fondamentale, e finché non sono soddisfatti non si richiudono mai dentro alle rispettive custodie.
Uno degli ombrelli è in realtà un ombrellino da passeggio a fiori, con il manico più che vecchiotto.
Adatto a riparare dal sole, non a proteggere a sufficienza dalle intemperie, esso fu rubato anni addietro in un negozio, anzi, più esattamente fu abbandonato lì da un proprietario smemorato, e uno nuovo lo prese per sé.
Non ci crederete, ma un ombrellino così tenero, raffinato, pretende di riparare dai guai seri. Fa ridere solo a sentirlo, ma quando esso è ben aperto, lì sotto si sta proprio da re.
Per questo più che valido motivo l’attuale proprietario si guarda bene dal buttarlo via, nonostante quel manico unto e bisunto, sporcato un po’ per volta in un modo che non si può smacchiare.
Un altro ombrello è un comunissimo ombrello a quadrettatura scozzese, dai colori che s’abbinano bene con ogni tonalità di stoffa indossata. Ne è diffuso a livello di massa il modello portatile.
Ha un solido manico che sembra il bastone dei ciechi, ma ha le bacchette dell’apertura un po’ rovinate, vale a dire che quando resta aperto per molto tempo è un po’ difettoso a richiudersi, se non prende botte sonore.
E’ con orgoglio sconfinato che questo ombrello non bello a vedersi ripara da cose civettuole, quasi innocue.
Il terzo ombrello è molto grande, lussuoso, con su stampati i monumenti più belli dei diversi stati del mondo. E’ l’ombrello delle grandi occasioni da prendere al volo. Se tu ci vai sotto, diventi irresistibile, piaci come mai prima t’era capitato.
Anche se non piove, conviene esibire questo ombrello che trasforma la vita di chi ha la fortuna d’aprirlo. E' l’ombrello che tutti vorrebbero avere.
II
C’è sempre un’onda del mare che porta finalmente qualcosa per te. E’ meraviglioso se viene dopo una notte di luna piena, umida, quasi fredda, anche se il plenilunio è sopra il mare di Sicilia. Accendi un fuoco per scaldarti.
Hai incontrato qualcuno che dormiva lì vicino.
S’è alzato dalla sabbia, ti ha guardato e tu ora non riesci a chiudere occhio per lui e per la luna piena che rende nervosi, recettivi come animali, come piante.
Avrai dormito tra sì e no tre ore, hai la pressione sottozero, perché di giorno l’aria è bollente, chiude le narici, ti fa svenire.
Ti metti sotto la doccia, resti lì, finché non ti si gelano le ossa e batti i denti dal freddo, come avessi la febbre. Non hai motivo d’aver paura, se non di ciò che ti sta per accadere.
Lo stringerai platonicamente, sentendo una similitudine ignota. Poi ti sentirai un naufrago, un relitto umano tenacemente aggrappato a qualcosa di strano, teneramente abbandonato ai misteri del cosmo.
Indimenticabile rivelazione, una legge gravitazionale, dopo il presagio di quell’ombra bianchissima, accecante, il giorno prima.
III
Di solito saliva più in alto che poteva con un binocolo molto potente, capace d’avvicinare la bellezza di un paesaggio lontano.
Sopratutto quando era in vacanza, in perlustrazione di posti nuovi, mai visti, egli si sedeva pazientemente per ore ed ore in un punto speciale, da dove scorgeva il massimo all’orizzonte.
Prima cercava di catturare qua e là spettacoli interessanti, poi iniziava a spulciare nei particolari, scegliendo soggetti a piacere.
Era un po’ come il gatto quando prende di mira un animalino più piccolo, ad esempio una lumachina, un bruco e ci sta per ore, fino a che non ci si addormenta sopra, sognando di averli mangiati o persi nel nulla.
Quel giorno, stancato da un lungo giro, s’addormentò. Quando si risvegliò era quasi notte e non c’era più niente da vedere.
Ancora appisolato cercò con le mani il binocolo, invano.
Si guardò attorno irritato e capì subito che qualcuno s’era approfittato del suo sonno per rubargli l’attrezzo.
Guardò a lungo nei paraggi, niente.
Allora si scoraggiò del tutto e lasciò perdere.
Mentre scendeva verso la grande piazza illuminata, gli venne il sospetto d’aver perduto da solo il binocolo, ma poi pensò ancora ad un furto.
Bastava un fruscio del vento, un canto improvviso d’uccello e si sarebbe destato, sorprendendo il ladro nell’atto di rapinarlo. I soldi però li aveva ancora.
Sconsolato, come colpito da inaspettato lutto, egli si sedette nella prima seggiola libera di un ristorante nell’angolo buio della piazza.
Mentre leggeva distrattamente il menù, due mani si posarono leggere sui suoi occhi, ed una voce particolare gli sussurrò all’orecchio: “Sono stata io a rubarti il binocolo, altrimenti mi avresti disturbato, quando sarei scesa nel mio posto segreto”.
La fuga
I
Un bambinetto scese trafelato le scale, precipitandosi fuori dal portone del collegio. Libera uscita, compiti eseguiti per il giorno appresso, pensieri in testa zero, sentimenti nel cuore uno solo. Una nostalgia forte di casa, delle voci amiche d’una solerte cameriera e di un eccellente cuoco, i suoi genitori.
Il signor conte, il padrone, gli incuteva un misto di paura e di rabbia incomprensibili. Erano solo pochi giorni che avevano consegnato il futuro scolaretto alla custodia del collegio sul colle.
Il bimbo era troppo piccolo ancora per capire che il gesto era un favore alla coppia di fedeli servitori, cui il nobile s’era affezionato. Con quelle gambette fece un paio di volte il corso, fino alle due entrate ad arco, comprando i dolciumi al solito posto.
Era ora di rientrare in camera, perché il sole era sparito dietro al severo municipio e di lì a poco il chiarore della luna semipiena si sarebbe espanso sui vigneti e tra gli ulivi.
Egli s’avvicinò lentamente al portone, quasi trattenendo il respiro, come se si sentisse nell’aria assieme al battito del cuore.
Passò qualcuno di fretta e non fece caso a lui.
Il portone era appena socchiuso per far passare qualche ritardatario. Il bambino gli girò le spalle e cominciò a camminare veloce verso l’arco più grande, quello che apriva al buio inquietante dei campi, il più pericoloso.
Non s’accorse nemmeno per quanto camminò, ma i piedi gli facevano male e i campi erano finiti in qualcosa di più fitto e più brullo.
Camminò ancora, fino a che il sonno se lo mangiò vivo, sudato e spaventato.
Dai suoi sogni sotto la quercia scura, molti anni dopo, nacque uno dei personaggi più amati dai bambini di tutto il mondo.
Cosa vide per la Val d’Elsa, da che fuggì, dove tornò, lo sapete già voi, mentre lui, da adulto, pensò d’inventarselo di sana pianta per la prima volta.
II
Suonava dall’alba, in quell’albergo un po’ freddino. Una torre dove s’erano scatenati tutti i fulmini che il cielo aveva potuto trovare nelle sue officine infernali. La stanza era inondata da fasci di luce ed egli più d’una volta era saltato dallo sgabello davanti al pianoforte al gelido pavimento sotto al letto.
Il ragazzetto avvertiva un vago senso d’angoscia, persino quando la cameriera passava accanto alla porta. I passi di lei rimbombavano col suono di un tamburo sfondo.
Così giovane, così dotato era uno dei musicisti più corteggiati dalle teste coronate d’Europa, ma nessuno aveva mai preso in considerazione l’idea che egli fosse un artista sublime, un compositore, oltre che un valido esecutore.
Egli desiderava suonare nella torre fino al tramonto, fino a quando sarebbe arrivata una carrozza per condurlo nel luogo dell’esibizione.
Il fanciullo quattordicenne scappò un po’ prima dell’appuntamento alla torricella e vagò per la città da solo, fino all’alba del giorno dopo.
Poi tornò per dormire, proprio dove oggi ci sono due finestre murate, nella piccola torre vicino al Duomo, ma anche a Santa Maria Novella.
III
Si sentiva spiato e non era mai stato in precedenza un tizio da manie di persecuzione, avendo l’abitudine a spiare lui la vita degli altri per il mestiere che svolgeva.
S’alzava alla mattina e s’accorgeva immediatamente che i vicini di casa o gli altri esseri con cui intratteneva essenziali rapporti commerciali, stavano a controllare i suoi orari per sparlare in giro della sua grama condizione di uomo solo.
Era una reazione naturale alla sua libertà, lo spazio grande che occupava ogni giorno, fatto invidiato dagli avanzi di unioni forzate. Era una minaccia neanche tanto velata alla sua condizione di platino purissimo.
Essendo arrivato da poco in quel posto unico al mondo, egli cercò di documentarsi accuratamente sulla curiosa malattia da cui si sentiva improvvisamente afflitto.
Pensò ad altri colleghi che avevano preso dimora in posti simili al suo, e a quello che era successo anche a loro.
Uno ad esempio aveva annotato d’essere come ubriacato dalle opere d’arte. La bellezza in dosi eccessive avrebbe avuto su di lui l’effetto di un litro di vino rosso o due litri di birra chiara o un’estasi parareligiosa. Insomma, restava ebete per una decina d’ore filate.
Sentì dire di un altro collega che aveva abitato lì intorno. Lavorava, lavorava e quando usciva o apriva semplicemente le persiane, veniva assalito da una specie di nostalgia della gelida patria.
Egli si sentiva sorvegliato come dalle guardie dello zar, una sensazione orribile che lo rendeva un perfetto idiota.
Gli vennero mali immaginari, visto che qualcuno vero ne aveva acquistato strada facendo e l’unico modo che scovò per curarsi da sé fu quello di descrivere uno strampalato tizio che inseguiva un fallimento dietro l’altro.
La popolazione indigena era così misurata che all’improvviso perdeva il comprendonio e bestemmiava, una cosa da far ribrezzo, unita alla maleducazione verso gli stranieri, ad una certa aria da santa inquisizione che si respirava ovunque. Alla fine se n’aveva terrore come di fronte ad inconsapevoli mostri.
Una voce misteriosa che proveniva dalle statue del fiume urlava: “Scappa anche tu, salvati!”.
Egli lasciò in tutta fretta l’alloggio di Piazza de’ Pitti, anche se aveva pagato la pigione per altri mesi.
Uno dei lati del grande palazzo era un tappeto di merda e piscio che al sole avrebbe sollevato un tanfo insopportabile anche per quella giornata.
Dio, perché nessuno puliva mai?
Passeggiando per l’ultima volta lungo il fiume, la città gli apparve come un’anziana signora degli anni venti, con un bastone da passeggio a due ruote e ganci per appendere la spesa che via via andava facendo.
IV
E così mi ritrovo ancora a scappare dal posto dove mi sono posato per un po’, una piccola casa vecchia e molto triste, piena di falsità, rancori mai sopiti, tentativi maldestri d’imitare la felicità altrui, o sottrarla con subdoli artifizi.
Casa di streghe travestite da fate turchine.
La notte facevo ancora brutti sogni. Allora mi sono alzato ed ho cercato un portafortuna, una protezione nell’aria, una grande madre cui rassomigliare.
Dal computer uscì fuori un’alta signora molto vecchia che dipingeva tranquilla di fronte ad una natura incontaminata.
Mi sono spulciato il catalogo dei suoi quadri e il sonno m’è tornato senza indugi. Udivo il mio ronfare da camionista.
Sono entrato nel mondo dove nevicava e c’erano fuochi accesi, bambini che mangiavano dolci profumati come caramelle alla frutta. Era festa in paese. La grande madre era a prendere un the con gli amici, che cercavano invano di distoglierla dal cavalletto per portarla fuori.
All’improvviso l’inverno era finito, la primavera inondò i campi di fiori. La grande madre usciva all’alba e non rincasava che quando il sole andava a cuccia come un grasso cane da pagliaio. Vedevo il giallo della paglia.
Mentre lasciava il suo scenario per il giorno appresso, ella pregava, perché le fosse concesso ancora un altro quadro da dipingere.
Io mi sono svegliato di nuovo, e le streghe erano sparite.
L’orafo
Per molto tempo ebbi una specie di padre d’adozione, un signore romano che aveva lasciato la sua adorata città per amore del figlio maggiore, uno scapestrato finito in brutti giri nella capitale.
Il mio babbo romano era un ottimo orafo e se ne stava ogni giorno al buio nella sua officina segreta a lavorare il prezioso metallo.
Io potevo andare a mio piacimento, suonando un campanellino esterno, collegato alla videocamera. Era un sistema usato per difendersi più dal figlio che dalla gente del posto, ancora poco avvezza a furti in gioielleria.
Ogni mia visita era accolta come se si dovesse festeggiare e godere della reciproca compagnia, con saporiti racconti della sua gioventù romana. Aveva fatto la comparsa nei kolossal americani e in quelli di costume dei vecchi registi italiani, artigiani del cinema, del teatro, delle riduzioni televisive.
Egli era capace di fantasticare entro quegli scenari del suo passato per ore ed ore, se non sopraggiungeva qualche cliente. Cosa rarissima.
Intanto che parlava, lavorava di sottile con la fiamma ossidrica e gli occhiali protettivi.
Vedevo il fuoco dorato a distanza, i ferri del mestiere incidere sui frammenti di lava gialla prima che si raffreddassero, prendendo una forma.
A Cinecittà, nelle pause dal set, la comparsa aveva conosciuto l’amore della sua vita, una romanaccia che faceva la costumista e guadagnava molto più di lui a quei tempi. Anche la signora in questione divenne una madre d’adozione per me, così allegra, innamorata cotta del suo attorucolo, e poi in adorazione d’una specie di Cellini dei tempi moderni.
Andava sempre a finire che si faceva tardi, ed ero invitata in villa a cena, e se avessi voluto anche a dormire. Ma io rifiutavo, perché avrei cavato gli occhi al figlio e anche alla figlia.
Del figlio abbiamo detto a sufficienza e forse aggiungerei che s’ambientò bene nel paesetto tra Umbria e Toscana, a tal punto da divenire uno di quei saccenti, papponi e nullafacenti figli di cui va fiera la sana, tranquilla, politicizzata, acculturata provincia italiana.
Dalla mattina alla sera aveva richieste e rivendicazioni nei confronti dei genitori che pure non gli avevano mai fatto mancare nulla, se non i soldi per delinquere.
Ma ora lui, rinsavito, ne voleva molti di più per fare l’intellettuale generoso con amici e cervelloni del suo pari. E si vergognava apertamente dei genitori, come se fossero stati troppo ignoranti per tale prole.
La figlia non era migliore del fratello, sempre dietro ai figli di papà del posto, anche brutti come ramarri, purché in età da fidanzamento ufficiale. Svitata, fissata con le sedute spiritiche, ella considerava la madre troppo materialona per parlare con gli spiriti di casa.
I miei genitori putativi non s’erano ambientati nel posto, nonostante la bravura dell’orafo e la sua innata simpatia, la signorile prodigalità che lo portò a sperperare un consistente patrimonio per essere accettato dai signorotti del luogo ed entrare nei giri giusti di clientele.
Ma era come se quelli avvertissero la sua diversità, il fatto che egli venisse da tutt’altra esperienza di vita e di pensiero.
Oddio, per gradire gradivano pranzi e cene, ma poi non contraccambiavano e si defilavano in silenzio, considerando il mistero dell’ingente capitale che il signore romano aveva accumulato in Sudamerica, non si sa bene con quali modalità.
Tra le spese di manutenzione dell’enorme villa, quelle per falsi amici e figli degeneri, l’orafo si trovò alle strette finanziariamente, cosa del resto mai accennata con me, perché amava ridere come sempre e con ironia godersi la vita.
Io credo che anche tra coniugi fingessero d’essere sempre ricchi per una questione di carattere, d’ottimismo, di delicata incoscienza.
Lui in specie continuava ad essere contento dietro al suo tavolo di lavoro, estasiato d’ogni mia visita, prolisso come non mai sulla sua giovinezza d’aspirante attore.
Fino al giorno in cui mi salutò affettuosamente, perché la villa era perduta e il laboratorio orafo venduto a pessimi acquirenti.
Sparirono così entrambi dalla mia vita, da un’ora all’altra senza preavviso. E dopo un po’ in paese presero a girare strane voci su un presunto suicidio collettivo, da cui sarebbero scampati entrambi i figli come per miracolo.
A queste tragiche dicerie ne seguirono altre più attendibili, dovute ad una breve visita del figlio agli amici di un tempo.
Sembrava che l’orafo avesse aperto un più che modesto laboratorio nella periferia della capitale, riducendosi a vendere monili per comunioni, cresime, battesimi e anniversari in genere, cosa sempre aborrita in favore della libera ispirazione artistica.
Qualche lingua lunga diffuse anche aneddoti sul presunto capitale in Sudamerica, sul fatto che non il figlio, ma l’orafo stesso fosse stato un delinquente incallito e dovette lasciare a suo tempo Roma, perché era incappato in guai grossi con la legge.
Allora era davvero un discendente del Cellini!
La signora aveva certamente ragione e ad altro non credo, perché vivo in uno strano posto, capace di rendere illegale l’innocenza e viceversa di seguire come legge le cattiverie più assurde.
Mi fido del mio istinto e di ciò che vedo da solo, senza interpreti.
Ricordo ancora l’odore particolare dell’oro che si fondeva, i libri sull’arte orafa ben messi in una deliziosa libreria appena all’ingresso del laboratorio.
E ricordo una squisita coppia di coniugi, veri signori in mezzo allo squallore dell’oggi. Da togliersi tanto di cappello.
L’allegria di un eterno presente come solo i veri romani sanno godersi attimo per attimo, fino all’ultimo respiro.
Gli altri si salveranno pure il culo, ma a che prezzo!
I signori romani vivono, e a volte ci lasciano le penne, in provincia.
La ballerina classica
Aveva danzato per tutta la vita, prima di conoscere quello strampalato prigioniero di guerra, che s’era trovato talmente bene nel Paese vincitore, da decidere di rimanerci e di darsi al mestiere che voleva fare da sempre, l’artista.
In genere simili amori finiscono in tragedia, invece il loro si consolidò nella reciproca libertà. E lei danzava, e lui eseguiva opere mastodontiche in giro per il mondo, facendo tappa fissa nel proprio paese d’origine.
Quando non calcò più la scena, Irma continuò a ballare in spazi suoi, con la rigida disciplina di sempre, perché una ballerina classica vera lo è per tutta la vita, anche se nel finale accenna e basta ai movimenti perfetti della giovinezza.
L’amore suo eseguiva mirabili opere in spazi suoi, ed era bravo a trasformare quelli che poteva avere a disposizione almeno per un po’ di tempo.
Non s’accorsero nemmeno degli anni che passavano, divertendosi da soli e in compagnia, come adolescenti scatenati.
Lui le fece un ritratto particolare in occasione dell’ultimo anniversario che trascorsero insieme. Prese un tronco d’abete marino e lo avvolse con tanti rami d’edera, apparentemente a caso.
Ma a chi lo osservava da vicino, quel lavoro sembrava tante figure diverse. Mutava sia il volto che il corpo in continuazione.
All’inizio Irma si offese, abituata com’era ai ritratti di ballerine, e del mondo che attorno ad esse girava, dei maestri francesi. Ma poi la prese con la solita ironia che la distingueva, guardando il ritratto di nascosto, quando il marito non c’era.
L’artista si ammalò e poco prima di lasciarla per sempre da sola, fu avvolto dalla nostalgia del paese natio e fece il tremendo sbaglio di ricercare i compagni della gioventù, quelli da cui era scappato per inseguire il suo sogno.
Non aspettavano altro. Qualcuno era diventato medico condotto al posto suo, un altro s’era dato alla critica e storia dell’arte, lui e l’intera famiglia, ma nessuno possedeva un patrimonio consistente come il nostro artista, nonostante la vita parca di provincia e i pochi vizi.
In men che non si dica si creò un comitato cittadino per la tutela dell’opera omnia del maestro, osannato come il figlio prediletto dell’intera vallata.
Gli regalarono i capannoni di due fabbriche chiuse per mettere i lavori che voleva, ma poi pretesero quasi tutto quello che l’artista aveva fatto, meno le opere più mastodontiche, su cui comunque posero i diritti d’autore.
In parole povere s’accaparrarono tutto ciò che il nostro aveva lasciato liberamente in ogni luogo dove aveva operato.
La ballerina classica rimase a danzare in silenzio, senza la musica, perché le sembrò che quello fosse il suo lutto da indossare, più che i colori scuri o il taglio dei capelli.
Si trovava nella casa in collina che il marito aveva acquistato nella terra dove egli era nato e dove andò a morire per nostalgia delle zolle, degli alberi, dell’aria.
Ballava quasi al buio, guardando ogni tanto il ritratto a lei dedicato, che era finito con tutto il resto a quelle latitudini.
Il tronco era lui, si vedeva ormai chiaramente, e l’edera rampicante era lei, mentre eseguiva gli arditi passi della sua cara disciplina con enfasi tenace, metallica.
Purtroppo giù in municipio si stavano già spartendo anche quest’ultima fetta di torta, senza nemmeno prendere in considerazione l’esistenza d’una consorte straniera.
Non si sa con quali raggiri l’intero patrimonio dell’artista finì ad essere amministrato dal critico d’arte e dalla sua numerosa famiglia, come fossero loro i parenti più stretti del celebre defunto.
Fecero passare la moglie come usurpatrice straniera, ladra in casa propria.
Più Irma si ribellava, più era dipinta come una strega che aveva oppresso odiosamente il divino maestro, riconsegnato alfine ai suoi amici fidati, in ottime mani.
Gli ufficiali giudiziari arrivarono all’alba e sfondarono le porte della villa dove la ballerina dormiva soavemente.
In un attimo si ritrovò in mezzo alla campagna, in attesa che un taxi giungesse fin lì per riconsegnarla al suo paese natio.
Nella rabbia del momento ella aveva lottato tenacemente per tenersi almeno il suo ritratto, ma invano.
Sentiva ancora male alle braccia ed aveva qualche graffio dovuto alla violenta colluttazione.
In parole povere l’avevano sollevata di peso e scaraventata letteralmente in giardino come un sacco dell’immondizia. Ma non era quello il male che sentiva.
Aveva con sé per fortuna le foto delle opere del maestro e la speranza che la morte la riunisse a lui, di nuovo a giocare e a divertirsi come se niente fosse successo.
Irma morì in pochi mesi e la città natale di suo marito festeggiò con grandi mostre, apertura del museo ad orario continuato, convegni e grandi banchetti.
Il ritratto della ballerina classica troneggiava solitario in un’apposita sala senza custodi, perché durante il trasporto dalla villa a lì erano successi dei fatti alquanto bizzarri e la gente aveva paura.
Alcuni operai erano scomparsi e non se ne seppe più niente.
Nessuno aveva notato che il quadro era cresciuto di dimensione, col tronco più largo e l’edera divenuta una specie di pianta grassa.
Poi scomparvero alcuni professori, qualche politico, un paio di giornalisti e il critico ufficiale del museo, tutte persone che s’erano dovute avvicinare all’opera obtorto collo.
Il materiale pittorico uscì dalla cornice e divenne una grande scultura, come molte altre opere eseguite dal maestro in tutto il mondo.
Era bellissimo quel materiale buttato là apparentemente a caso, tanto che divenne ben presto l’opera più visitata dai turisti, cui non succedeva nulla ad avvicinarsi ad esso.
Anzi, dopo le morti misteriose degli ultimi amici di un tempo, letteralmente spariti dalla faccia della terra come non fossero mai esistiti, l’opera s’era assestata in dimensione, così da poter rimanere nella stanza più grande del museo.
Quando l’ho immaginata in sogno, io ho visto in essa un amore forte, capace di escludere l’esterno e di divorarlo se quello non era gradito alla coppia. Una coppia di vita e di morte.
La setta
Zona di Milano, brutta, della mia infanzia quasi adolescenza.
Confesso d’esser stata una povera campagnola che sognava un principe azzurro a cavallo d’una grossa moto o alla guida di un vecchio furgone Ford blu elettrico che mi sembrava allora la fine del mondo.
Le sensazioni legate a quel furgone sono nel ricordo talmente intense che per me nessun fuoristrada d’oggi potrà mai competere con il Ford bacucco.
Lui sul furgone ci caricava le borse in pelle della ditta dei suoi genitori e andava a consegnarle ai negozi.
Era un ragazzo scatenato, vitale che andò in mille pezzi quando la fabbrica fallì e i suoi genitori si ridussero a cucire le borse d’altre ditte in un garage puzzolente. Un po’ come i cinesi d’oggi per sbarcare il lunario.
Da figo figlio di papà, passò ad essere il figlio di due onesti operai che continuavano a volersi molto bene e facevano tenerezza nel loro candore.
Lui cambiò ed io presi ad odiarlo con tutta me stessa, tanto prima lo avevo idolatrato, sopratutto perché faceva del male ai suoi. Per farsi le dosi d’eroina rubava loro di tutto, finché essi furono costretti a mandarlo via di casa.
Prima era bellissimo e si trasformò in uno sgorbio pelle e ossa. Persino quegli occhi verdi erano come spariti, inghiottiti dal bianco delle orbite fatte d’eroina.
Stavo male quando l’incontravo e così cambiai giro d’amicizie, quartiere, tutto.
Ma anche Milano è piccola per certe cose. Dopo un po’ l’ho incontrato in galleria, fighissimo, taglio corto, vestito firmato. Però era tanto strano.
Aveva gli occhi più vispi che sotto eroina, ma ugualmente fissi e rideva, rideva di continuo senza motivo, come se adesso prendesse qualcos’altro che lo obbligava ad esibire una spaventosa, incontenibile felicità.
Mi offrì una tazza di cioccolato nero di cui sono sempre stata ghiotta e mi disse che dovevo smettere di bere quelle porcherie, che per la mia pelle di porcellana dovevo mangiare una mela rossa al giorno, intera, con buccia e semi.
Poi iniziò a farmi discorsi filosofici sul suo passato di fallito e sul presente radioso.
Mi complimentai con lui per l’impresa. Allora mi disse che se volevo io potevo diventare una ragazza ammirata e di successo, attraverso uno speciale addestramento.
Già l’idea di quella mela obbligatoria mi faceva girare le palle, perché pensavo ad un’antica favola saggia in cui una giovinetta rischiò di morire avvelenata proprio per quel frutto donatole da una strega invidiosa.
Pericolo rosso! Rifiutai, e lui per ripicca fece coppia fissa con una delle istruttrici del famoso corso per le menti di successo, una tipa più grande di noi, grassa e stronza.
Una notte s’ubriacò, cosa aborrita dai filosofi della setta che stava spopolando per Milano e dintorni, soprattutto dove c’erano stati soldi e fatturazioni finite al vento, accompagnati da forti sensi di insoddisfazione e rivalsa.
Divenivano capi operativi solo quelli più ricchi, quelli che i soldi ce l’avevano sempre a disposizione. Gli altri li lasciavano membri effettivi di un vasto limbo coreografico e popolare.
Per quanto sotto sbronza, egli aveva ancora quel ghigno plastificato che doveva esprimere al suo prossimo un ottimismo a oltranza.
Mi disse che poteva venire in camera mia come e quando voleva, perché al corso d’addestramento aveva acquistato poteri speciali.
Allora realizzai che il suo cervello era più fuso che sotto eroina. C’era stato un tempo in cui lui poteva venire facilmente da me, bastava chiedere e la risposta sarebbe stata affermativa, perché lui aveva un potere molto speciale, unico su di me, altro che setta!
A Roma, in uno di quei giorni bigi in cui i politici sono più pazzi del solito, il traffico è bloccato, il tempo è infernale, sbarcò la setta di Milano per prudenza, perché da quelle parti era finita sotto inchiesta giudiziaria, rischiando di festeggiare la gran carriera compiuta in galera, sia ben chiaro anch’essa di grido, famosa.
Uno sconosciuto pelato e piuttosto rotondo, ridendo a quarantotto denti, anche se per rispetto alla setta che si rifà addirittura ad una filosofia della scienza bisognerebbe scrivere trentadue, mi offrì un volantino che mi invitava all’inaugurazione del tempio romano.
Il tredicesimo ospite
All’ultimo funerale andai vestito molto bene, mi sentivo bene, ammiravo i fiori, il dolore delle altre persone che avevo visto alcuni anni prima, e s’erano trasformate fisicamente: di alcune ho dovuto ascoltare attentamente quando le chiamavano per nome, perché erano proprio irriconoscibili. Vedevo anche tutto il loro imbarazzo; si sentivano fuori posto.
Il prete cantava con una bella voce, ma non l’aiutava nessuno nei suoi gorgheggi al Padreterno. Lentamente si spargeva nella piccola cappella del cimitero un senso di ridicola farsa.
S’erano quasi tutti defilati dal farmi visita negli ultimi anni, ed ora erano lì, intorno a me, affettuosamente raccolti. In molti s’erano inventati la scusa che preferivano ricordarmi da giovane, sorridente, pieno di vita; non potevano certo immaginare che anche io avrei preferito non avere la visione che mi si parava davanti: le mie due sorelle, un tempo bellissime donne sensuali, erano diventate due scrofone ingioiellate, con qualche strato di seta panterata.
Non parliamo poi dei parenti acquisiti, i cui stomaci sembravano imbottiti di gommapiuma, e le cui consorti imbellettate, con i denti sbiancati, erano gorilla addomesticati male.
Che io sia peggiorato, incattivito nella mia curiosa situazione? Non avevo mai notato direttamente quanto fossero brutti.
Prima di recarsi al funerale avevano organizzato un pranzo in casa per dodici persone, un pasto frugale, veloce, giusto per tenersi in forze nel caso la cerimonia si fosse protratta più del dovuto. Il gatto, non essendo una persona, non faceva il tredicesimo incomodo da sotto il tavolo, dunque, la tranquillità regnava attorno al desco. Gli ospiti mangiavano di ottimo appetito, rilassati, nonostante la tragica circostanza.
Ma anche in questo si sbagliavano di grosso, perché io ero lì, e siccome nessuna delle pietanze servite era di mio gradimento, m’ero messo a mangiucchiare qualcosa e a bere una birra rossa accanto al frigo.
Non m’ero mai chiesto il significato del detto “tredici a tavola”; credo di aver fantasticato a lungo fino ad oggi, quando l’ho compreso chiaramente.
Il gatto m’intercettò all’istante; prima fece un codone gonfio come quello di uno scoiattolo, ma poi, siccome non beccava niente dai commensali, sempre col codone e un’andatura prudenziale, venne nei paraggi per rimediare prosciutto e formaggio.
So che vorreste essere rassicurati a questo punto da me, sulla mia vera condizione attuale, ma non ho potere, né capacità per farlo.
Oltretutto non sono affatto sicuro di come sarà per voi, perché da vivi si dicono e s’immaginano tante fesserie che non corrispondono alla realtà.
Fatto sta che per me andò così, e non è piacevole pensare cose sgradevoli delle persone con cui sei vissuto in gioventù.
Meno male che un amico di campagna s’è ricordato che intorno al mio compleanno io gradivo le sue castagne, i marroni di bosco, buoni!
Me li ha portati in abbondanza: e tutti pensavano con compassione che il poveretto fosse dato fuori di testa per la gran depressione.
François
Qualche anno addietro io gestivo un piccolo negozio di articoli sportivi, zeppo soprattutto di vestiario ed accessori, che mi andava piuttosto bene, prima che i politici e chi per loro decidessero di comune accordo di svuotare le tasche a tutti, per mantenere piuttosto colme le loro, i nullafacenti parolai bla bla bla.
Uno dei miei clienti fissi, divenuto a poco a poco un amicone, era François, un ragazzo di Casablanca, venuto lì a cercar fortuna. Egli era molto bello, il più alto e ben fatto della colonia di marocchini della zona, il più gentile, sempre allegro.
Vendeva a sua volta occhiali firmati, in giro per le strade, e naturalmente ne aveva appioppati anche a me di tutte le marche.
Io ero il suo mito, l’amico che aveva molti soldi, almeno nella sua immaginazione. Ero lusingato dai suoi vaneggiamenti, mentre in realtà faticavo, annaspavo per riuscire a pagare i gabellieri pazzi.
François aveva le tasche piene di contanti ogni giorno, e ci acquistava tute, maglie, camicie, pagando sempre dopo lunghe trattative per avere lo sconto, perché era abituato così.
Si divertiva tantissimo, faceva parte della nostra amicizia. L’unica cosa che non voleva ficcarsi in testa era l’esistenza raminga del prezzo fisso, già scontato, e il concetto troppo macchinoso che la merce sottocosto era in remissione, ma forse aveva ragione anche lui.
Quando io dicevo che ci rimettevo troppo a dargliela ad un tale prezzo, allora la prendeva al volo senza far storie, e mi guardava con l’aria scanzonata, ma solenne di chi è affezionato e ti considera un capo sul serio.
Infatti così mi chiamava: “capo”, “come stai capo?”, “va bene, capo”.
Non m’ero mai chiesto da dove provenisse il contante di François, ma certamente non dagli occhiali da sole.
Sapevo che piaceva molto alle donne: era inevitabile con quegli occhi di un nero dorato e quel fisico perfetto.
Così ogni tanto lo usavo come indossatore dei nuovi capi d’abbigliamento da far conoscere in giro; egli era più efficace e conveniente dei soliti manifesti pubblicitari.
Tale compito era oltremodo lusinghiero per lui, tant’è che finiva quasi sempre per innamorarsi di ciò che aveva indossato, ed iniziava le solite, lunghe trattative d’acquisto.
Immaginavo che rivendesse la merce, ma non era così, perché giorno dopo giorno François sfoggiava i capi comperati, lavati e stirati.
Quando dovetti chiudere il piccolo negozio e scappare via, inseguito dai banditi del posto e dintorni come dagli sceriffi di Sherwood, persi i contatti anche col mio amico. Ci ritrovammo fortunosamente in un bar di Londra a bere per ricordare o dimenticare.
Mi raccontò di quanto erano troie le donne della mia città natale, soprattutto le mogli dei dirigenti del partito, le riccone annoiate che se lo scopavano per incredibili attacchi di populismo filoarabo.
Ecco dove prendeva tutti quei contanti!
Per il suo ottimo carattere riusciva a scherzare e a vantarsi persino di quel fatto increscioso.
“Capo, andavo come un cavallo, non si potevano lamentare!”.
Al presente stava con una tardona assatanata, una rompiballe, ma più casalinga delle intellettuali; nonostante questo sentiva che sarebbe fuggito ben presto dal caldo nido.
Mi chiese se volevo scappare con lui, ma il sottoscritto ancora non se la sentiva, era troppo presto, non aveva rimesso i denti che gli avevano buttato giù.
François aveva lasciato Casablanca giovanissimo, per mantenere due mogli che poi aveva lasciato; ne voleva prendere una europea, ma libera, non già sposata, o troia.
Scoprì che anche per un bellone come lui quel desiderio era un tantino difficile da realizzare; iniziò a bere e a fumare troppo, a perdere i capelli sulle tempie, a mettere su pancetta.
Nel congedarmi da lui, io lo sentivo molto fratello di disgrazia, perché nessuno lo voleva per quello che era; io ero un buon commerciante, e François sarebbe stato altrettanto in gamba come venditore.
C’era qualcosa che non mi andava giù nella nostra storia di giramondo stenterelli che sopravvivevavo d’espedienti, di ciò che si trovava su piazza nel continente vecchio.
|
|
|