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versione italiana
english version
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Mille grazie, o Luna
che tocchi terra ancora
nella notte novembrina
cinta da tre punte argentate
dalla spada diamantina d’Orione.
Hanno consegnato un vivente, alle nove di sera
mille anni luce da qui, al suonatore asiatico.
Non è che un fagottino, non avrà miliardi dal padre
nel suo paese di calciatori e ragazze ponpon.
Fuggirà sopra uno scorpione, con Panacea
che non cura più nemmeno le piante
in questo cieco mondo di Erinni.
Ogni messaggio è una scritta morta
appiccicata con gli sputi alla finestra
di dolenti città. O vite corte
non seguite le rughe del tempo
e tutto sarà falso, ma perfetto.
Nessuno di voi dovrà affrontare l’oscuro
ciò che il sole non riesce a coprire.
Il cane cieco del compagno Pino
cerca, abbaiando, l’uscita dal barbiere.
Dove è la Città del Castello? Esiste?
Dalle mura il manifesto col volto rifatto
della donna più bella del mondo
sopra vecchi bandi di concorso
comizi del Partito Comunista Italiano.
La bocca di Monica tirata all’insù
succhia l’ultimo raggio di visibilità
dietro a ville saccheggiate, alla nera tomba
del pittore dei sacchi vuoti
all’ombra delle statue del futuro
erette a farmacisti e bancari.
Nebbia che fumi leggera
sopra le zolle appena scavate
dai trattori delle costruzioni Lego
tu non fai vedere più nulla.
E’ scomparsa la città suina
sommersa dai mattoni rosa
dal vizio del non far niente
del vedere solo ad un palmo di naso
strizzando gli occhi porcini.
Altrove hanno fatto tesoro
dello sguardo sul lontano da sè
e i ciechi guardano in rete
cosa succede su questo pianeta.
Mentre dentro la sala dei Notari
s’aggrappano alla coda del cane
annaspando col bastone bianco.
Non poteva restare nell’arena del circo
tra leoni famelici fino al tramonto
il fuggiasco. Con un filo di sangue ai denti
ne affrontò qualcuno. Poi lasciò il Colosseo.
Si trovò in mezzo ad una guerra finta
dove le belve chiedevano scusa
prima di sbranare le prede.
Poi diventarono oziose e depresse
sorridendo al fuggiasco scampato
con un residuo di bava rossa
all’angolo delle grandi fauci.
Egli osservava silenzioso, distante
un altro impero vincitore.
Quanti giorni passati al luna park
traversando le tombe etrusche, i mostri volanti
in su e in giù col gatto nuovo
e il ricordo di quello prima
quando immobile sognavo di volare.
E’ ora che aspetti ferma
il mio fumetto ambulante
distribuito in modo bizzarro
ovunque nascano questi giorni.
Cosa incontra, un piede dietro l’altro
a tempo di valzer viennese
con le braccia tese in avanti
la famosa dea bendata?
Nel mio meridiano, longitudine zero
distributori automatici di un corano rosso
vigili e mondezzari senza divisa
che fischiano il divieto di campare
e caricano cose nuove per rottamare.
E una coppia di nonnini
dentro al palazzo coi corazzieri
che invitano a drizzare la schiena
a misurare il pelo sul petto.
E un omino bianco bianco
che benedice e prega tanto.
E il quartier generale del comandante
dove giocano a palla, poi si fan belli
per la gran festa al night-club.
Proprio per una dea senza più bende.
Se uno nasce topo cieco
ti costringono a vedere lo spettacolo
e se tu ci vedi, rimpiangi amaramente
di non esser nato cecato.
L’amore è giunto da poco qui
più nevrastenico del solito
e mi ha chiesto di fare il felino affamato
davanti ai pesci che mangiano.
Di avere due filtri, due misure
di chiudere gli occhi sugli umani
di vedere le luci del Natale come
fuochi fatui nel cimitero di campagna.
Di camminare indifferente
sopra montagne di cadaveri virtuali
d’ignorare i morti più vicini che mi toccano.
Io credo che Eros sia esaurito
per sovraccarico di lavoro arretrato.
E’ diventato cattivello, poco disponibile
ma non mi sogno nemmeno
di contraddire i suoi comandi.
Sono una sua creatura
e senza di lui non sarei me.
Lasciò all’alba il ceppo acceso
e scese verso la città annebbiata
nel paese più straniero che c’è.
Aveva una scarpa che rideva
e l’altra senza lacci da legare
tra mendici assiepati ai semafori
lanzichenecchi deformi, bambini
accecati da profumi e balocchi.
Gli eretici vendevano opuscoli
contro il dio nemico, animale
che spopolava incassando miliardi.
Qualcuno sbirciava in alto
seguendo un vegetale che colava giù
dai muri, dai tetti più alti
mentre frotte di uccelli spauriti
si nascondevano dietro a pochi alberi
ancora lì per miracolo.
Gli umani a volte si sbagliano
pensando d’essere importanti
ma non sono loro il centro
di questo incredibile universo.
S’illumina ammirevole in un posto
altrove sprofonda nei gironi
dell’inferno del suo grande dio
con fuoco sotterraneo, acque abnormi
starnutendo aria prima che i folli
pensino ad uccidersi per fame vera
per sete ossessiva di potere
o solo per noia, per sentirsi vivi.
Risalì carico di cibo e di vino
verso il ceppo ancora acceso
per miracolo sotto le ceneri.
Una cimice verde sta invocando
d’entrare al riparo dal gelo
ma in casa c’è il gatto
e se la mangerebbe per colazione.
Io sono qui tra parenti serpenti
che guidano macchine come sardine
metallizzate, lucidate a sputi catarrosi
coniugi imbottigliati e stagionati
figlianze grassocce di smidollati.
Giro indietro l’orologio indiano
che non ha mai segnato
se non ciò che io volevo.
A mezzanotte in punto
esce il pupazzo pulcioso
a comprare noccioline e spinaci
per diventare molto forte
al cinema del mio piccolo west.
Io sono il trillo del pettirosso
rifugiato in alto dietro un sorriso.
Così è sparito dall’orizzonte
il petroliere scemo e lo spacciatore
il puttaniere, il contrabbandiere di diamanti
il drogato dentro alle grotte scure
che sognava le luci della ribalta mondiale
coi suoi fanatici, le bombe umane
l’ultima trovata del mio secolo rozzo.
Le cento e passa mogli in doglianza
scappano verso gli ospedali militari
sognando di cambiare vestiti e altro
di non vedere più capre e rocce
ma palme vigorose mosse dal vento
mentre loro si spogliano lievemente.
Scomparso lo sceicco furbetto, un vecchietto
che minacciava l’apocalisse. E’ volato via
nella tosse convulsa del mare infuriato.
La profezia s’è avverata all’istante
quando dallo spavento ho smesso
di leggere Candido di Voltaire. D’aspettare
che la celebrità del turbante satanasso
colasse a picco divorata dai pescecani.
Dopo secoli e secoli a caso senza creazione
perfetta e bastarda che sia, la natura.
Chissà quanto tempo dovrà passare
perché vedano questi giorni miei
come semplici contrattempi balordi
in anni solo grassi e paciosi.
Dovevi scegliere tra i fantocci di regime
e la selvaggia rivolta delle puttane
o bimbo guerriero seduto sopra la cuccia
di cartone del barbone a piazza Navona.
Ora sta per finire la storia.
Allora divertiti a ramino
alla fiera della fine del mondo
dove espongono gli ultimi esemplari
di presentatori televisivi, gli umani
civilizzati, pastorizzati, omogeneizzati
prima dell’era acquatica
che nessun luminare rimbambito
poteva prevedere così immediata.
Caro Dante, se sei in paradiso
prega per chi non si salva più.
Se sei al limbo sei quaggiù
abbastanza riconoscibile dal cappuccio.
Se ti trovi in purgatorio aspetta
che arrivo e ti porto in alto.
All’inferno ci sono tutti gli altri
grazie alla tua lungimiranza.
Intanto il bimbo ha sfoderato
la spada di un re amoroso.
Sono i pensieri, le strane condizioni
d’una vita pura, da natura viva
ad accostarmi ai cari avi veritieri
non suppliche lagnose o falsi allori.
Come il passaggio lento a fianco
di forze sconosciute al mattino
quando combatto tra pigrizia e virtù.
Ed è insignificante il contrasto
tra stomaco avvezzo ai vampiri
e il sublime verso kilometrico
dell’ignoto cantore, la mia natura morta
costante, incorniciata all’inglese, appesa ad ogni muro.
O contadino con la scala in spalla
il treno lumacone lungo lungo
mi deposita tra vettovaglie e fame
in una Roma dove la lupa nera
non ha più di che sfamare i suoi gemelli.
L’Urbe è una casa colonica sbarcata
tetto sfondo, muri bombardati.
Omino col falcetto, ometto con la sega
per far legna, senza denti del giudizio
scommetto che stai lì da sempre
in questo recinto arrugginito. Oggi ho visto
damine incoronate in quadro
svendute da nipoti acquistati
al mercatino delle pulci a notte fonda
con un soldino come le lucciole.
Eppure vorrei provare ancora
ad accostare la guancia
alla mia città estrema
e sentire un formicolio d’estasi
come quando si bacia per la prima volta.
A cavallo delle tue solide cosce
con la pelle che brucia alla tua barba sfatta
col gatto che fa forte le fusa.
Io sono la tua principessa
nell’impero dei morti di sonno.
Ancora ho segreti
per sorprendere la tua quiete
per rendere schiavi
dittatori pentiti.
Lunghe tracce, graffiti di morenti
guerrieri d’altre terre, dal buco solare
delle tondeggianti tombe imperiali
nel bel paese della cuccagna
per chi ha le tasche gonfie.
Le ombre fluenti ci spiano sconsolate
esclamando tra loro: “Che disgrazia!
nè dei, nè mater natura
essi vagano a lume di naso
tra boschi e città, col mare distante
e un cielo terrorizzato da neri sparvieri.
Almeno si fermassero un po’ a respirare
avrebbero di noi la solida visione”.
Da piccina ho visto in tivù un paese
d’avvocati con più orologi al polso
coprire di macchinine le piste da corsa.
Gioielli e panettoni piovevano
sulle attricette d’avanspettacolo
mentre si truccavano da Butterfly.
Nel sogno sembrava una piscina
in cui scivolare tra ori e incensi
solo ad averne voglia e tempo.
Poi gli avvocati sono morti stecchiti
e la legge è diventata papessa
che vivacchia in provincia, a patate
fra tarocchi e fatture. La megera
ha bilance truccate, di quelle
che sovrappesano al mercato rionale.
I sudditi sono ostili al resto del mondo
al mio impero stellato sorridente.
Imprecano dall’arcigna periferia
votati ad un’estinzione programmata con cura.
Vendono cartoline e bamboline
d’un passato di fasulle godurie.
Da grande io vedo in rete
volare per aria banconote
carte di credito scadute
un paese assegnato a vuoto
una bancarotta fraudolenta
con becchini, uccellacci del malaugurio
che sfregano le mani soddisfatti.
Andavi ignara col vestitino a fiori
tra fotografi dallo stesso nome
morti adolescenti al cinema
per le curiose malattie dell’uomo.
Il suo marchingegno è rivoltante
rispetto ai fili d’acciaio del robot
e quando salta è un kamikaze da buttare.
Oltre l’anima del mondo, la risata stellare
ognuno corre infine sul cavallo morto
una sinfonia implacabile, battere assordante
di zoccoli, attraverso i campi di battaglie
quasi sempre perse. Ma il soffio caldo
appanna i vetri e vola al tuo impero.
Comprati un altro vestitino a fiori
quando il sole fa capolino.
Miki ha avuto due genitori putativi
un padre femminile, affettuoso
con panuccia e frittata pronta.
Sua madre, uomo tutto d’un pezzo
conservativo, esecutivo, guardia al presidio.
Lo zio fantasioso con cilindro e ditone
incitava al lavoro, alla fuga, al bello
a saltare giù dai treni in corsa
verso i campi di concentramento
per poveri stronzi e leccaculi in fila sfamati gratis in cambio di lobotomie cavadenti senza anestesia locale.
Lei ha avuto due gatti il nero
e il tigrato trovato a piazza Venezia
dietro l’altare della patria
abbandonato ad un mese da intellettuali
partiti per una lunga vacanza.
E’ la ragazza giapponese
con valigia piccola alla fermata
del bus per l’aeroporto in un giorno
di sciopero generale dei trasporti.
Ho visto solo un aereo che s’è levato
in picchiata senza nessun passeggero a bordo.
Tu sei la migliore amica
che potevo avere ora.
Hai un temperino crociato in tasca
fai rutti e scoregge
quando le casalinghe invidiano bèche
le tue caviglie affilate, regali.
Getti dalla macchina in corsa
patatine e bucce d’arancia
sopra la città scrofa.
Mangi penne, matite
fumi, bevi, te ne freghi
d’ogni consiglio dei dottori.
Sei una pesca, da mangiare
nel posto giusto, senza occhiali.
Insegui ragazzi ossigenati
d’una distante, gentile Mongolia.
Senza questi sporadici miraggi
io e te non possiamo divertirci
col coltello svizzero in tasca
letale nei punti appropriati.
Galline gravide, anatre mute
ci spiano da dietro lo specchio.
Ti chiamerò Rossella, Barbara
Celina, Alicia, Gabriellina
Cinzia, Pinuccia, Stefania
Duli, Lucia, Gigia. Qualcosa
che mi ricordi il nostro film
i vagabondaggi per la penisola
su e giù per lo stivale del cowboy.
Adesso sono sola ai bordi della via.
I topi ciechi hanno finito il formaggio
e stanno uscendo dalle buche a frotte.
Se non trovano di meglio i poveracci
vorranno al solito il nostro sangue
innalzando bandiere, consunti vessilli.
Oscuri pensatori imprigionati
in fondo ad un pozzo in disuso
chiuso da spessa inferriata dietro alla chiesa.
Vivi stranamente, figlio d’un fantasma
dovresti moderarti al presente
poiché non hai ancora avuto niente
come adolescente in mano ad altri
che scordano con te i loro guai.
Mi rifugio nella tua fonda fucina
dove fabbrichi comete, meteore, meteoriti
che nessuno vuole tra i piedi.
Non sono capace di chinarmi a terra
accettando una condizione umiliante
indisciplinato, licenziato dal servizio.
Mi tuffo in una piccola bottiglia
e chi la trova è bravo.
Tu non spaventare le maestranze
lì a ristrutturare il vecchio castello
che restiamo senza muri all’addiaccio.
Se vado a finire nel girone sbagliato
ricorda che sei stato importante per me.
T’ hanno portato via la televisione
perché non pagavi mai abbonamenti
e il telefonino, perché non consumavi le schede.
Meno male che esisti ancora, ragazzino roscio
tutto arruffato, uscito dallo stagno delle ranocchie
altrimenti dove sarebbe il futuro?
Seguace d’una divinità felina
che non si scompone di fronte a nulla
non ti vuole nessuno
perché hai tasca e calzino bucati
trangugi rumorosamente come un mulo
senza farlo apposta, incurante d’altri.
Ma io t’ ho visto a spasso
per il corso toscano in salita.
Hai anche lentiggini
che non vanno via da grande.
Meno male che il pianeta
gira su se stesso di nascosto.
Sta morendo una mummia gentile
un ritratto di paese latino
dalla lingua che suona beffarda
e dice pochissimi sì, sì. Oriana,
mi dispiace come perdere soldi
al casinò in mezzo al deserto
dove sono entrata solo in sogno.
Avevo pagato il biglietto
ma l’ ho perso per distrazione.
La mummia ben conservata
non mi rassomiglia di certo
eppure seppellita anzitempo
imballata per l’esilio verso l’Impero
m’ ha fatto pena. ho compreso
la sua sottile sofferenza.
Non somiglio alla povera sfinge
sono vicino al suo tramonto.
La dissacrante, insolita dea
lascia qualche scrittura sincera.
Fiorentina sbirra, nasuta
scostante come mio padre.
Io guardavo da qui la luna
prima della scuola dalle monache.
Lei è volata in cielo, fumando
in compagnia degli astronauti.
Scatta all’improvviso e va
un putto, un marchese dell’aglio
che ambisce a fare il re sole.
Vuol tenere sparute frequentazioni
senza impegno, ogni tanto
conoscenti a cui far visita.
Libertà d’isolamento.
Ma nessuno sta con un altro
se non può scompigliare le sue ore.
Egli è un ghiotto ragazzino imbelle
che cerca e vuole l’America sotto casa.
Pensa da malandrino, pirata
con un occhio, una gamba segata
la morte dipinta in faccia.
Forse è così solo, perché ha simili
dispersi, distratti, pochi
senza lacci emostatici. Pazienza.
Starà per i fatti suoi
proverà i tacchi a spillo
sapendo che può essere socievole
quando e come vuole.
Ma non c’è una prossima volta.
Nel tempo io navigo leggero
lasciando alle spalle un incubo spelacchiato
impiccato all’albero della cuccagna.
Cambio casa, ogni volta dietro ad un verbo
per divertirmi almeno un po’
aspettando i messi dell’Impero
nei giorni da cacciatore di taglie.
Angusto spazio, eterna temporalità
in direzione dei raggi nebbiosi.
Sono una montagna di gioia
da scalare ancora
dopo che l’angelo Michele
ha scalpellato giorno e notte
per lunghi interminabili anni.
Non mi può più sfuggire
nulla che sia gaio.
E’ complicata la felicità
altro che il lassativo dolore!
Dopo un campo di concentramento
camuffato da gentile fattoria
cara un dì regione mia
ora riserva maniaca, alcolista
senza indiani ad ululare l’addio.
Non c’è più l’alito della morte
addosso alla prossima diva
mentre guarda e spalanca la bocca
molto vicina al ragazzo stupito.
La minuscola ombra s’estende
al grande paese appassionato
alla sua enorme colonna vertebrale.
La parvenza ringrazia con cerimonia
leggendo stupidaggini radiose.
E’ sempre stato così?
Scenario di legno e chiodi
attorno all’attore che mima lento
la caduta della pioggia.
Faranno un altro papa oggi.
Tutti aspettano a naso in su
che i continenti s’uniscano ancora
nel segno del dio crocifisso
dai suoi simili invidiosi e potenti.
Egli non promise paradisi e vergini
ma una morte lieta, la speranza
che la vita non finisca mai.
Risuoneranno le antiche campane
e qualcuno morirà con lui
col sorriso di chi è soddisfatto.
Che i cori delle giovani anime
ci salvino dal presente calvario
dagli stupidi che ci odiano
perché suoniamo e balliamo
di fronte alle bare chiuse.
Un alto papa polacco
veglierà dal cielo sopra Cracovia
su di noi, sul prossimo pescatore
che traghetterà ignaro Gesù.
Tra gli uomini è così
e Budda e il fanciullo
tra le piante e le bestie.
Poi le stelle, il volo iniziale.
Nessuno dopo gli dei bizzarri
potrà dire a qualcuno:
“Vai e combatti, uccidi per me”.
Nessun poeta scriverà di tale strazio.
E l’oblio avvolgerà sconcertante
ogni assassino senza volto.
Apri gli occhi, aguzza l’ingegno
ora o mai più
o cieco mondo.
Nonna Moore sfoglia l’album
della sua vita amena.
Mi racconta di un treno, di un funerale
di alcune lettere ritrovate
di un paese fuori dalla terra.
Con trampolieri e giornalisti scemi
amici potenti, ma privi di libertà
della sua sconfinata dignità.
E lei sconfina nell’amaro digiuno
nel lavoro, in una vita lunga
in piaceri rubati al male.
Coi prepotenti rinchiusi nel recinto
degli specchi infrangibili.
La vecchia ha perso a Trinità dei Monti
l’orecchino di diamanti, finito
nel manifesto del venditore di frutta
o sotto i piedi della battona
che voleva fare l’attrice
o sposare un goleador.
Nonna Moore da giovane si chiamava
in un’altra maniera poi
prese il suo nome d’arte
in un posto poco raccomandabile
affidato al caso, all’abbandono
dove tutto può succedere sempre
nei bassifondi altolocati di Mamma Roma
fiore all’occhiello della magnaccia Italia.
Se t’aprissero ora il cervello
troverebbero diversi fili staccati.
Eppure c’è il riso, il sorriso
ma senza pensiero, senza senso.
C’è un boato senza risonanza.
Ti trovi alla corte dei papponi
protetta da uno spesso filo spinato.
Fiore della serpe, ghianda par i maiali
a terra, sconosciuto in preghiera
sotto il tiro incrociato dei cecchini.
Se t’aprissero il cuore, troverebbero
valvole fuoriuso e forse
un’unica spina messa lì da te stesso
per ricordarti che la vita è preziosa.
Una luce dopo l’esplosione
e sono qui ancora
con l’illusione di passeggiare
per sterminati campi incolti.
Dove sarà la pace
che coltivavo con cura
nata con me, pianeta abissale.
Ho visto giochi e scherzi
e poi solo la morte bugiarda
che si celava dietro ogni uomo
con o senza infida divisa.
Come felino cui non si dà cibo
io pago salatamente per cose futili
giornate felici, immaginarie
e uno schizzo di bellezza addosso.
Il fatto è che tra dolore e sangue
nessuno se la sente più
di pensare a qualcosa di luminoso.
Forse sto spegnendomi piano piano
senza saperlo, ad una latitudine sbagliata
Sono la realtà originaria
il resto è imitazione.
Mi gira qualcosa dentro, dispettoso
che fa sentire tutto indolore
curiosità da mano tagliata.
Inerte, ad osservare il nascente chiarore
eccitata dal sipario che cala
con rumore di pesanti tendaggi
sul buio pesto senza battute.
Nessuno di voi umani
può resistermi, o starmi dietro.
Io sono più veloce, sorprendente
ed ogni inferno non è lo stesso
ogni paradiso mai gratuito.
Sono ciò che sono
sfido a capirci qualcosa.
E’ preferibile seguire gli artisti
coi loro sassolini bianchi
ma la via maestra sono io.
Non è vero che potete crearmi
a vostro completo gradimento
poiché ciò che è in testa
non è nè lampo, nè tuono
la mia caduta a cielo aperto.
Realtà, superiore ad ogni fantasia.
Scavate con una grossa zappa
e forse troverete soddisfazione
soffermandovi appagati
ad una delle mia tante soglie.
Lì vivono i ritornelli poetici
le formule di matematica pura.
La complicazione sfuma
in algoritmi e rime.
Il risveglio è stato lesto
come parola che spunta erbosa
dopo precipitazioni atmosferiche.
Sbrigati a prendere l’armatura
che camminava come fantasma.
Era lì, non l’avevi ancora usata
ma essa t’aspettava al varco
eredità d’avi muscolosi
scaricatori di vitalità
assieme a noie e dolori.
Dove poserai i tuoi lamenti
nascerà qualcosa di ameno
e non è che l’inizio
di un’avventura, un esperimento.
Che la morte s’inculi
qui non arriva di sicuro.
Qualcuno lo chiama via etere
ad una vita differente
come quella della nuvola
soffiata dentro ad un temporale.
Aspetta qui, davanti alla chiesa
d’essere trasportato nel soffitto del sole
senza scottarsi, perché non ha un padre
a terra, ad urlare di non andare.
Cosa ha più da perdere?
Meglio rischiare.
E’ passato l’anno delle voglie
di zucchero filato rosa
l’anno dei gelati continui
della marmellata di ciliege.
Forse è così che invecchiamo
esplodendo in strane rimembranze
di desideri infantili mai dismessi.
Io mi specchio e vedo me.
Come incompleto adolescente inquieto
non ho mai imparato a controllarmi
di fronte a niente che sia buono
bello, pieno come il sole a palla
sopra le nuvole della sera estiva.
E sono felicemente mesta
d’essere al mondo, come quando
tornavo in bici da scuola
dopo enormi delusioni amorose
interrotte da caroselli cerebrali
che finivano sempre per sporcare
lenzuola e carta, carta d’agenda.
E’ buffo se qualcuno mi vedrà
vecchia, quando sarò più piccola
e giovane di come fui
di come non sia mai stata.
Non è importante l’anno della cioccolata
della sigarette a raffica, del vino
dell’unica birretta salutista
per la paura della cirrosi epatica.
Quanto l’anno del naso rosso
d’apache in sella al suo cavallo pazzo
l’anno delle guance tonde
degli occhi a mandorla marron glacé.
Della collana che è un rosario
benedetto dal nuovo papa
anno di un dolce stile novo
nella terra dei miei veri padri.
Ramone sogna la sua preda
esotica dalla lunga coda
che vibra come serpentina
quando dispiega l’ala bianca e nera.
Ramone cerca di non vedere
gli umani in giardino, ma solo lei
che circola libera nell’aria
chimera di un pianeta desiderabile.
E’ il mio sokoke raro
regalo affettuoso dell’Urbe
auspicio di salute e prosperità
adottato come balorda coscienza.
Il castello va a fuoco
la torre sta per cadere addosso
alla cattedrale dorata, ai putti di Alì Babà.
Via le aquile, una colomba, il cavallo
dietro a spade incrociate e stelle.
La luna si divide in quattro spicchi
mentre il bue mansueto riposa
due draghi assaltano il ponte levatoio.
Tre teste coronate e tre tiare
nascoste dietro allo scrigno del tesoro.
Questo e altro c’era, un tempo
a Borg-Unto. Ora sfioro nove margherite
mangio sei frittelle, guardo un luccio volante
temo il leone, il piede di porco
giro la ruota, rompo il chiavistello
sogno un’onnivora mangusta.
Ma non compare l’angelo incendiario
ai quattro rami d’ulivo, al muro
del poeta. E’ scappato anche lui
nell’evo dei nobili gigli.
E’ un quadro mai dipinto
come quello di un santo, l’incubo
dell’imperatore si scolora, sparendo.
La storia dell’erudito Vasari
non si racconta più. Hanno preso in giro
la fioraia, la bicchieraia è scesa nel pozzo.
C’è rimasta solo qualche sboccacciata
dall’inconfondibile accento, dal fiato corto
che pretenderebbe d’essere ancora
stemma d’un Paese perbene.
Sono insieme ai morti innocenti
che non contano niente.
Mi trovo qui per caso. C’è un’uscita?
I miei piedi sono fuoco bollente
in questo inferno che appesta.
L’aria ferma uccide i pacifisti per strada.
Voglio liberarmi da questa trappola mortale.
Devo bere tanta acqua. Dove è? Ho fame.
non c’è molta gente che passa
sembra d’essere in mezzo al deserto.
Mi restano le sigarette da buttare via
e un pugno di riso e di sogni.
Se toccano Roma, migliore sorte per loro
è di saltare per aria tutti, i maledetti!
Perché il Colosseo riaprirà ai giochi circensi
con leoni tenuti in rigoroso digiuno
prima di scendere in pista, e infilarsi
dentro ai cerchi infuocati dell’Urbe.
Aitanti domatori sopra i loro elefanti
frusteranno i cammelli vecchi, spelacchiati.
Qualche scimmia s’arrampicherà dove potrà.
Striscerà giù dal Pincio il grasso pitone dello zoo
ed io m’arruolerò nella legione straniera.
L’ascia è già seppellita in giardino.
Se toccano Roma, intingerò la penna
direttamente nell’arsenico per scrivere meglio.
Che nessuno s’avvicini ai Fori!
Dicono sia l’evo dei lupi
e noi non abbiamo niente da temere
poiché qui tutto è nato
da una lupa generosa, saggia.
Cosa c’è di più importante
delle stupidaggini, quelle ridicole cose
che ci tengono vivi, giorno dopo giorno
le insulse risorse di una mente contorta
che fa gioire e soffrire anche il corpo?
A volte basta una parola, un gesto frainteso
un bicchiere, una tazza, un boccone
una fantasia impetuosa, un bisogno
soddisfatto dopo lungo penare.
E il calendario si sposta a mano.
Spero che sia così per il mondo
e per ognuno di voi, passeggeri
vicini e lontani. Anche verso il giro
che in tanti ritengono l’ultimo.
Si fa per dire, per alleggerire
i bagagli dei giri intermedi
a volte pesanti, troppo pesanti.
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