Prosa
» Romanesque
» Allo stato brado
» Girandola
» Sette Sapienti
» Recreation
» Mandala
» Cavalieri erranti
» Sabba
Poesia
» Oltre cortina
» Un filtro amoroso
» Plautinus
» Cieco mondo
» Plancton
» Jack O'Lantern
» Pastelli Giotto
» Mab
» Preludi a Lutin
versione italiana
english version
|
|
Saracino
L’ultima volta che hanno visto il fantoccio girevole risale a qualche mese fa, in marzo, quando sono andati a spolverarlo un po’ per prepararlo al nuovo grande impegno di giugno.
Nella stanza buia i suoi occhi sembravano quelli di Belzebù in carne ed ossa, o meglio, in legno durissimo o coccio di giardino, come le statue delle ville antiche dove ci sono ancora bimbi da far divertire.
Poteva sembrare uno spaventapasseri per corvi affamati d’uva e ciliege, perché i corvi non mangiano solo carne, sono ghiotti anche loro di cose dolci, e il sangue è dolce.
I due custodi addetti alla manutenzione del re moro ogni tanto lo lisciavano delicatamente col panno come fosse cosa vera, un cristiano, ma non lo era di certo mai stato, nemmeno se prima di dipingergli quegli occhi spalancati fosse stato miracolosamente incarnato.
Era un demonio nero, un saracino, con tanto di turbante e barbone, vestito all’orientale.
Nella foga del gioco ogni tanto perdeva il suo prezioso copricapo e si vociferava che nessuno, quando era a riposo, glielo sfilasse di soppiatto, ma intanto il turbante era quasi sempre adagiato alla fine del tronco scuro, il corpo del pupazzone girevole.
Naturalmente le chiavi della segreta erano in doppia copia per i guardiani che si facevano giuramenti continui tra di loro, negando e negando.
Resta il fatto che qualche visitatore misterioso lì dentro ci arrivava, eccome. Tant’è che prima di una delle ultime competizioni una mano sconosciuta aveva ridipinto gli occhioni del fantoccio in maniera così realistica da sembrare che gli uscissero dalle orbite. Anche il busto era meno verdognolo, come se provasse ad incarnarsi sul serio, a prendere a camminare e ad inseguire i suoi nemici cristiani.
Di solito i due custodi, dopo averlo messo a lustro, lo appoggiavano ad angolo, nei pressi di una vecchia finestra, dimodoché giù dal pianterreno essi potessero di tanto in tanto dare una sbirciatina che tutto fosse al suo posto.
Non sapevano di preciso perché sentissero quello strano bisogno, ma si giustificavano con la fifa dei ladri, di qualche antiquario fallito che volesse sottrarre il Moro alle autorità pubbliche per venderlo all’estero di contrabbando e farci su un bel gruzzolo.
Sebbene l’intero stabile fosse dotato dei più ingegnosi sistemi d’allarme, persino d’una sirena che quando scattava trasmetteva a tutto volume le preghiere dell’ultimo raduno a La Mecca, dentro a quella stanza non era mai volata neppure una mosca.
C’era al contrario un pesante silenzio che incuteva imbarazzo e timore.
Abbastanza per far nascere attorno al mostruoso combattente leggende, favole, chimere.
Una in particolare fece presa tra i ceti umili, ma non fu respinta con convinzione nemmeno dall’ironia del potere e divenne angoscia comune di un intero paese cristiano.
Tra i ceti altolocati nacque un’apposita confraternita che si riuniva periodicamente per parlare dello stato del fantoccio girevole e attrezzarsi a mantenerlo così com’era.
E’ ora di spiegarne il perché.
La leggenda narrava che quel satanasso molto venerato ad ogni giostra come pericoloso nemico, non fosse sempre stato un moncherino di legno, sebbene ben lavorato, ma un saracino normale, con tanto di gambe e piedi, di braccia non aperte a spaventapasseri, di lineamenti più giovani, ma pur sempre da mascherone per sputare addosso ai crociati.
Come fosse possibile un fatto così strabiliante, chiedetelo alla magia nera, la stessa da cui si generano questi pupazzi d’oggi, esposti solo alle quintane di paese.
E’ scritto di un passato remoto in cui il nostro saracino viveva nascosto in un posto sperduto del mondo incivile, nel senso di non civilizzato, dopo aver ucciso tanti crociati dentro a torri altissime, scambiandole per quelle di Sodoma e Gomorra.
Scambiando anche per crociato ogni uomo che respirava.
Si vociferava che fu il suo dio a ridurlo poi così, per punirlo del suo errore, ma che la punizione fosse temporanea, non eterna, e che sarebbe poi tornato come prima.
Passavano veloci i secoli e oramai probabilmente la pena era scontata e il pericolo grande per i cristiani e non.
La confraternita giudicava imminente la nuova trasformazione. E se poi quello scellerato avesse replicato i suoi misfatti, fregandosene di fare ancora il pupazzo?
Non si poteva correre il rischio. Occorreva mettere le mani sul saraceno fuggitivo fino a che era ancora un pupazzo, legarlo come un salame e attendere la trasformazione completa.
Fu dato il triste annuncio alla popolazione. La giostra era annullata per motivi di sicurezza pubblica, non certo perché il pupazzo girevole non era più al suo posto. Era scappato, mettendosi a ruzzolare giù per le strade.
Era già tornato il mostro di un tempo?
Tutti aspettavano, vivendo quei giorni col cuore in gola.
Europa - Italia
No, non è vero che sono stato sempre così pidocchio come dicono i miei bancari, un profilo conservativo. Ci sono diventato, perché qui a Roma, la verità è che tutti hanno finito i soldi, chi per un verso, chi per un altro e anche se volessero, non potrebbero più impegnare nulla dagli strozzini.
C’è qualche fiorellino che va ancora in giro in Ferrari, fingendo d’essere chissà chi, ma al 99% non è vero, finge con un’auto di decima mano dal motore sfondo per tenersi su il morale.
E’ che quest’Europa inventata a tavolino dai presidenti delle banche in pensione s’è rotta come un canestro di uova ed ha cominciato a marcire, a puzzare.
Mentre vi dico questo io vedo molti tedeschi in visita al loro concittadino papa, e anche loro come i francesi e gli inglesi e quelli del nord-Europa mangiano pane, bevono acqua dalla fontana.
Il companatico è carissimo.
Non parliamo poi di altri paesi da poco europei che non aprono neppure la bocca, se ne sono dimenticati. E puzzano di cipolle.
Non che questo mi consoli granché, perché non mi mette di buonumore, nonostante mi senta simile allo strampalato tizio dei “racconti da sottoterra”.
Non ho giovamento a veder piangere le massaie al mercato, davanti a ciliege e fragole, pomodori e zucchine.
Ho perso il coraggio per strada, ma prima ce l’avevo, eccome.
Avevo affidato i miei risparmi ad uno strano bancario che lavorava in proprio anche contro la sua banca. Alla fine fu cacciato e io ingenuamente lo seguii con tutti i miei risparmi, prima di dargli il benservito e salvare un po’ di capitale alla meno peggio.
Ero ripartito tranquillo e vispo come un fringuello, quando è successo l’inferno, e poi un altro ancora e infine mi restavano gli spiccioli.
Una miseria in confronto al bel gruzzolo messo là accuratamente per spassarmela da vecchio.
Colpa di questi attentati del cazzo che hanno messo in mutande me e chiunque altro non finga d’essere ciò che non è in Europa.
Tentativi inutili quelli di spargere ovunque i colori della pace, di difendere a spada tratta gli assassini come se fossero gli ultimi eroi a resistere alla supremazia degli Stati Uniti, come se fossero figli della rivoluzione, di Marx, anziché di Hitler. La fame che avanza ha un unico colore.
Roma, abituata ad ogni tipo di carestia s’è ugualmente intristita, accartocciata come una foglia di vite malata di oìdio.
Non c’è un antidoto all’odio che quegli esaltati provano nei nostri confronti, altro che perdono.
Avevo molte azioni investite in quelle torri crollate come carta straccia ed ho beccato il ritiro dei bond proprio nel giorno dell’inferno alla stazione di Madrid.
Insomma, tiriamo avanti.
Essendo stato un italiano modello, sono anche incappato nello scandalo dei pomodori e in quello del latte, nella crisi delle auto di stato e nel fallimento di qualche banca falsa.
Ho rivisto al Pincio il mio ex-bancario che dava i numeri nel senso di Freud. Aveva avuto due infarti e tirava avanti come poteva, cercando di fare il consulente finanziario in privato nei pressi del Vaticano. Forse per avere gratis un piatto di minestra al convitto delle monache.
Questa piatta decadenza fa sì che in molti odino più chi cerca una via d’uscita, che coloro che si fanno saltare per aria dove capita.
Mi trovo spesso a dover reprimere un impeto di ribellione, perché verrebbe classificato come razzismo nei confronti dei deboli armati fino ai denti.
Si deve accettare brodo e acini, in quest’Europa balorda che fa da trampolino per ogni lancio di bombe o fiori, la stessa cosa. La parola d’ordine è sorridere ed amare come pronipoti molto rincoglioniti dei figli dei fiori.
La baracca affonda e qualche massone studioso del mondo arabo chiacchiera e spiega come risolvere la spinosa questione, chiacchiera, spiega, spiega, chiacchiera. Ti si seccasse la gola!
Tasche vuote, uguale a stomaco che bolle, cervello senza zuccheri, ingegno sottoterra.
Azioni in caduta libera, niente affari da prendere al volo.
Equazione
Aveva un armadio grandissimo di legno bianco con dipinti rinascimentali con le due ante centrali a specchi. Era pieno di vestiti firmati, bellissimi nella foggia, nei colori, un vero capitale che si poteva permettere solo qualche privilegiato dalla sorte o qualche vero malandrino.
A fianco dell’armadio un’enorme scarpiera, inutile descrivere anch’essa, tanto ogni abito si presumeva avesse la relativa scarpa abbinata. E non vi sto a dire quanti profumi e altro fossero ammassati in un ordine misterioso sopra i comodini laccati.
Trovai una borsa da viaggio molto capiente, di quelle che nei films sono adoperate per buttare giù comodamente una caterva di banconote appena fregate in banca.
Trovai lui, uno spettacolo indecente, a dirlo sono io che ho stomaco da trenta anni per ogni genere di sconcerie.
Era stata la puzza d’escrementi, di vomito ad allertare i vicini fino al mio arrivo.
La borsa era vuota, i profumi non bastavano nemmeno a lenire il fetore malsano che era ovunque.
Sentii impellente il bisogno di bere e fumare, ma non certo in quella cucina.
Non sapevo come resistere in mezzo a quello schifo per un’intera giornata.
Feci al solito la parte del poliziotto psicologo e furbo. Doveva essere sufficiente almeno fino al ritorno a casa.
Se passavo le mani davanti al tizio, egli tremava, ma non emetteva suono alcuno, nemmeno disumano.
Anche io stavo zitto, cercando di non toccare niente, sopratutto la merda, perché era stato il suo inchiostro per terra e per buona parte del muro.
Avrei dovuto chiamare per professione più esperti e forse anche un prete, ma chissà perché non lo feci subito e più passavano le ore, più non mi andava di farlo.
Decisi di redigere un rapporto personale, dettagliato che s’avvicinasse il più possibile ad una soluzione logica, e solo dopo avrei affidato quel soggetto e quel luogo ad altri.
Mi sembrava così di vincere il ribrezzo e l’enorme curiosità che destava in me quell’individuo schifoso.
Come fa uno che ha tutto a ridursi così?
Ci sono dei pazzi che uccidono, altri si suicidano per amore, ma un tizio che possiede ciò che ognuno di noi, più o meno apertamente desidera o invidia ad altri per tutta la vita, no, non può conciarsi così.
Non ci sono giustificazioni.
I pochi conoscenti che sbirciavano lì dentro da quando vi avevo messo piede, era come se non lo avessero mai conosciuto, probabilmente li aveva tenuti accuratamente a distanza prima di conciarsi così.
Il computer mi trasmise i suoi dati anagrafici, gente ricca, di classe, senza bisogno di lavorare, senza legami, senza amici.
Forse aveva preso a scarabocchiare i muri con la merda per dare una spiegazione a quella improvvisa mutazione genetica dal chiaro allo scuro, dal tutto al nulla più bieco.
L’espressione del suo viso più che quella di un matto, sembrava quella di un visitato dagli alieni.
E arrivò la visita sul serio, che sembrava proprio mandata dal cielo.
Era una donna piacevole, di quelle che sanno trattare anche con la gente come il sottoscritto, vera signora non solo nell’abito. Non vi nascondo che è uno dei motivi per cui sto qui a ricordare, altrimenti mi farebbe meglio non pensarci più e guarire da ciò che ho visto.
La femmina carina mi disse d’aver conosciuto quel tale ad una fiera del libro antico, al reparto di storia. Proprio nel bel mezzo di una conferenza sul mutamento dei sistemi di potere dal medioevo ai nostri giorni, quello balzò su, gridando.
Fu immediatamente allontanato dal consesso.
Cosa aveva gridato?
Un’equazione, una formula matematica, qualcosa del genere, almeno così era sembrato ai presenti allibiti. Gli stessi segni tracciati sui muri.
11:11=X:0
X=11:11X0
X=0
Radar
Io sono un radar umano fermo in mezzo al parco. Capto. Qualche volta mi passa un pensiero per la testa. Prima mi ricordo d’esser stato un bambino curioso che giocava col “piccolo chimico”.
Poi un ragazzo cattivo e nero che non faceva nulla di particolare, ma ascoltava dalla mattina alla sera una musica infernale, e lì dentro trovava i suoi sfoghi. Non so se sono le pasticche che mi hanno dato gratis in vari istituti rieducativi a rendermi buono, pacioso col mondo che prima odiavo. L’ultimo lavoro che ho fatto è quello del portatore di latte a domicilio, latte fresco appena munto e salutare per famigliole affamate.
Ogni mattina facevo il giro del quartiere, suonavo porta a porta e tutti mi salutavano gentilmente per nome.
Dopo m’è ripresa la solita malattia musicale.
E questa volta sono stati meno comprensivi.
Dio, che sarà stato mai ascoltare a tutto volume, 24 ore su 24, la mia musica infernale?
Il problema è che gli altri non ne volevano sapere, perché dovevano fare un sacco di cose. Hanno assunto un altro lattaio che nemmeno suonava alla porta, lasciava la merce sul praticello e nessuno lo salutava, non sapevano nemmeno il suo nome.
Per un po’ sono andato a stare da mia sorella che faceva la sarta e mi ha chiuso nel sottoscala, il punto più insonorizzato dello stabile.
Salivo sopra per fame, tra una canzone e l’altra.
Ma purtroppo lei, tra un vestito e l’altro, prese a consegnare sempre meno merce, gli incassi scesero sottozero. Il mio fracasso passava attraverso i muri.
Allora, siccome era una pasta di donna e non voleva mandarmi via, fui io a scattare all’alba, col radiolone in spalla.
Non sapevo dove andare. Presi a seguire una ragazza grassa che probabilmente aveva casa, lavoro e mangiava troppo.
Infatti andò a chiudersi per un’ora in un market, a fare man bassa d’ogni schifezza possibile e immaginabile. Mi veniva da vomitare, ma mi feci coraggio e finsi d’essere interessato a lei, tanto quella chi se la filava?
Abboccò. Riuscii all’ultimo minuto a ficcare nel suo carrello stracolmo di dolci e biscotti, anche qualche birra estera e una bella bistecca, pesce e formaggi.
La grassa mi portò a casa sua e lì mi lasciò, perché doveva andare a pulire in giro non so che cosa.
Cambiai immediatamente la serratura, accesi il radiolone, chiusi le finestre, senza rendermi conto d’aver preso casa vicino a mia sorella.
Le telefonai, dicendo che avevo una ragazza e stavo bene. Ingenuo.
Fu l’ultima cosa che feci da normale, poi il vuoto. Ho perso la memoria di come proseguì la mia vita da quel giorno.
Vagamente mi ricordo di chiamarmi Rufus, oppure me lo hanno affibbiato altri non so in quali occasioni.
Avrò suonato qualche volta?
La radiolona non ce l’avevo più.
Ora capto i segnali della vita nel parco, dalla mia panchina personale, cercando di rincorrere un pensiero. Campo d’aria, tendendo l’orecchio. Sono un radar. Non sono ancora così vecchio come sembra a chi mi guarda schifito, scansandomi.
Ed ho ascoltato una gran musica, ve lo assicuro.
Sono contento d’aver visto grandi concerti, grandi raduni giovanili. Qualche tizio che ho conosciuto in giro è morto tragicamente, e mi pare di vederlo correre al parco.
Adesso viene un giovane per volta a guardare il parco vuoto, più triste di me che non sento niente e mi occupo solo del caldo, del freddo, del cibo, del bere.
Pessimo affare, Rufus.
Neanche un amico a cui inventare d’aver avuto una vita. Dovevo recuperare la notte, da solo, almeno una piccola parte, avanti verso l’alba o indietro verso la sera. Comprarmi un altro radiolone.
Versetti funebri
Mi rubano il mestiere. Sono preoccupato, perché una volta eravamo in pochi ad avere una predisposizione per la composizione di versetti mortuari, di dediche calorose ai morti o semplicemente di elenchi di parenti affranti dal dolore per la perdita di un caro congiunto.
Avrete compreso che ciò che faccio io è per passione, non ha nulla a che fare coi manifesti che attacca l’agenzia funebre.
Io sono un artista dell’annuncio funebre, il tramite più raffinato per comunicare al mondo circostante che il tale o il tizio ci ha lasciato in pace. Scrivo nei quotidiani stampati e in rete, e a volte mi chiedono anche una piccola recita pubblica per privati facoltosi.
Mi piace sentire il suono della mia voce mentre proclamo versi ineluttabili. Ad un certo punto della mia brillante carriera è successo ciò che mai mi sarei aspettato. Un crollo verticale di richiesta, come se la morte di qualcuno illustre, conosciuto, non interessasse più.
Sommi poeti hanno scritto che bisogna rispettare i morti, ed ecco cosa va a capitare al giorno d’oggi, a momenti non ti fanno sapere nulla sui decessi avvenuti.
All’inizio della crisi telefonai ad un collega con il quale feci gli studi di scrittura funebre e il corso di perfezionamento per cuori sensibili.
Era bravino, abbastanza richiesto.
Gli volevo bene, come se ne vuole ad una bestia rara. L’invidia era superata dallo stupore che esistesse qualcun altro oltre a me che amasse la poesia dei morti.
Restammo a parlare del mestiere, della crisi, dei nostri sacrifici continui, per una intera giornata senza capirci granché.
Fino a che Bertrand, era questo il suo nome, si decise a chiedere aiuto alla società dei telefoni presso cui lavorava un ragazzino scapestrato che gli spillava soldi in continuazione, asserendo d’essere suo figlio.
“Si vede che voi non avete i cellulari giusti. Non ricevete gli squilli funebri?”
E che razza di fregatura erano? Come facevano a sostituire le nostre altisonanti parole di morte?
Il piccoletto ci fece acquistare due cellulari bluastri che ogni tanto emettevano una musichetta amena con un messaggio pronto da leggere.
Si poteva anche non guardarlo subito, tanto andava a finire in una memoria corta da svuotare di continuo. Niente altro.
Si doveva avere solo lo stomaco e l’umore giusto per vedere di che si trattava, poiché ad ogni ritornello grazioso corrispondeva una lista più o meno considerevole di defunti in non so quale posto del mondo.
Quanti morti! Ecco, la gente non voleva più le nostre frasi artistiche. Eravamo stati scavalcati dalla statistica nuda e cruda.
In molti si divertivano a scommettere soldi sul numero delle vittime, giornata per giornata.
Il bello della situazione è che si trattava di gente comune, di morti comuni, visi che saltavano per aria, finivano a pezzi e bocconi sbruciacchiati negli attentati in qua e in là per la terra. Una guerra che scoppiava ogni tanto, invisibile, sotterranea, balorda.
I due cellulari bluastri suonavano soavemente più volte al giorno e poi tacevano discreti, lasciando che la vita dei propri ascoltatori scorresse paciosa come sempre, come se mai fosse esistita una guerra.
Eppure osavano lanciare note maliziose nel cuore della notte, in mezzo ad un bel sogno, e quando succedeva essi divenivano grigio piombo, con una lucina rossa che lampeggiava minacciosa.
La guerra si avvicinava, da acqua a fuochino a fuoco.
Maledetti cellulari! Per colpa loro dopo un po’ non si concepiva più il resto dei morti, come se non ci fosse che quel modo di concludere la vita improvvisamente, ammazzati a caso, a chi toccava, toccava.
Con il mio amico Bertrand decidemmo di buttare via quegli aggeggi idioti, di ignorare del tutto la guerra, sperando che non ci toccasse mai da vicino.
Fondammo la “Società della buona morte e sepoltura” per unire le sostanze, mangiare ogni giorno.
Non è grassa, per carità, ma non ci lamentiamo. Io sto scrivendo i versetti funebri per una ballerina azzoppata ed un fotografo cieco.
Bertrand per due musicisti senza braccia ed un cantante col cancro alla gola.
Qualche richiesta ancora ci arriva, anche se ci mettono sempre più in fondo alla rete e la carta di giornale è oramai oggetto d’antiquariato.
Ci siamo giurati reciprocamente amicizia fino alla fine. Chi morirà prima avrà il suo bravo versetto funebre ad opera dell’altro.
L’ultimo se lo scriverà per se stesso.
Noi sappiamo cos’è la fine, ne abbiamo scritto per un’intera esistenza, ma sono in tanti a non saperlo più, perché la morte oramai esiste solo se bizzarra. Baciare un pollo sul becco, tubando con lui come fanno i piccioni e prendersi da quello un’influenza mortale.
Io lo facevo sempre da bambino col mio pollo da ammaestrare, legato ad una zampa con una lunga corda per farlo razzolare pacioso in giardino tra vermi e mosche.
Il collegio
Qualcuno dice che un tempo fosse una scuola vera, con tanto di professori e lezioni, libri di carta e mappamondi, ma immaginarlo ora è quasi impossibile.
Se mi sento solo, in genere mi rifugio in una stanza speciale, piccola, confortevole, con una minuscola cattedra e dei banchi così bassi che sembrano fatti per gli abitanti di Lilliput. Era la classe speciale per nani dotati di un grande cervello. Da lì dentro sento chiaramente tutto il casino che c’è attorno, con ragazze che si truccano per i provini televisivi e ragazzi che spaccano i vetri col pallone, per far vedere che diventeranno i nuovi campioni del mondo.
Non ci sono né insegnanti né sorveglianti. Tutto è lasciato aperto, a disposizione, persino i volumi rilegati in pelle e oro zecchino, tanto non è possibile ricavarvi denaro corrente, quindi non destano interesse alcuno.
Se sono in giornata, mi leggo di nascosto qualcosa, poi lo rimetto a posto, perché non voglio che gli altri abbiano dei pretesti per prendermi in giro o per negarmi la loro compagnia. Alla mia età è più che una semplice necessità. Oltre ai corsi per apparire al meglio in televisione, vanno tanto i giochini elettronici ed ogni sport circense che possa essere esibito a pagamento.
In questo strano paese ci sono molti collegi come questo, isolati gelosamente dal resto del pianeta.
La rete è interna, è adoperata solo per scrivere agli amici, trovare luoghi d’appuntamento, giocare.
D’altra parte non consente alcun tipo di ricerca che sia esterna al collegio stesso. Al massimo ti passa qualche ufficio finanziario del paese, ma dopo lunghe, interminabili attese. Che rimpiangi le vecchia file in prima persona, all’esattoria. Dio, non s’è mai vista una linea di rete più lenta, noiosa. Tra un collegamento e l’altro puoi lavorare ad uncinetto o punto croce, metterti lo smalto sulle unghie dei piedi e delle mani, tanto asciuga ben benino.
E pensare che al collegio la rete si chiama “lampo”. Io la chiamo “lumaca”. Navigo con la lumaca.
Per dirla tutta, ci sono notizie già pronte da mesi e mesi, informazioni d’ogni tipo, persino culturali che durano anche un’annata, per poi tornare indietro, rimesse a nuovo nella veste grafica. La stessa minestra da quando sono al collegio.
Devo essere sincero. A me non piace né la televisione, né il calcio, non ho predilezione particolare per sport alcuno. Non mi curo molto dell’aspetto fisico, preso come sono ad inseguire balordi presagi.
Però mi sforzo di seguire i corsi in rete di cinema, sopratutto per vedere gli attori.
Dicono che fuori del paese non siano gli stessi, che questi nessuno li conosce, ma vallo a dimostrare.
Con che? Noi conosciamo solo loro, che in realtà sono molto scarsi, oltre che bruttini.
Ma sono designati come attori, non ci possiamo fare niente. Anche il giochino “inventa la trama di un film”, dopo un po’ rompe, ma è l’unico modo per essere scelti ed avere casa con piscina, guardie del corpo, per vantarsi in giro di avere avuto successo, una gran carriera.
Dopo un po’, che rottura!
Io vorrei avere soldi per lasciare il paese, ma non ti fanno arrivare nemmeno alla frontiera. Ti fermano prima e ti rimettono al collegio.
A volte penso d’essere qui in punizione, perché ho commesso un reato, ma non è così. Qualche mio compagno di scuola dice che esistono paesi peggiori, dove le persone non vanno al collegio, ma a scuola di guerra per giocare a chi è bravo ad uccidere di più.
Non mi consola più di tanto, perché sono ben consapevole del posto in cui mi trovo, un collegio destinato all’estinzione nel dimenticatoio.
Avrei voluto trovare il coraggio di varcare la frontiera, facendo un salto nel nulla, tanto per provare.
Qualcuno l’ ha fatto- E' stato via per un po’, è tornato, s’è adattato ai corsi peggiori per sopravvivere.
I salti indietro ti riducono in polpette.
I figli dei ricconi del ministero delle finanze, quelli lì stanno bene anche al collegio!
Non fanno altro che organizzare feste, telefonare ad ogni ora, fotografarsi, riprendersi in piscina mentre ballano, cantano. Che noia, a pensarci.
Dopo un po’ io vorrei cambiare aria. Invece quelli finiscono l’esistenza dietro agli amici e alle suonerie più bizzarre di cellulari.
Qualche ragazza non fa altro che misurare vestiti, organizzare diete assurde, entrare e uscire dai negozi, trovandolo molto divertente. Che sbadigli!
Le ragazze così sono invidiate, corteggiate.
Qualcuna è bruttina, ma tutti la trovano bellissima, la eleggono miss qui e miss là.
Così vanno le cose al collegio.
Usciti di qui, nel resto del paese, è anche peggio.
Insomma, si tira a campare, fingendo di divertirsi e di studiare qualcosa d’importante. Chissà com’era il collegio molti anni fa, se è mai stato un posto ambito, ammirato nel mondo.
Intervista
Il quattro di luglio del 2000 m’è arrivata una richiesta d’intervista. All’inizio ero incredulo, pensavo ad uno scherzo, e visto che non ho molte frequentazioni, ad una burla da parte di uno sconosciuto.
Però c’era un indirizzo preciso sulla busta, scritto delicatamente con penna a sfera, un po’ scolorito, come fosse stato esposto a lungo al sole.
E invece veniva dalla luna.
Qualcuno aveva accuratamente richiuso la busta celestina, come sigillandola col cemento, perché all’inizio dubitai di poterla aprire senza romperla in mille pezzi.
Alla fine mi decisi a bagnarla un po’, rischiando di non leggerla più. Invece quella s’aprì per magia sotto le dita umide, come se non aspettasse altro.
Mi voleva intervistare un tizio che risiedeva al centro della luna da molto tempo.
Non specificò il perché e il percome del suo interesse nei miei confronti, ma mi faceva gran complimenti per la mia opera, come se lì fossi una celebrità.
Senonché dopo ammetteva d’essere l’unico addetto alle previsioni del tempo lunare, d’annoiarsi, di avere come unico svago l’aprire e il chiudere le finestre della sua casa a seconda del gran caldo e del gran freddo.
Curiosamente non specificava come e da chi avesse avuto i miei scritti, e se l’intervista era esclusivamente per lui o per altri.
Ma quali altri, se viveva confinato in quel romantico satellite? Mi inviava una specie di questionario a puntate, cui dovevo rispondere a mio gradimento nell’anno in corso, tanto le prossime domande sarebbero arrivate nell’anno successivo, all’incirca nella stessa data delle prime.
Non specificava eventuali note o dove sarebbero andate a finire, ma prometteva grandi cose, tanto che alla fine ci credetti e presi seriamente l’impegno di rispondere e di farmi intervistare anche in seguito.
Non avevo niente da perderci e tutto da guadagnarci.
La mia curiosità era tale che non stavo nella pelle dalla voglia di rispondere e di fare domande anch’io.
Così andò. Ho un accanito lettore sulla luna, che forse diffonde in giro non si sa dove, ciò che io penso e scrivo.
Poveretto! E’ finito lì dopo che la sua banca lo aveva mandato alla malora. Una banca che per restare aperta in modo legale rubò i soldi dei suoi impiegati e dei clienti più danarosi senza dare spiegazione alcuna.
Al processo venne fuori un pandemonio, e in mezzo a quel casino nessuno ci capì niente, nessuno andò in galera, ma chi non aveva più una lira si suicidò o andò a stare in un altro posto del pianeta.
E fu il caso del mio ammiratore segreto, che da sempre voleva andare sulla luna. Durante quel periodo nero, per puro caso in mezzo al parco aveva trovato la brutta copia di un mio racconto sulla luna e le stelle, e siccome per risparmiare scrivo sulle agende che la banca regala a Natale, c’era annotato il mio indirizzo.
Grazie ad una vecchia agenda gettata nel cestino, avevo finalmente un lettore, un ammiratore, un intervistatore, tutto in una volta. Ero abbastanza soddisfatto.
Iniziai con cura a rispondere alle domande, seguitando con entusiasmo anno dopo anno, fino a che non arrivarono più notizie dalla luna. Forse il mio momento di gloria era finito, forse l’omino era morto stecchito in mezzo all’argento.
Poi una notte arriva una cartolina illustrata tutta cerchiata di blu e giallo da Saturno, dove mi si chiedeva un’altra intervista. Oramai sono famoso nel sistema solare, e voglio raccontarvi cosa risposi alle domande a raffica che da satellite a pianeta a stella, mi mandavano i miei omini spaziali.
Alle domande troppo personali non risposi affatto, creando attorno a me l’alone di mistero che hanno i vecchi divi del cinema americano.
Scrissi che avevo visto alcune cose carine, moltissime veramente sconce per questa vita.
Senza essere pessimista, il mondo che era andato molto avanti, ad un certo punto aveva dato una gran frenata che aveva bloccato i suoi ingranaggi. Come farli ripartire?
Erano anni che ci provavano nei modi più disparati senza riuscirci.
Qualcuno, filosofeggiando diceva che era inevitabile, che era già successo in passato che sulla terra, ad un periodo prospero e illuminato, seguiva un ristagno verso i periodi bui. Ma io che sono poco lungimirante e mi occupo del tempo in cui mi è concesso il respiro, non vedevo che l’incapacità a riparare il danno. Ed ero arrabbiato per la manciata d’anni che qualcuno arbitrariamente mi aveva reso sicuramente meno bella.
Capricci di un artista infantile, attaccato alla sua esistenza, al suo corpo egoista.
Eppure per chi era scappato verso il sistema solare sono stato e sono tutt’ora un divertimento quotidiano che proviene dal pianeta più triste, la Terra.
L’esorcista aretino
Nell’aspetto sembrava più simile al mostro di Firenze che ad un prete qualsiasi, ma era considerato un gran guaritore in tutta la regione. La sua astuta competenza solcò in breve tempo i confini nazionali, ed ogni mattina, subito dopo aver officiato alle sacre funzioni, una solerte segretaria gli stilava la lista delle visite segrete. Eh, sì, perché quello che il prete dottore faceva dopo le messe della giornata era accuratamente eseguito alla chetichella, nella nuova sacrestia di recente annessa alla antica chiesa in restauro.
Mescolati ai turisti davanti all’entrata secondaria della chiesa, s’aggiravano fin dall’alba misteriosi visitatori emaciati, in vigile attesa.
Era vietatissimo entrare da quella parte, dopo che la donna aveva segnato l’orario per gli appuntamenti.
Più d’una volta un sacrestano infermo sulla carrozzella aveva scacciato i turisti curiosi in malomodo, serrando violentemente la porta che poi riapriva delicatamente, lasciandola accostata per il paziente di turno.
Il nostro prete, grande e grosso com’era, aveva paura d’essere assaltato da uno dei suoi visitatori a pagamento, fatto del resto già successo in passato, all’inizio della sua carriera parallela, quando un indemoniato più grave degli altri lo aveva morso al collo come fanno i vampiri, e un altro ancora, in preda all’ebbrezza, lo aveva marchiato sulla guancia con un ferro bollente, facendogli una specie di vaiolo bluastro.
Si proteggeva da sé con gli attrezzi del mestiere, ma aveva paura.
In fin dei conti era più che giustificato, perché lui mica toglieva i denti, lui cavava il diavolo.
Qualcuno andava lì convinto d’essere malato di cancro o di un altro malaccio sconosciuto alla medicina ufficiale, ma era sempre la stessa musica. Gira gira ci aveva messo lo zampino il demonio e toccava scacciarlo in malomodo.
In Vaticano ingenuamente continuavano a dire che i casi di possessione diabolica sono rarissimi e difficilmente accertabili, ma il nostro sacerdote, anche dal semplice raggrinzirsi della pelle attorno agli occhi che divenivano infossati, vedeva chiaramente il suo nemico.
Inutile dire che negli ultimi anni il numero dei posseduti stava aumentando incredibilmente, come se il diavolo avesse aumentato con qualche pozione medievale la sua capacità di penetrare gli umani, mentre le modeste possibilità di cura, l’antidoto, era in mano ai soliti preti pusillanimi poco attrezzati.
L’esorcista aretino aveva semplicemente le sue mani, ecco perché lo chiamavano il guaritore. Per lui era una questione di pelle.
Il satanasso prendeva la pelle, la ingialliva, la screpolava, la sbruciacchiava e infine la riduceva in poltiglia.
Ecco, si doveva guarire attraverso la pelle, toccarla, massaggiarla, stiracchiarla, renderla di nuovo sana e colorita. Quando il massaggio funzionava, Satana andava ad ingiallire altrove.
Il prete si ricordava d’alcuni pazienti, di quelli la cui guarigione sembrò quasi un miracolo.
Una volta venne anche un presidente di qualche cosa, reso quasi verde dal diavolo in corpo. Lì per far tornare un colorito normale c’era voluto il pennello di Dio in persona, e dopo il massaggio si notava ancora in qua e in là qualche chiazzetta di vomiticcio.
Il povero presidente aveva regalato al dottore della chiesa un preziosissimo calice per ostie e vino, molte casse di ottimo Chianti della sua collina.
Gli ammalati di riguardo facevano abitualmente laute donazioni, oltre alla sostanziosa parcella per le applicazioni antidemonio.
Un ministro d’altro paese si recava abitualmente ogni estate in visita al nostro eroe, dopo Venezia, Roma, Firenze, perché aveva timore di essere contagiato dal diavolo in quei luoghi così belli, e scoprirlo al ritorno in patria.
Egli era convinto che il diavolo s’aggirasse abitualmente a fianco dei monumenti, poiché odiava Dio e la storia e l’opera degli artisti. Forse aveva ragione.
Tra le persone più curiose che il prete guarì ce n’era una speciale, un siriano che commerciava in stoffe per mezza Europa, ricco sfondato, che un brutto mattino prese la febbre dei posseduti.
Cambiò dal giorno alla notte, iniziò ad imprecare contro il mondo che prima considerava il paradiso zeppo di cose danarose.
Starnutiva polvere gialla gialla, senza aver mai fatto uso di tabacco.
Seguì un corso di fabbricazione di ordigni micidiali, avendo in mente l’idea balorda di arrivare in cima alla torre più alta del pianeta Terra per farla esplodere assieme a lui.
Nelle poche ore di lucidità che gli restavano ebbe in sorte d’incontrare l’esorcista aretino, di invitarlo direttamente sulla torre, con la vaga intenzione di buttarlo giù al minimo accenno di distrazione.
Il sacerdote si portò dietro i migliori unguenti per far scivolare meglio le mani sul diavolo, più qualche vecchio attrezzo del passato remoto che poteva tornare utile in tali frangenti.
Quando la sfida ebbe inizio si stabilì che il demonio facesse un sacco di domande indiscrete, quiz o giù di lì.
Massaggiando, il prete lo fregò con una parlantina niente male, dovuta al caffè, al fumo e alle poche ore di sonno. Il diavolo non ne poteva più e preferì abbandonare il siriano per sempre.
Ma prima di lasciare il corpo del trafficante di stoffe, si rivolse al suo nemico malignamente, come solo il diavolo sa fare. Era una specie di scioglilingua bislacco a cui il vincitore non dette la benché minima importanza. Fu un tremendo errore non controbattere adeguatamente a quelle ultime parole, poiché il disgraziato se le ritrovò tutte addosso nel ritorno alla sua chiesa.
Nel sogno capì che aveva contratto la maledizione.
Si guardò allo specchio e già la sua pelle cominciava a mutar colore e consistenza.
Le creme non servivano, non poteva farlo sapere né alla segretaria, né al sagrestano. Nessuno doveva sapere.
Nei giorni successivi divenne allergico alla bellezza, scansando violentemente risate e gioventù, diventando il diavolo che curava in penombra le sue vittime, senza esibire più il corpo, come un lebbroso.
Adesso sì che rassomogliava straordinariamente al mostro di Firenze.
Il favoliere pazzo
Premessa
Qual’è la famiglia che non si vanta d’avere un artista? Scrittori, musicisti, pittori sono ovunque come trifogli. Le famiglie più sfortunate ne hanno troppi da mantenere a sbafo e si vantano di gran cose, lavori esorbitanti. Ma stringi stringi, a tavola sono insaziabili come avessero una fame arretrata.
Ci sono abiti, viaggi di rappresentanza per i quali battere continuamente cassa. Un tempo sceglievano gli artisti migliori che erano ospitati e mantenuti da chi poteva. Adesso sono in tanti sulle spalle di nonni e babbi vita natural durante, capaci di azzerare il reddito di una classe media o ricca in men che non si dica, per andare poi ad elemosinare qualche lavoretto da mensile.
In genere è così, ma non per il povero Aben Hamet, rimasto senza appoggio alcuno dopo una tremenda, lunga carestia.
Egli aveva perso casa e lavoro, figli e nipoti. Non gli restava nulla se non riscattarsi col mestiere di favoliere.
Pensare che discendeva da una classe più che discreta che possedeva le terre del petrolio.
Mai stirpe fu più disgraziata da beccare un terremoto che fece saltare gli impianti, prendere a fuoco il sottosuolo, prosciugare col vento del deserto tutto il resto. Le bestie morirono, le oasi sparirono, le moschee furono ridotte come e peggio dei fori imperiali della vetusta Roma.
Delle 15 mogli non se ne salvò nessuna, brandelli di stoffe scure sbruciacchiate, un po’ d’ossi, nonostante la mole d’adipe pressoché uguale per tutte.
Lui che era nero nero, imbiancò di pelo all’improvviso e prese l’aspetto ascetico che s’addice ad un grande scrittore e pensatore, non facendo oramai altro dalla mattina alla sera, mangiando poco e bevendo meno, sempre più ispirato, distaccato dalla sorte crudele. Sarete curiosi di sapere a che lavorasse un tale portento. Non è questo il punto, nemmeno lui lo sapeva con certezza, ma era convinto che quelle parole fossero dettate da uno spirito amico mosso a pietà del suo destino.
Si trattava indubbiamente di una specie rara di fiabe, numerate come i comandamenti, da uno a cento e passa che ben presto procurarono al suo autore una strana fama.
Aben eseguiva, e mani nascoste diffondevano in un giro sempre più largo le artistiche pensate del saggio. Nelle piccole gemme di saggezza che sceglieremo per voi c’è il mistero della vita d’un uomo che invece di morire assieme ai suoi sotto la forza del cataclisma naturale, riuscì a vivere e a far parlare di sé a lungo il mondo intero.
Aben Hamet bambino
Mi rivolgo a te, piccolo, perché ti alzi e impugni un’arma. Comincia a sparare, colpendo sempre più al centro il tuo bersaglio. Io trovai un mitra, lasciato lì da qualche soldato distratto, nell’ultima guerra che ci fecero contro, perché rubavamo donne e bibite ad un paese straniero e nemico.
La voce del profeta parlava direttamente a me bambino, sopratutto nelle ore più calde, quando i più vecchi morivano soli, abbandonati a se stessi, sotto i 50 all’ombra.
L’acqua era per il rais e le 100 mogli e concubine che si lavavano in continuazione, si profumavano all’occidentale.
Oltre alla voce del profeta, avvertivo anche una musichetta all’orecchio destro, dopo che avevo giocato un po’ con l’arma ritrovata e m’era partito un colpo rimbalzato verso me dalla pancia dell’elefante.
Eravamo due pelli molto dure. Anche quelle note fisse come il canto della cicala, furono la preparazione ad eseguire gli ordini del mio protettore, già padrone dell’universo e di questo mondo, non del tutto soddisfatto dello stato delle cose.
I miei genitori mi mandarono a svagare e a studiare in occidente, preoccupati della mia salute fisica e mentale, poiché rimanevo per ore ed ore rapito dalle mie voci interiori.
Non sapevo di preciso chi fosse questo profeta, perché non si dava un nome, non era quello adorato dal resto della popolazione, non aveva quel nome.
Il mio era senza nome e nessuno ci credeva.
Ero molto arrabbiato di ciò, pensavo di rimediare in seguito, compiendo miracoli, meraviglie, fenomeni soprannaturali.
E quando tornai al mio paese, dopo aver bevuto bevande proibite, ascoltato musiche diaboliche, avuto ragazze di facilissimi costumi, ero pronto per essere un capo, la guida di un popolo lento, che voleva solo coprirsi il capo quando faceva caldo 50 gradi all’ombra.
Il pappagallo
Elessi a mio gran consigliere un pappagallo straordinario che parlava 5 lingue straniere e traduceva simultaneamente. Diceva parole oscene nelle principali lingue occidentali ogni volta che giungevano notizie da quelle parti così odiate.
E come me, quando arrivava chiara e forte la voce del mio profeta personale, sbatteva la testa contro i muri del palazzo d’oro e rubini.
Anche la bestia non aveva un nome e tentarono in tanti d’avvelenarlo, perché pensavano che esso fosse la mia magia segreta, ma non era così.
Le magie le faceva il profeta, poiché di notte comparivano sempre più armi e marchingegni bellici, un arsenale completo per dar fuoco al mondo intero.
Bastava che il pappagallo ed io s’aspettasse nell’ombra, ed ecco il palazzo colmarsi d’ogni ben di dio, ciò che i miei sogni di bambino avevano agognato quando mi credevano pazzo.
Il mio dolce uccellone dal becco ricurvo prese a ripetere i messaggi della voce bianca, sempre più pressanti.
La musa, la sfinge mi spiegò che cosa dovevo diventare per avere il mondo e mi dispiacque quando per farmelo capire usò il povero consigliere pennuto.
La mano misteriosa di dio non lo avvelenò, ma lo imbottì per il becco. Esso saltò in aria. Piume, schizzi di merda verdolina, colore del sangue alquanto strambo.
Per illuminarmi sul mio futuro radioso, s’intende.
La barba
Simbolo di potere e di bonarietà è divenuta la mia barba, fatta crescere a dismisura ogni mese fino al venticinquesimo, poi spuntata un pochino, giusto per non impigliarmi ad ogni angolo del palazzo d’oro e zaffiri.
C’erano 15 concubine ad occuparsi della sacra barba nel silenzio sonante del mattino. Che bisogno c’è della musica, quando anche gli animali cantano, lamentandosi forte? Noi non siamo bestie.
Le odalische lisciavano la barba dal diritto e dal rovescio, legavano le estremità con dei cordini a campanella molto carini da mostrare in pubblico quando dovevo benedire il popolo.
Più d’altre parti molto attive allora, meno nobili, la barba prese ad essere qualcosa di me che mi comandava a bacchetta.
Quando restavamo soli davanti allo specchio più opaco del palazzo d’oro e ametiste, essa cominciava a strozzarmi, impartendo gli ordini per la giornata.
“Che tutti gli sbarbati, ad eccezione dei bambini sotto i tre anni, vengano frustati sulla pubblica piazza, fino a che non spunti loro qualche pelo.
“Dopo i 18 anni la lunghezza non può essere inferiore ai 40 centimetri altrimenti, giù botte da orbi.
“Che sia creato un corpo di vigilanza speciale per adempiere al meglio a tale pietosa incombenza, e di gran carriera!”
Quando la barba diventava troppo vanitosa, pavoneggiandosi superba in lungo e in largo, io minacciavo di darle una spuntatina, ma quella si metteva ad ondeggiare dalle risate, consapevole che il mio potere era oramai finito nella sua mole unta e stucchevole.
Il paese divenne il suo regno. Ovunque c’erano sudditi seguaci dei sacri vincoli della barba lunga, che invocavano la guerra santa contro chiunque non avesse peli a volontà.
Nel buio mi pareva di vederla staccarsi dalla mia faccia e prendere a danzare soddisfatta davanti alla finestra per poi tornare, come se nulla fosse, alle mie gote prima che io m’alzassi dal letto.
E quando essa non c’era più, avevo terrore di toccarmi, di guardarmi, perché il demonio sicuramente era nel mio sguardo, sulla bocca, dentro alle orecchie bianchicce senza peluria. Mi sentivo morire, ero disperato.
La mia cara barba da proteggere accuratamente era a volte triste, poiché temeva che se io fossi caduto in mani nemiche, la prima cosa che avrebbero fatto, era di tagliarla di netto e farci liane per divertire le scimmiette dei giardini pensili.
Allora io dovevo rincuorarla con essenze rare di porcospino, fino a che la malinconia non lasciava la matassa.
Gli occidentali che avevano qualche barbetta da strapazzo, ridicola appendice di zucche vuote, bucate, presero a tagliarsela per dispetto Persino i membri d’uno scellerato gruppo di suonatori, dalle barbe quasi regolamentari, le bruciarono con la pipa per non rassomigliare a me.
Che stupidi! E che sforzo immane estirpare me, con la mia barba potente che prende vigore da niente e da tutto, dalla luna crescente. Insieme, io e la mia barba rispuntiamo indisturbati continuamente.
Le donne quadrate e ululanti
Ebbi tante mogli e altrettante concubine che facevano a gara per pettinare la mia impressionante barba senza riuscire mai a soddisfarmi.
Molte di loro erano belle, ma in poco tempo diventavano dei barili di ciccia, dei quadrati di gelatina, e più pelose di me.
Meno male che si coprivano completamente, così non mi disturbavano, mentre coltivavo piaceri solitari, sfogliando le riviste del diavolo, con tutte quelle femmine vestite quasi di niente.
Comprare qualche indemoniata era diventato più difficile che rapirla. Ogni tanto, sotto le vesti nere, quegli spessi veli che fasciavano corpi sfatti, appariva un naso a proboscide d’elefante, baffi spessi e virili da dubitare sul sesso d’appartenenza.
Ma erano state le mie donne e le madri dei miei figli legittimi e non, dunque dovevo prendermi cura di loro, non far mai mancare cibo abbondante e qualche bevanda proibita. Così si calmavano e non s’uccidevano di nascosto tra di loro per avere la mia distratta attenzione.
Esse consumavano più dell’esercito, più degli enormi eunuchi, più del mio zoo d’animali esotici, crescendo meravigliosi figli obesi. La mia preferita si chiamava Blanca, pesava più d’una tonnellata, una specie di balena nera nera, tremenda, capace di sterminare con un semplice starnuto o pistone 100 femmine occidentali.
L’avevo sposata come eroina indiscussa, dopo che aveva tentato una bizzarra cura dimagrante per andare a nuotare, pardon, galleggiare in una piscina peccaminosa.
La prima giornata di dieta finì con un’enorme abbuffata, annaffiata da barili di vini e liquorini che tenevo per le grandi occasioni.
All’alba del giorno dopo essa trovò il modo non indolore di eliminare un po’ di ciccia superflua. Invece d’indossare il costume peraltro castissimo che le avevo regalato per l’occasione, s’imbottì di tritolo e andò a farsi saltare per aria in quella maledetta piscina.
Così sono le mie donne, risolute, senza tanti ghingheri.
Fece una strage tale di occidentali che divenne molto popolare ed io mi sentii obbligato a sposare i suoi resti imponenti, oggi esposti a pannelli in una stanza del palazzo d’oro e smeraldi sotto la dizione “buona parte dell’arte contemporanea”.
Un’altra eroina dopo Blanca prese il suo posto nel mio cuore e in quello della mia gente.
Essa non aveva nome, ma sfornò una ventina di marmocchi a tre, quattro per volta, tutti uguali a lei.
Ne avessi visto uno simile a me, almeno uno dei gemelli, niente.
Li teneva sempre accanto a sé come un’enorme chioccia, ma un giorno che s’assentò per andare in solitudine alla nostra moschea privata, quelli presero il volo per le terre perdute. La chioccia pigolò un po’, poi andò direttamente a riprendersi la prole traditrice, trascinandosi dietro soldati armati fino ai denti.
Sterminò i suoi figli, sorpresi a comprare sigarette e musica, consegnandomeli belli e decomposti.
Che donna! Non c’è che dire, io sono fortunato.
La discendenza
La mia successione era più che assicurata, naturalmente.
Avevo scritto di mio pugno l’immane lista di figli, numerandoli con cura, cosicché non ci fossero errori nel caso di morte più o meno accidentale dell’uno o dell’altro.
Avevo anche io le mie preferenze, ma le sacrificai in nome d’un rigido sistema di selezione che vado a descrivere, sperando voi comprendiate l’importanza d’assicurare un erede abile, scaltro, capace di fare tanto di barba a chiunque senza rimettere un pelo della sua.
Li allenai tutti quanti ad un gioco, fin dalla più tenera età. Li portavo alla nostra moschea durante i riti quotidiani, facendo loro spostare le calzature dei fedeli in modo che non si potessero ritrovare. Vinceva chi riusciva più a lungo ad ingannare i fedeli. La mia lista di successione la compilai così e mi ritengo soddisfatto.
L’erede numero uno nascose le scarpe talmente bene che ancora le cercano invano in luoghi molto lontani, il furbacchione! E aveva scelto scarpe occidentali, doppio merito, doppia ragione di stima.
Così quei fedeli poco ortodossi furono puniti della loro vanità, restando scalzi.
Questo erede era un mistero anche per me, sempre così brillante, agghindato, profumato. La sua barba aveva i sapori del mare di maggio, come se usasse prodotti a me sconosciuti.
La bici spiona
Delma e Romeo erano due vecchie biciclette tradizionali, di quelle senza particolari trucchi per andare più veloci in salita o accessori vistosi che attirano invidie e ladri. Delma era rossa e bassina, con la catena che batteva il tempo ad ogni sussulto di marciapiede, e il suo Romeo era nero scolorito, col campanello un po’ arrugginito e atono.
Sempre parcheggiate alla stazione, vicine vicine, in attesa che tra un treno e l’altro tornassero i rispettivi proprietari. Sempre legate ai ferri, esse ridacchiavano al sole e sotto la pioggia battente, ogni volta che rubavano altre bici o le smontavano a pezzi per rivenderne i ricambi.
Ma Delma aveva un gran segreto, custodito gelosamente anche dal suo Romeo. Era una bici-spia che pattugliava ogni angolo della stazione metropolitana a caccia non dei ladri di ruote, ma di quei disgraziati che mettevano bombe dove capitava, perché il cranio umano va anche sui falsi binari e non riparte più.
Come facesse a sciogliersi da sola non lo aveva capito nemmeno Romeo. Quella all’improvviso prendeva il volo senza che nessuno ci facesse caso, nell’eterno bailamme di passeggeri, valige, treni, poliziotti, cani, spacciatori, prostituti, barboni, accattoni.
Le ore scorrevano veloci ed era già tempo di tornare al proprio posto, tenuto occupato dal fedele amico alla meno peggio, con tripli giri di catena, una pazienza orientale.
Delma chiudeva il turno di sorveglianza verso l’imbrunire e lo riapriva nell’ora di punta del giorno appresso, molto gratificata dal suo ruolo di spiona.
Raccontava a Romeo cose da turchi sugli umani, spettegolando come una lavandaia. Solo qualche anno prima era inimmaginabile che il mondo diventasse una polveriera pronta a saltare per aria con fragore assordante ad ogni latitudine e longitudine, in balia di pazzi furiosi arrostiti dal deserto infuocato, come nei disegni del fumetto preferito da Romeo, “Il deserto dei morti viventi”.
Cosa poteva mai fare una bici vecchiotta per impedire qualche brutto scherzo al genere umano, intentato da se medesimo?
Prima avevano inventato tante belle cose per divertirsi e stare bene, ma purtroppo non avevano accontentato tutti quanti. Tra chi non era soddisfatto e preferiva morire, dando la morte pur di vedere la felice laboriosità degli altri, spuntò una razza a sé che si riteneva superiore. Il bello è che i suoi capi ebbero e gustarono il meglio di ciò che intendevano eliminare, ma trovarono più gustoso prendere a calci il mappamondo, avere il potere più disgustoso che l’umano può concepire.
I capi mandavano a morire dei poveri cristi per ammazzare altri poveri cristi, ne guardavano le budella, come fanno a volte i bambini cattivi con le bestioline indifese. Ma i bambini cambiano, quando iniziano a capire il dolore, non ci godono mentalmente.
Una mattinata fresca d’ottobre, tra la nebbiolina di smog che avvolgeva i dintorni della stazione, Delma aveva truci pensieri, costeggiando uno dei muri esterni, e notò qualcosa di insolito. Due, tre disgraziati, valigie, concitazione trattenuta a stento, qualche urlo più forte.
A chi farlo presente? Era deserto attorno, troppo presto per svegliarsi, per sorvegliare pochi treni in arrivo, pochi in partenza.
La morte era pronta ad incassare un magro bottino di addormentati in attesa, baristi, spazzini, studenti, battone. Forse avrebbe aspettato l’ora di punta, la furbacchiona!
Delma scampanellò prudentemente ad un cane randagio che cercava da mangiare. Si capirono al volo lei e il lupacchiotto senza padrone.
Quello agganciò il gruppetto contro il muro, facendo un fracasso che rimbombò dentro alla stazione, quasi avesse microfono e amplificatore potenti. Li presero tutti, imbottiti anche in culo.
Il giorno dopo sulle bacheche dei quotidiani spiccava la foto del lupetto, medaglia d’oro al valor civile. Attentato sventato, le forze di polizia avevano una nuova recluta molto affamata.
E Delma si sentiva una spia vera, si dava un sacco di arie, tant’è che litigò col suo Romeo. Passarono la giornata a punzecchiarsi, fino al ritorno dei loro padroni, sgonfiandosi a vicenda le ruote.
Per mantenere a lungo il segreto dell’amica, Romeo imparò a slegarsi da solo per dare una mano alla nobile causa, ma non avendo imparato bene come rilegarsi col lucchetto, fu rapito suo malgrado malconcio com’era e ucciso, smontato pezzo per pezzo.
Delma pianse per una settimana, arrugginendosi un pochino. Adesso le fa la corte un enorme biciclettone da trekking, tutto accessoriato, ma non sarà mai come Romeo, neanche sgonfiandosi un po’ le ruote, o rompendosi qualche marcia. Pensate che a distanza di mesi dalla tragedia ancora Delma non è riuscita ad uscire in compagnia del muscoloso corteggiatore.
Lista aggiornata di uomini (e donne) importanti
Ogni periodo della civiltà umana ha i suoi uomini illustri, quelli sulla bocca di tutti, quelli la cui foto è a ogni angolo di contrada, perché gli altri spalanchino la bocca. Al presente sulla scena mondiale c’è uno sceicco fantasma, irreperibile, morto o vivo che sia. Un profeta, un filosofo che dondola, pronunciando bizzarre preghiere per qualche divinità ignota, che sfugge persino alle saporite bestemmie toscane. In quelle terre profane il nome dello sceicco è uguale alla marca di uno zucchero poco raffinato, economico, venduto al supermercato.
E’ imbarazzante ammettere il proseguo della ristretta lista, almeno per quanto riguarda il mio povero paese afflitto.
Lo sceicco distanzia di gran lunga un ricchissimo calciatore, un faccendiere, un saltafossi, una marocchina che difende l’infibulazione, un comico che fa ridere i polli in fin di vita, un cantante predicatore, una madre assassina tanto innocente, il presidente di tutte le banche strozzine e rubasoldi che si dimette per il bene della patria, dopo averla servita egregiamente.
E poi giù, tutti a rifarsi la faccia e il culo, a dar feste per togliersi assieme adipe, rughe, peli bianchi, annusando strane polverine.
E’ festa continua, per avere relazioni pubbliche, perché non è importante ciò che uno sa fare, ma chi incontra in giro. Così nessuno sa fare più niente, oltre che parlare a raffica e spogliarsi, poiché curare le relazioni pubbliche costa ogni preziosa ora della propria sconcertante esistenza.
La lista resta aperta ad un esercito di uomini che fanno mestieri non propriamente adeguati alle loro ovvie o nascoste capacità. Uomini molto, molto illustri, donne molto, molto celebri.
E’ stupefacente questo periodo, così gaio e criminale, talmente pazzo da sembrare più che normale. Un mazzo di crisantemi dipinto da un povero malato d’Alzheimer, musicato da un tizio che mangiò troppa carne di maiale, narrato da un esattore onesto, finito nelle arabe galere.
Girandola
Piccoli allarmi. Luogo, la città, una natura cancellata. Tempo, a scuola, in Comune, alla radio libera.
Il pomeriggio, la sera, la notte. C’è un fatto preciso e trascinante? Che noia tutta questa nebbia e questa falsissima, ipocrita quiete, questa immobile ottusità. Qual è la differenza tra la morte e qui? Che la prima è naturale.
Quando divenne la ragazza di un ragazzo costretto a chiudere il suo negozio sotto il ricatto delle banche strozzine, usuraie, anche a lei toccò la morte civile nel suo bel paese tutto sole, amore, dolore.
Quando poi morì suo padre, i numerosissimi parenti la dichiararono morta e sepolta in troppo giovane età nel bel paese tutto cuore, mamma, famiglia.
E partì. Il viaggio divenne la sua forma di vita preferita. Non ne conosceva altre che fossero così divertenti. Straniera soprattutto nel proprio paese, peraltro stupendo da visitare. Turista, vacanziera, in ogni piazza, in ogni strada. Scribacchina la Girandola.
Quante case smontò e rimontò, quanti alberghi abitò? La fuggiasca.
|
|
|