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versione italiana
english version
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Materiale
Gli oggetti sono importanti, soprattutto quelli che durano, che si sciupano col tempo, ma restano solidi a ricordarci persone lontane, altre cose, cerimonie, i morti. Io ho uno scrigno che mi ha lasciato l'eterna voglia di caramelle e cioccolatini, una foto che mi ricorda una persona che non c'entra niente con me, di cui non ricordo neanche il nome, ma siccome è una bella foto è lì grande, a troneggiare sulla parete come se quella ragazza che faceva il maschio col cappello di panno scuro mentre fuma una sigaretta e mi guarda sia veramente importante per me.
Sconosciuta sì, ma forse importante lo è. Spiegatemi perché io l'abbraccio con guanto di lana bianca e mi ricordo persino il freddo che sentivo in quel momento, addossato ad un muretto screpolato con dietro il parco d'inverno. Forse si chiamava... no, non ne sono sicuro.
Di muri cadenti ne ho visti a iosa tra le foto dei vagabondaggi senza meta, senza pensieri, con storie d'amore di qualche ora.
Un fungo allucinante di cristallo, una scatola laccata che un ragazzo rubò per me in una pasticceria, una cassetta musicale che ripete una frase, mai pronunciata dai miei grandi amori. Nemmeno chi la incise per un compleanno. Dopo quindici anni mi chiamò al telefono con la stessa voce ed io finalmente, era ora, mi negai.
L'ultimo regalino d'amore, una pietrina violacea, l'ho buttato via appena lui se n'è andato, perché non credevo che fosse magia. Infatti l'aereo è partito regolarmente.
Quando chiudo con una persona m'illudo di buttare via ogni oggetto a quella associabile, ma non è così. Rispuntano fuori da ogni dove le cose dimenticate, e nei momenti meno appropriati. Segni sul muro che non vanno via, bruciature di sigarette sulle lenzuola, macchie sui tappeti.
E allora ti ricordi che gli piacevano bicchieri enormi e che ti ha imparato a fare un caffè più buono e a lavarti il culo, ma non ha importanza, come non ce l'hanno le riviste rubate ad altri, i pensieri cattivi. Altre cianfusaglie.
Va bene aver tolto la posa annuale di sporcizia all'improvviso dall'ombelico, aver buttato dei libri, essermi accorto che avevo bisogno d'occhiali da vista, essere divenuto più veloce nel traslocare, più razionale nell'attrezzare nuove case, conservare in ottimo stato quelle abbandonate. Le chiavi sono essenziali in doppia copia solo per me, per esser certo di non restare chiuso fuori in una notte buia e tempestosa. E i fumetti, Paperino, le streghe, Paperone e Brigitta, come ho detto a chi non l'ha capito, giù per le scale di casa, chiuso fuori. La vita è meravigliosa.
Il basso che non ho mai suonato, il topo di Berlino, una goccia di smalto verde sul cotto.
E un altro nome importante che a fatica ho ricordato ora e mi ero completamente dimenticato. Un altro pezzo della mia divertente vita da collezionista.
Son più che soddisfatto, perché gli amici, pochi, sono quelli che prendono decisamente la loro strada, mentre i nemici e i falsi amici ti restano incollati per vederti morire.
Qualcuno a volte si riesce, facendo i salti mortali, a spedirlo sulla luna, e c'è sempre il pericolo che ritorni anche da lassù.
Così ogni giorno c'è il sogno d'un nuovo amico da incontrare e il desiderio di sfuggire a tutti gli altri, che purtroppo oramai si son fatti conoscere anche troppo bene.
Forme
Io sono l'abitante della villa abbandonata su in collina, avvolta nel suo degrado, come fossi l'ultimo rifugio sicuro di curiose forme naturali non accette in società. Che cosa intendo di preciso, per quanto l'argomento sia ostico e sfuggente, ve lo spiegherò dettagliatamente un po' più avanti nel discorso.
Anticamente la mia decrepita dimora era una piccola reggia di campagna di qualche nobile europeo, con un codazzo di servi e di amanti, e questo spiega i dipinti erotici all'entrata e particolari simboli ancestrali che son disposti come i quattro punti cardinali, ma al contrario di quelli disorientano l'osservatore, facendogli perdere il comprendonio.
Una leggenda parla di molti stranieri che avrebbero preso a vagare nei boschetti lì attorno, fino a perdersi e non trovare più la strada per la città. Il bello è che i poveretti non erano in grado nemmeno di tornare alla villa, perché quella scompariva ai loro occhi, avvolta in una nube trasparente.
In genere il finale è tragico. Morte per fame, per assideramento nella brutta stagione, per colpi di calore e sete in estate.
Ciò che succedeva lì dentro nessuno è in grado di spiegarlo, tranne lo spirito del signor conte che cammina nell'ultima stanza col candelabro, e le serve giù da basso imprigionate vicino alle cantine, petulanti come da vive.
Persino io, abitante immaginario, non ho scoperto granché, oltre a quelle poche cose constatate di persona durante le mie passeggiate circolari attorno alle mura già di per sè rotonde, con la facciata e il delizioso pozzetto dei putti, dal quale un dì sgorgava acqua di sorgente per i passerotti e i merli.
Ai piedi della consunta scalinata c'è un giardino con le statue di strani individui pressoché sconosciuti al volgo, ma tutti gran pensatori, frammassoni che s'occupavano di stelle del firmamento e stelle di società.
Essi si conoscevano molto bene tra di loro e tanto bastava. Lessicografici, matematici, generali d'esercito, politici dallo sguardo sveglio, sorveglianti di ciò che rimaneva di giorni gloriosi e persi. Ma dietro alle statue altrettanti ometti dallo sguardo allarmato facevano il lavoro della talpa. E qualche busto cadeva rumorosamente, ruzzolando giù per la discesa del colle fino alla grande piazza.
Non ho mai visto un attentatore per intero e dubito fortemente che si tratti di persona viva, bensì d'anima defunta e irrequieta che per una qualche ragione, forse un torto subito, ce l'aveva a morte col galantuomo della statua prescelta.
Perché in questo paese è cosi, ognuno ha nemici che gli stanno alle calcagna anche nell'aldilà. Si gingillano tra di loro a farsi i dispettucci e così passano il tempo.
Come vi ho anticipato, lasciamo perdere chi ha contato e chi conta tutt'ora e veniamo al sodo, ai poveri scarti del marcio che a volte ho trovato più sopportabili e gradevoli d'altri famosi potenti. E non sono nemmeno sicuro che gli abitanti di questa specie di limbo siano meno importanti o destinati a minor gloria, dati i tempi balordi di transizione da un'era ad un'altra.
Ho visto nell'ombra del salice piangente una suora badessa tonda come una quaglia. Ella insegnava oramai senza scolaresca con una temibile bacchetta travestita da metro per misurare non si sa che. Odorava di gesso e di frittelle, di bicchierini di vino dolce e rosso.
Più in là c'era una donnina che si tingeva i capelli di marrone rossiccio e fumava, beveva e benché non si potesse dire bella a me sembrava piacente e civettuola, così magrolina, con quell'aria canterina di paese.
Queste figurine m'apparivano più vive di altre, come se l'avessi conosciute personalmente, magari sotto altra spoglia, in altra dimensione che non era presente alla ragione.
Lo dico perché ho conosciuto altre forme vaganti di cui son sicuro d'aver solo letto o d'averne sentito parlare. Esse camminavano eleganti attorno alla casina fatata, come fosse la cosa più naturale di questo mondo che dei soffi di vetro s'aggirassero sopra l'erba del prato senza calpestare margherite e capelvenere.
Ciò che ho imparato da loro è che non c'era posto neanche prima di me per tutti indistintamente, in questo paese di gente perbene, e gli scarti si rifugiavano dove potevano, creandosi una loro esistenza di beatitudine e beltà.
Le musiche, le poesie, le danze più sublimi si conservavano a questo modo intatte in mezzo a tanto degrado.
Qualità
Pensava d'essere di nuovo triste, mentre gli altri correvano affannati ai loro mestieri importanti e non.
Invece, chiuso nell'ozio perenne e sublime da cui voleva uscire sempre di meno, egli stava volgendo la mente ad una musica particolare, melanconica, esangue, quale fanciullo che si strugge d'amori immaginari.
E capì, quasi ridendo, che l'arte era per lui una malattia interiore subita in presa diretta, senza bisogno d'altro.
Stava vivendo una finzione d'altri, non sua e non se n'era nemmeno accorto. Un pregio, un regalo.
Altra sua tendenza particolare che aveva da poco scoperto, erano delle minuscole premonizioni, come quella d'incontrare una persona, di parlarci, di conoscerla prima o poi. Piccole scoperte, nel senso che erano talmente a ridosso degli accadimenti veri e propri da essere appena appena rivelazioni, come saltare su un treno al volo prima ch'esso prenda velocità.
Qualche volta in passato egli aveva aiutato a prender forma nella realtà a sogni, fantasie, cose in genere scartate dalla vita, o peggio ancora classificate come follie pericolose.
Invece per lui, da comportamenti azzardati fuori dalla ragione, erano nati dei ribaltamenti salutari di mondi, e ciò che non era conosciuto divenne in un attimo arcinoto, smascherato, il più delle volte un autentico abbaglio collettivo spacciato per verità in cui credere.
Da questo punto di vista egli era un impiastro, un impiccio sociale, nonostante le sue qualità inutili e un'esistenza da frate minore.
Sussistono legami segreti tra le cose che una volta visti da vicino si rivelano più banali di ciò che si pensava alla cieca, niente di eccezionale, nè magico, nè sovrannaturale, ma un insieme di cause ed effetti, similitudini e differenze.
Ciò peraltro non ostacola il percorso della bellezza e dell'arte, anzi. Egli pensava che diventassero più che mai importanti per rivelare lo stato delle cose inaccessibili, o presentate quali impossibilità, poiché a disvelare i più riposti altruismi non c'erano che quelle peculiari qualità.
Con l'innocenza di uno sguardo infantile s'aprono i cerchi abissali della verità che finiscono, chiudendo gli occhi.
Forse quella persona ch'egli pensava d'incontrare abitava da sempre lì vicino...
E intercettare il pensiero di un'altra persona su di noi è una situazione favorevole di passaggio, d'interesse spiccio tra chi pensa e chi è pensato.
Le vere scoperte sono per altri pensieri impervi e casuali, pericolosi, dolorosi, privi di megalomanie. Sognare ad occhi aperti senza gingillarsi sugli esseri umani, questo era lui, l'artista evanescente.
Potere
Nella nuova stanza ci sono due radio piuttosto vecchiotte, il computer per la rete, sono sparite le televisioni e la musica arriva solo dalla rete. Come cimeli mangianastri, compact e uno scassato giradischi dalle casse acustiche sfonde.
C'è una piccola calcolatrice giapponese, libri e giornali antichi pieni di polvere ai bordi, quaderni a quadretti e a righe, penne economiche e matite, aguzzamatite e gomma per cancellare, vicino a un ramo spezzato a ipsilon, lo strumento del rabdomante per cercare di cogliere l'intensità di ogni ora senza lasciarsi sfuggire niente.
Qui non si tratta di riflettere, quanto di vivere nel mandala a suo tempo disegnato per vincere sui vetusti poteri.
Mentre essi si attardavano su glorie mai meritate, qualcuno ha mutato l'acqua in vino e viceversa, a seconda delle esigenze del momento. Questo avveniva in un paese molto piccolo, anzi, è più preciso dire che lì accadeva ciò che era già accaduto nel resto del pianeta. Nell'argentato clima dell'inverno il minuscolo lottatore scriveva il proprio diario serale, digiuno per purificarsi, arzillo, con i piedi e le mani fredde, ma il resto del corpo caldo, avvolto in lana e angora, mentre i gabbiani si esibivano nel cielo da neve e il pettirosso curiosava col merlo in giardino a cercare vermi secchi e bacche.
Era uscito solamente per vedere lo stato mentale inquinato della gente, affannato, dolorante, esaltato, euforico con l'ausilio delle pasticche colorate. Strade assolutamente prive di cose graziose e allegre, meno due orchestrine improvvisate con buffi ometti rubicondi dalle gambe corte che zompettavano come grilli innamorati della luna, con discreto successo di pubblico, ma scarsa entrata di danaro anche per una sola bottiglia di alcool.
Il lottatore notò divertito che quei suonatori erano in quel momento i più simili a lui, compresa la voglia di evadere in una bottiglia verso lidi distanti, ma s'era promesso di tenere gli occhi ben spalancati sull'orrore per almeno due giorni.
Era difficile un passaggio di poteri, ma ci stava riuscendo, cominciando dall'armonico sforzo di purificazione non consentito dal vecchio potere che ne aveva grossi guai. La felicità contro la potenza, il segno del comando in frantumi, più nessun coprifuoco a sera.
Scaduto il tempo della verifica sullo stato delle cose, il lottatore si lavò le mani e rientrò nella nuova stanza.
Il primo Mandala
Una farfallina piccina piccina si posa in un fiorellino piccino piccino, ma non è il suo fiore. E' per la venditrice di doni, che fantastica fra poeti romantici e bizzarri.
Era la mia filastrocca qualche anno fa, ipnotico gioco verbale, tenero come le amicizie amorose che non hanno il coraggio di chiedere di più e forse nel ricordo restano le più adorabili.
Avevo anche il mio mandala disegnato anticamente a penna, perso o buttato via, chissà, incastro floreale di un cerchio e di un quadrato, entrambi minuscoli come me.
Se lo fissavo a lungo, io vedevo il rosone di una cattedrale illuminato dal sole. La mia cattedrale era buia, un'enorme spazio rettangolare e in fondo poche panche per sedere, un altare piccino, muri altissimi, deserto.
Mi piaceva passeggiare in quello spazio lentamente, avanti e indietro, senza cercar niente, tantomeno una divinità. Desideravo un palcoscenico senza pubblico.
Il procedere verso l'altare era l'incedere dell'attore che non pensava a niente di speciale, era già pieno di sè e su di sè aveva l'occhio del grande rosone.
Il mio primo mandala era una processione lungo strade infiorate, era prendere il corpo di Cristo senza crederci e neanche pensarci, ma solo perché era una camminata verso il calice d'oro, rotondità rilucente che catturava i raggi solari dell'alto soffitto a travi.
Era incontrare persone d'ogni giorno e ignorarle completamente, era incontrare un umano per pochi minuti e averlo a mente per sempre, presenza determinante.
Se fisso attentamente ad occhi chiusi le figure che girano veloci, negli anni trascorsi incoscientemente e pienamente, io vedo solo geometrie di spazi e di luce, partenze in treno, mai un ritorno. E case, giardini, profumi, il mio stato d'animo in quel momento, l'esperimento corporeo in corso, le mie scoperte.
L'essere ingannato per il mio bene, il mio rifiuto d'essere amato, sono macchie laterali al mandala, tinte forti, decolorano il resto del bordo, con la scoperta che io so essere innocentemente crudele, d'una cattiveria estrema, totale.
Potrei uccidere con facilità e per cose trite, conosco questo mio istinto, che ha origine solo in me, senza avi, e non provocato da fatti significativi.
Proprio perché lo so, io non sono un assassino, aborrisco la violenza, ed ho come credo la legge al di sopra di tutto.
Non la legge alla cieca, la legge inevitabile come la vita e la morte, bensì la legge degli ebrei, un po' saggezza, un po' leggerezza, quella che aborrisce ogni fanatismo.
Convinzioni nate solide, osservando e ascoltando i miserabili umani che di rado riescono a stupire.
E' incredibile quanti fatti in apparenza importanti o lunghi nel tempo vengono cancellati, assorbiti nell'orbita del primo mandala, vortice, mostro che gira, seguendo solo le sue linee dipinte da un pittore realista.
Un campo appena sfiorato dalla neve, guardato con stupore dalla finestra, e non so perché sia così essenziale, è lì segnato sul mandala.
Il giullare spaziale, i cavalieri, le dame a passeggio in montagna, le ballerine sinuose, e il primo mandala apre i petali delle passioni eterne. Vedo crescere le piante, dispongo i fiori, adoro ancora oggi il mio primo mandala. Esso non contiene nè svenimenti, nè botte inevitabili prese strada facendo, ma solamente la chiara, essenziale purezza della fatina fluviale, capricciosetta, imprendibile.
Il mandala ora
Spostato fuori, proiettato intorno e sopra un intero pianeta, esso assorbe e accoglie chiunque, ovunque. Chiunque sappia collegarsi, comunicare, chiedere, pensare.
In qualche parte della terra esso è già il mondo, in altre il mondo novo, in altre ancora sanno vagamente cosa esso sia. Ma incombe dai cieli come richiamo necessario, inevitabile. Io vi figuro da poco tempo, in un minuscolo angolino del magico incastro di cerchio che quadra.
Faccio capolino da dietro il banco dei giocattoli in vendita, dei manichini nudi, io lento come lumaca, con penna e quaderno, antico, barocco, quasi vergognoso d'essere arrivato qui, senza aver scelta, per amore o per forza.
Nel frattempo vedevo crollare palazzi sicuri, fortezze inaccessibili, e i loro abitanti sempre più altezzosi, stizziti, inferociti vagavano col sangue alla bocca.
Prima essi erano i nemici, i potenti contro cui combattere senza armi, con spirito d'avventura e il sorriso imperturbabile di gloriosi antenati torturati ogni volta che osavano alzare gli occhi a guardare misfatti, ingiustizie.
Adesso dalle macerie arriva un fumo sottile di tristezza, una perdizione incolmabile, perché non ci sono più nemici, ostacoli, ma un vuoto di poteri, e qualcuno che finge di crederci ancora.
E' inutile, il mandala ignora e avanza, lasciando appesi ai tetti, alle persiane, ai finestrini delle auto blu, sulle seggiole dei ristoranti le macchiette che ciarlano tra di loro.
Mi domando di cosa parleranno oggi, gli instancabili ragionatori, attaccati ai lembi della loro follia, che fino a qualche giorno fa era contagiosa e riusciva a spacciarsi per il vero, agitando interi villaggi. Nessuno ci crede più, scappano in ogni direzione.
Anch'io a volte mi sento smarrito, privato di punti di riferimento, di figure protettive, di metà della mia vita passata, in cui ero continuamente respinto dentro di me, unico appiglio per mantenere vivo il sogno d'essere come sei venuto al mondo, stampo naturale indelebile, senza cui già arriva la morte. E io ero nato colmo di parole.
M'ero cullato sul rifiuto collettivo, orgoglioso di resistere, avevo l'identità del ribelle, dell'originale. Non era poi così male osservare da fuori ciò che stava succedendo.
Una voce segreta mi suggeriva che avrei fatto parte prima o poi d'un periodo impensabile, di un'altra comunità, ma io ho sempre creduto fino a ieri che si trattava semplicemente di una mia aspirazione destinata a rimanere chimera.
Invece eccomi qua. E ora qualcuno mi dice che posso fare ciò che voglio, con penna e quaderni a righe e a quadri, perché era giusto così, in culo alla balena.
Adesso diranno anche che nessuno me lo ha mai vietato prima, ma per fortuna a testimoniare il contrario c'è la mia esistenza quotidiana, vissuta fuori della mischia, non per mia scelta, ma per estremo adattamento ad una società imperdonabile e in putrefazione.
Prime scene
Quando entro nella rete non è come telefonare o guardare un bel film, è ammirare una colonna antica, scolpita con scene di pace e di guerra, una colonna che racconta la storia dei suoi tempi, ben scandita da abili scultori, dal basso verso l'alto, fino a che i rilievi diventano microscopici, e per osservarli occorre il binocolo o volarci appresso con l'elicottero che atterra nella punta dell'immensa colonna.
No, la rete non è la torre di Babele, è armonia, è il mandala, e il mandala è una colonna che racchiude le scene della vita in corso ora. La torre di Babele è quello che c'era prima, un mondo fittizio, mascherato, dove potevi prendere degli abbagli mortali, perché esso non si mostrava mai per ciò che era, ma impostava sotto ai tuoi occhi, delinquenti a comandare e molti a subire, ali tarpate.
Sistema ingessato su se stesso irrimediabilmente, senza più alcuna possibilità di respirare novità, ricambi per merito, per buon lavoro, per ottimo funzionamento al servizio e nell'interesse generale. No. Avevano bloccato ogni movimento.
Il mandala non è una vendetta, ma le rassomiglia.
Lì dentro c'è la scenetta dipinta dei galeotti, ma sono galeotti agli occhi di tutti. Così chi sceglie quel riquadro è subito annesso col clic della richiesta. Ecco, sei con i tuoi simili.
I mascheramenti, è inutile raccontar balle, sono subito scoperti. E se ti fai fregare, va bene così, perché le bugie virtuali sono anche debolezze della mente, e i giochi son rivelatori d'una tua parte profonda.
Mentre mi spaccio per ciò che non sono, io vado incontro a ciò che mi spetta. Che gli ingenui scoprano il mondo.
Perché, vi aspettavate che gli umani mutassero la loro natura? No di certo. E' il sistema che è cambiato, più veloce, malleabile, spietato.
Va avanti ciò che al virtuale aggiunge una solidissima realtà, non viceversa. Realtà personale non oscurata dai marchingegni levantini di quattro forsennati. Forse è per questo che il mandala ha qualcosa di estremamante antico, primordiale, rigenerativo, e uno spirito pionieristico, selvaggiamente libero nel bene e nel male. Tutto scorre in un viaggio senza ostacoli. Dopo i geroglifici, i papiri, le pergamene, la stampa, il suono della musica e della voce, l'immagine, ecco un insieme armonico di pensieri che volano ovunque in un secondo, con ogni espressività fin qui conosciuta e oltre.
Le mie prime scene scolpite sul mandala, felici di vagare per sempre, sono atti estremi e isolati, quasi disperati da un paese corrotto fino all'osso, caotico intreccio di palesi ingiustizie, sadismo e malaffare. Piccoli omaggi agli ultimi oppressi, quando non c'era più neanche uno sforzo di resistere, tanto esso era inutile. Non c'era altro da fare.
La mia infanzia ha avuto il sopravvento ed è volata nell'interspazio assieme all'adolescente ribelle e all'adulto che ridacchiava tra sè e sè. Sì, è un trionfo, ve l'ho messa in quel posto dove il sole batte solo in un campo di nudisti.
Da quel momento sono saltati tutti i parametri sbagliati, in corso nel posto sbagliato. E non m'è più importato di laudi e riconoscimenti, ma solo di poter fare ciò per cui sono al mondo.
Ho già raggiunto due milioni d'anime. Credo che questo sia il successo e questo possa donare la fama che dura, quella postuma.
Seconde e millesime scene
La televisione del mio paese è impazzita, s'è zeppata di confessionali in cui raccontarsi dalla mattina alla sera, svelando ogni aspetto della propria vita privata, gli amori sbagliati, quelli immaginari, le malattie mentali e corporali.
Negli intervalli trasmettono la vita delle persone, quasi fosse l'unico divertimento oramai consentito. Hanno persino chiuso a chiave per mesi dei giovani in una stanza, con milioni di persone a spiarli di continuo. C'era un unico premio per chi sarebbe stato più simpatico. Poveracci.
E pensare che dentro il mandala ognuno si dà il nome che crede e in genere ognuno segue il libero istinto, simpatie, tendenze. Ed è il fiorire d'una rosa di nomi stupendi o strambi, petali aperti sulla scena internazionale, aggressivi, dolci, fascinosi.
Si comunica con le anime perdute o ritrovate, ma vive.
In un attimo puoi annullare un collegamento sgradevole, insultare, passare oltre. Non c'è nulla di passivo, dipende tutto da noi. Vige il sacrosanto diritto di celarsi, ampiamente tutelato dal mezzo, non farsi mai trovare, raccontare bugie e non essere mai scoperti, non mostrare in pubblico cose nostre che preferiremmo non vedere nemmeno noi. E' meraviglioso.
La televisione del mio paese riprende i giovani anche 24 ore su 24, mentre piangono, si sfogano con gli amici, vanno alla toilette, fanno l'amore. E fa credere loro che troveranno un lavoro decente, soldi facili, che è bello se molte persone ti vedono e sanno chi sei, che è lì la chiave del successo, la realizzazione dei sogni. E' terribile.
Ogni civiltà al tramonto esibisce le sue peggiori perversioni, ed è questa la fase finale del lavaggio del cervello iniziale, attraverso la passività assoluta, con l'abbandono d'ogni pudore o sana reazione personale.
Nel mandala c'è un naturale tribunale per questi delitti, punizione lenta, ma inesorabile, fino alla riconquista d'ogni diritto, leggendo e osservando ciò che più aggrada, ascoltando la musica e le parole da ogni radio del mondo, i gruppi musicali preferiti come fossero a registrarsi nella tua stanza.
In pubblico io ho lasciato l'andare al cinema, perché mi piace. Ognuno può mantenere sane abitudini del passato, poiché della nuova civiltà sceglie i vantaggi che più si confanno ai suoi gusti personali.
La televisione del mio paese ha sostituito gli ospedali e i servizi d'igiene mentale, i tribunali e le galere. Li ha fatti pressoché andare in tilt o chiudere, poiché il mezzo è divenuto corsia di nosocomio e manicomio in cui con le chiacchiere e i piagnistei si cura alla spicciolata. Il mezzo è divenuto aula di sentenze immediate, luogo di punizione collettivo. C'è un presentatore che ordina gli stacchi pubblicitari e, per il resto ogni cosa ripresa si risolve in giornata.
La televisione del mio paese non dà più notizie, annuncia solo catastrofi persistenti, epidemie fasulle, malattie immaginarie, poiché ha ormai necessità di un pubblico spasmodico, in preda al panico, sempre più irretito in torve conversazioni. Così è finita la televisione, un tempo simbolo di progresso.
Forse aveva un po' ragione chi un giorno preferì le lucciole del campo e le lanterne ad olio alla civiltà audiovisiva. Gli umani deturpati dalla tivù saltano agli occhi.
Cogito
Si ritorna al pensiero prima di dire o scrivere qualcosa ad un'altra persona. Si comunica sinteticamente, ma è un vero contatto, la curiosità di conoscere estranei, stranieri, di raggiungerli in un istante nelle loro città. E da lì ritornano indietro informazioni dirette sulla vita che scorre. Insieme si può sapere ciò che vogliamo.
Intanto quelli che vivono sotto le tue finestre litigano, urlano, restano per ore in tale stato senza far niente, a scannarsi per fatterelli.
E' emozionante isolare parti di un mondo morto e godersi nuovamente il grande fiume che scorre.
Credete che sia disumano? No, è giusto così, tutti dovrebbero farlo, finché il buco nero che ha inghiottito la mente sparirà per sempre. Se si porta con sè pezzi di lobotomia, ci vorrebbe un tritacarne che li faccia in parti talmente minuscole da essere cibo per i topi dei laboratori.
E' una delle tante storie incredibili che hanno preceduto il regno del mandala.
Il tempo è danaro?
Lavorava in una stanza rumorosa che gli altri chiamavano ufficio, e correva in su e in giù per tre piani senza ascensore, perché era sempre rotto. Borsista di grido per una grande banca egli stava a rincorrere numeri che rimbalzavano dallo schermo, che ululavano dal cellulare, andando in su e in giù, e non si fermavano che per poche ore di notte.
Lui non si fermava ormai più e al buio continuava a vedere le cifre ferme o in movimento, immaginandole enormi o piccolissime, come ad una visita oculistica, fino al fatidico momento in cui si fissò nella sua mente una frase importante che doveva aver catturato dalla radio o per strada in una conversazione tra amici.
Più che altro era un interrogativo perentorio. Il tempo è danaro? S'accorse di non sapere minimamente rispondere, perché se il tempo erano le sue giornate con le cifre, sì, sì, sì, erano fumo, valanghe di soldi, come la stanza adibita a deposito del papero più ricco del mondo.
Ma se il tempo era il poco intervallo tra una chiusura e una riapertura della borsa, allora no, no, no, era qualcosa che lui ignorava, forse era un sogno o semplicemente il gusto di dormire con lenzuola profumose, calde, mentre fuori piovigginava. Cosa mancava di più, il tempo o il danaro? A lui entrambi. Era un corridore nato, alla rincorsa tentava la loro conquista, gareggiando con chi gli stava appresso.
Quando il cellulare non squillava, egli giocava a testa o croce con vecchie monete fuoricorso, ed era un modo divertente di passare il tempo che comunque era talmente lento da paralizzare il dolce oscillamento dei cari numeri.
I colleghi arrivavano la mattina profumati e in ordine, uscivano dall'urlatoio nel tardo pomeriggio, sottosopra e puzzolenti, ancora più rumorosi, disquisendo di numeri finiti e infiniti. Il tempo era finito fino al giorno appresso.
Per fortuna c'erano previsioni da fare, numeri che non tornavano da aggiustare, conti da aprire o da chiudere all'improvviso. E allora il tempo rientrava sui soliti binari, senza respiro.
Di notte la tombola o il lotto non erano poi così male, sempre di rumori si trattava, mentre l'insonnia curava l'illusione di non perdere una briciola di tempo, come stavano facendo i molti addormentati della giungla metropolitana.
Quando egli andava a lavorare tra i suoi adorati numeri, se la rideva dei ragazzi mascherati di gesso bianco, col cestino delle offerte. O della cinese che dipingeva per terra coi gessetti colorati quegli strambi numeri bislunghi, perdendo un sacco di tempo prezioso.
Ecco, era in quel punto della piazza che aveva letto la sua frase assillante. Ora ricordava lucidamente.
Giornata nerissima in borsa. Sin dalle prime luci dell'alba ogni indice precipitava come una valanga di neve, giù, giù, sempre più giù e non si fermava mai.
A mezzogiorno avevano tutti paura e battevano i denti tra una risata e l'altra dovuta ad eccessiva miscela di alcool e caffè.
Lui andò a mangiare qualche cosa, ma prima notò un curioso luccichìo proprio davanti all'entrata secondaria della banca che dava in un vicoletto zeppo di gatti neri.
Notò anche una rosa fresca, gettata sul selciato.
Il luccichìo non erano altro che bolle di sapone controsole, lanciate da una finestra aperta da un bimbo annoiato, ma egli vi decifrava alcuni messaggi nella sua lingua e in lingue assolutamente fuoricorso, antiche come le monete da collezione.
Sull'unica frase si fissò il pensiero, la solita, l'unica comprensibile per intero.
Il dubbio che lo assillava era se l'ultimo segno fosse o meno un punto interrogativo che lo sollecitava ad una risposta, come se veramente esistesse nel mondo dell'invisibile qualcuno interessato ad avere un contatto diretto con la sua mente.
Fin lì aveva pensato che la follia riguardasse solo chi gli stava di fronte, ma ora ebbe timore d'impazzire se non si sbrigava a chiudere quella faccenda.
Ripercorse velocemente il repertorio delle letture fantastiche, cercando sollievo in personaggi che avevano avuto a che fare con l'ignoto, cavandosela egregiamente. Cercò tra i fumetti un modo per affrontare l'increscioso assillo. Niente di niente.
Le scritte e i messaggi si moltiplicavano ormai come i soldi con i titoli giusti in ascesa che non li ferma più nessuno, in balìa di abili speculatori.
Nel frattempo la borsa aveva un po' ripreso, il peggio era superato, il tempo scorreva più piano.
Egli cercò di riordinare le cose. A poco a poco le scritture scomparvero e restò solo il pensiero del tempo e del denaro. Cercò di risolvere l'enigma con una catena di supposizioni utilitaristiche.
Si sentì sollevato all'istante, riprese a sorridere e ad avere fiducia nel futuro che solo un'ora prima sembrava non esserci più.
Come se niente fosse accaduto egli fece a ritroso la strada, posò una moneta nel cesto del cane mendicante, incoraggiò la cinese, simpatizzò coi ragazzi ingessati.
Lui era un uomo di numeri e denari, lui urlava e correva e così era anche il suo tempo. Ma nel diario serale scrisse: "Lo sforzo dietro alle ore è paragonabile ad una lotta libera in cui vince chi sta più fermo ad aspettare gioie e dolori. Si può oziare o essere occupati. Il tempo passa veloce se uno sta bene, viceversa non passa mai.
Il tempo degli amanti è imprendibile, non classificabile, ed è questa la preziosità temporale.
Non c'era altro da aggiungere.
L'artista evanescente
A volte mi viene spontaneo di pensare ai miei cari avi artisti e fra loro a quelli a me più affini o per temperamento o per mestiere.
La musica accompagna la mia vita, ne è la colonna sonora, è una specie di necessità fisica il fare le cose avvolto dalle note. A volte mi disturba la voce umana. Ecco perché non amo particolarmente l'opera, tranne le ariette più tenui o gli antichi madrigali.
I musicisti più che i pittori mi si addicono fuori dal mio genere, entro cui amo solo i grandissimi, ignorando paciosamente il resto. Ma anche qualche pittore riesce a parlare alla mia anima, ad estraniarmi per un po' di tempo.
D'ogni genere io vedo il mediocre, il ridicolo, con ironia e tanto divertimento, perché non c'è nulla di più comico di un tentativo di volo malriuscito.
Amo il lirico più del narratore, ma ci son stati suonatori così sublimi da riunire in sè ogni canto, e questi io amo fuor di misura.
Nel mio paese, dove ogni genere è tramontato, gli ultimi cantori si chiusero, aspettando la morte entro case che sono mausolei, o sognarono di sfuggire al declino, scappando nottetempo in bicicletta per mondi nuovi. Ma era oramai troppo tardi.
A volte io mi chiedo per gioco cosa essi farebbero adesso al posto mio. E la risposta è sempre la stessa, veloce, ovvia. Farebbero ciò che faccio io ogni giorno, forse lamentandosi di meno e scrivendo di più.
Per fortuna i tempi sono mutati, io vivo nel mondo intero, non ha più importanza dove son nato o la lingua che parlo, e dove mi trovo ad abitare. In questa fase della storia umana io parlo al pianeta.
E la mia opera resterà a zonzo senza confini quando non ci sarò più fisicamente. Non ho proprio di che lamentarmi.
Ecco perché ora io voglio fare il mea culpa per le mie debolezze, le mie mancanze, il poco coraggio, atteggiamenti vittimistici, svenevoli, caricati dalla mia parte femminile. Gli abbagli che ogni tanto prendo per troppa ingenuità, le infantili superstizioni con cui m'hanno contagiato gli avi di sangue.
Devo farci i conti come con l'alcol o il tabacco che tengo sotto controllo, perché restino sani piaceri e non insane necessità. La cosa di cui più mi vergogno come artista evanescente è tremenda, ho pudore a confessarla, perché riguarda proprio ciò che ho più caro, il mio stato creativo e i miei veri antenati. Io temo la crudeltà degli umani nei nostri riguardi, l'invidia e l'incomprensione verso la nostra condizione privilegiata dalla quale comunque noi abbiamo anche atroci sofferenze, non solo gloria e gioia compiaciuta.
Vale a dire che noi artisti paghiamo ampiamente per il blasone e non ci sarebbe bisogno in aggiunta a ciò di cadere vittime di chi non è come noi.
C'è un musicista che io considero il simbolo della nostra razza. Ebbene, la mia parte mediocre ha considerato una minaccia sempre incombente quella di finire i miei giorni in balìa di debiti e pessima salute, fino alla sepoltura impietosa in una fossa comune.
Ho terrore che mi tocchi la stessa sorte e me ne vergogno profondamente, perché la mia parte nobile m'augura con tutto il cuore d'avvicinarmi almeno per un millesimo alla grandezza della sua arte e d'ignorare ogni altro aspetto.
C'è un conflitto dentro di me che mi porta a pensare alla mia purezza come ad un grosso peso da cui a volte prendere le distanze, mascherarmi ad occhi estranei per non essere individuato e sterminato. Sono un vero codardo.
Il bello è che a volte estendo la finzione anche a me stesso e mi tranquillizzo, pensando che in fondo sono solo un artista evanescente. Che vuoi che mi possa succedere? Nulla. Sono riuscito a parlare di questa cosa spiacevole, ma ho altro ancora da confessare.
Ascoltate cosa mi è successo una notte a Lille, Francia, dove mi son fermato a dormire dopo un increscioso viaggio sotto una pioggia torrenziale per tutta l'Olanda.
Arrivai ch'era già buio in un grazioso hotel del centro, che sembrava un centrino ricamato a mano, di quelli che stanno bene ovunque, ma in particolare sotto un ritratto, nel tavolinetto del boudoir o sotto il posacenere in un piccolo fumoir.
Dopo una cena fin troppo leggera, in cui più che altro s'assaggia un po' di tutto ciò che offre il buffet, ma in porzioni talmente ridotte che ci si alza da tavola con un filo d'appetito e un tantino sbronzi per le diverse qualità di vino servite dai francesi generosamente, io mi recai subito nella mia stanza.
Essa era molto ampia, con un bagno e una veranda che dava sul giardino interno dell'hotel. Un lungo corridoio con poltroncine verde salvia e ritratti dorati, statuine, specchi solenni, univa la mia camera al resto del piano, silenzioso come in raccoglimento religioso.
Mi pareva non ci fossero altri ospiti oltre me e questo mi riempiva d'una strana eccitazione. Faticavo a prender sonno nel lettone bianco, gelido come l'inverno. Il cielo che intravedevo dai vetri era bianco di nevischio.
Non ricordo bene se ad un certo punto m'addormentai per davvero, o se era solo il torpore del vino. Mi svegliò comunque una dolce cantilena, di quelle che fanno i bambini, simile al trillo di un carillon.
Non so ancora adesso perché, invece d'andare alla toilette, uscii sul corridoio a curiosare, seguendo la musica.
Forse volevo accertarmi che non si trattasse d'un mio suono interiore, volevo capire da dove giungessero le note delicate.
E vidi un fanciullo d'argento in un vapore di neve, gelidamente incipriato e seduto accanto ad uno specchio.
Provai un improvviso pudore, come non dovessi disturbarlo, e tornai sotto le coperte, chiusi a forza gli occhi, lo dimenticai.
Nel tempo ho ripensato a quella notte a Lille, io che non vado a caccia di spettri, io che non credo ai fantasmi.
Sì, io ho visto Mozart bambino, e da quella notte ho paura di perdere il mio bambino che custodisco come oro colato, perché non si può sapere cosa succede ad un artista, se la vita o altre circostanze lo fanno crescere all'improvviso.
E' un rischio che non voglio correre. Meglio fingere d'essere adulti, tenersi dentro ogni paura, essere un artista evanescente.
Oro colato
La sua giornata iniziò pigramente, dopo un sogno che era quasi un incubo. Lui chiedeva lavoro e chiedeva scusa di chiederlo per campare. C'era il sole finalmente, dopo due giorni di diluvio universale, in cui era rimasto tappato in casa e al buio, come un topo nella tana, senza vedere niente e nessuno.
In compagnia d'un libro scritto pochi mesi prima ch'egli nascesse. Città, luoghi, femmine, ed un popolo che lo scrittore definiva ostile, nemico della bellezza, invidioso, colmo di bile nera.
Immaginò che si trattasse d'un vecchietto perbene, fin du siécle. Aveva scritto un libro di memorie su cose in via d'estinzione, meno le erbe, le acque ed altri aspetti della natura.
Egli sentì il bisogno d'abbandonare libro e scritture, e di uscire a passeggiare per il grande giardino, percorrere nuove piste, sperimentare. Si trovò alla fontana dei cavalli marini a respirare con gioia quella solitudine tante volte ripudiata, perdendo tempo in balorde compagnie.
Passava gente importante, attaccata ai propri telefonini, zeppa di appuntamenti, di cose da fare. Egli aveva solo pochi soldi da spendere per la spesa, e pensare a come erano belli i giochi di luce nel parco, e giù, sopra i palazzi, il rosso pomeriggio dentro alla sua stanza delle congetture.
Si chiedeva quanto potesse durare la sua condizione di nullafacente, in quel mondo di rincorse ed affanni, quella solitudine divenuta nel tempo oro colato.
Essa era una speciale sospensione dagli altri, che lo faceva vagare, galleggiare come fanno gli adolescenti quando escono da scuola e non tornano subito a casa.
In tale dimensione egli sceglieva le persone con cui avere a che fare. Quel giorno ad esempio aveva salutato un gatto e incontrato una bella signora, nella magica scia del libro appena letto. Il giorno successivo si trovò a gironzolare attorno ad una villa papalina, dove stavano girando un film americano. Salutò un altro gatto e notò il corpo mostruoso dei cavalli marini che avevano metà corpo di pesce, coda di pesce, e solamente le due zampe anteriori da equino. Meno male quelle ali, ma a cosa servivano, a renderli pesci volanti, o cavalli volanti come l'ippogrifo?
Non avrebbe mai lasciato la sua condizione dorata.
Per avere soldi sufficienti negli anni a venire, egli si sarebbe inventato qualcosa, mai e poi mai avrebbe abbandonato ciò di cui godeva in quel momento. Tornò a casa, e in televisione c'erano i funerali d'una regina.
Lavoro
Vi presento il mio curriculum aggiornato ad oggi delle cose che so fare, perché troviate un lavoro adeguato alle mie qualità. Ma fate attenzione, perché mi farò mendicante e patirò la fame, piuttosto che accettare da voi un mestiere non adeguato.
Da quando so leggere io scrivo di tutto, poesie, novelle, balle e altro a iosa. So rendere piacevole ogni stanza dove metto l'occhio, creando spazio, luce e cose amene. Abbellisco i luoghi come un piccolo architetto con pochi accorgimenti. Son nato folletto estetico, con un'armonia naturale di cui mi vanto sommamente.
Ballo come avessi fatto la scuola di danza, vispo ed energico come un grillo nelle sere d'agosto in mezzo al campo fresco di rugiada. E recito, declamo i miei poemi e quelli di altri cantori che m'aggradano con veemenza e bravura.
So ascoltare i guai degli umani e risolverli là per là in burla. Satireggio, come si conviene, i potenti d'ogni ambiente e grado, intravedendo in poco tempo la loro debolezza, le più vistose manie, non per spirito di rivalsa o giochi di potere, ma per divertimento mio e di chi mi sta a sentire.
So scegliere vesti e abbinare colori, indovino le condizioni metereologiche, fiori e piante non hanno segreti per me.
So tenere in grande ordine casa e preparare caffè, thè, aperitivi; cucino solo verdura cruda, o al forno, e poc'altro, pasta, patate, uova, ma questo lo so fare in maniera sana. So risparmiare nel fare la spesa, pulisco bene le scarpe, taglio discretamente i capelli, come se avessi preso una nave dalla Sicilia verso le Americhe nel secolo scorso.
Il resto lo faccio a strafalcioni e son lento, ossessivo. Non vi consiglio di mettermi alla prova, perché ci rimettereste la reputazione.
So oziare e starmene da solo come gli antichi dei, provando raramente uggia e tristezza più per ragioni estetiche, offese, che per ripensamento su ciò che sono. Mi passa in un istante. Ho un caratterino. Fino ad oggi, alle mie chiare qualità, s'è astenuto a dare risposta un intero paese perditempo.
Pertanto voglio generosamente dare ad esso un'ultima possibilità di rimediare e di avere a che fare in vari modi con un suo valido figlio.
La vera storia del fantasma di Lille
Io ho visto Mozart, non scherzo, o mi vanto con voi d'un fatto immaginario. Egli era là, gelidamente candido, un ragazzetto vestito di velluto e trine con le calze bianche e quelle scarpette dalla punta quadrata e con fibbia argentata che io calzai tanti anni fa da adolescente. Ne ero talmente innamorato da continuare a calzarle con la suola bucata, rischiando di calpestare i chiodi. Scarpette del secolo dei lumi che mi facevano sentir bene come le scarpette rosse maledette per le quali s'impazzisce d'amore, danzando.
E' una forma di scarpe universale. In ogni stagione della mia vita ne ho uno simile in guardaroba, o lucide o di velluto, e mentre ci cammino dentro avanza assieme a me lo spettro di qualche illustrissimo, con fare misurato, signorile, verso una festa popolare in maschera.
Voglio svelare ciò che seppi sul fantasma dell'hotel di Lille il mattino dopo dai camerieri e dal portiere.
Non accennai a nessuno del mio avvistamento notturno per non esser giudicato bizzarro. Chiesi da turista di chi fosse la statuina leggiadra che faceva bella mostra di sè nella sala profumosa di bonbons al cioccolato.
Mi risposero di gusto saporitamente come se si trattasse della loro maggiore attrattiva, e le curiosità abbondavano nel loro raccontare.
"Si dice che qui da noi non ci sia solamente la statua, ma un vero e proprio fantasma, sì, se non ha paura, perché sa, il padrone non vuole che si dica per paura di perdere clienti. Lei farà la valigia, vero?
"Ma noi lo diciamo lo stesso, perché, insomma, chi può avere paura di vedere il grande Mozart?
"Egli si mostra in modi differenti, almeno stando alle varie confessioni.
"C'è chi crede d'aver sentito una spinetta lamentosa, un bimbo che ha fame e chiama sua madre con grazia, senza insistere troppo. "Il fatto più singolare accadde ad un ospite musicista che per ripiego faceva anche il poeta, peraltro in maniera pedestre. Egli arrivò e ripartì al volo, pallido come se gli avessero cavato il sangue dalle vene, agitato come fosse inseguito da uno spietato assassino venuto lì apposta per accopparlo.
"Il poveraccio non riferì mai ciò che gli accadde in quelle poche ore tra la notte e l'alba, in cui s'era messo a importunare l'intero hotel con composizioni vocali di sua creazione. Resta un mistero il modo in cui apparve a costui il nostro caro fantasmino, provocandone velocissima dipartita.
"Noi trovammo le sue brache appese al lucernaio, diavolo d'un Mozart."
Questo e altro raccontarono i servi, e io mi accorgevo della loro devozione per quel bambino misterioso che molti anni orsono abitò in una delle stanze più lussuose dell'hotel. Era la celebrità più grande che passò di lì.
Queste cose seppi dopo la mia notte magica, altrimenti potrei ben dire che stupida infatuazione e suggestione guidarono i miei sensi verso l'irreale.
Ma non fu così, io ho visto e sentito ed ho un pudore religioso nel riferire l'accaduto.
"Mi pulisci le scarpe?" mi disse la bianca ombra forse discesa insieme a me dai boschi sopra Helsinki.
"Bravo, è proprio lì che t'ho incontrato. Nessuno arriva a me se non per profonda solitudine. I giochi, le feste non contano. Ciò che rivela la nostra fattura è lo starsene a zonzo da soli, nessun obbligo, nessuna costrizione.
Questa è la nostra vaga consistenza da vivi e da morti. E' lo stesso.
A quel tempo le mie qualità erano girate all'incontrario nel mandala e ancora oggi sto lottando per raddrizzarle. Allora ero in fuga e in delirio, e vedere lui è stato un regalo della sorte.
Io so d'esser capace di atti estremi, persino di uccidere o di uccidermi, non trovo mai una direzione fissa, mi gingillo a vuoto, ma ciò che in origine sono l'ho sempre saputo e pecco solo di vanità nel dirlo.
Sarò il cerchio più basso del mandala, quello che non s'incastona mai perfettamente in un quadrato.
La prima rosa sono io. La seconda è ciò che ho sacro, l'arte. Il resto non ha molta importanza, è provvisorio, a volte assai vanesio.
"Mi pulisci le scarpe?", e pizzi e candide trine avvolte dal maestrale sfioravano, ondeggiando gli stucchi dorati.
C'è una terza rosa, forse la prima nel mio mandala. E' il mio essere fanciullo che non perdo mai.
La mia ombra errante non è bianca, argentata, ma rossolina, al sapore di mirtillo e lampone. Sarà lei fanciulla a rivedere Mozart, alfine stupefacente e chiaro.
La mia ombra
L'ombra che sarà dopo di me non è differente da questo schivo vivente che mi porto addosso. Avrà gli stessi colori mescolati, impuri, vivacissimi in natura.
Conosco bene ogni sua sfumatura gustata nei sapori, reale, lunghe giornate d'ozio dorato in cui si visita ogni padiglione, ogni tabernacolo della nostra villa di campagna con laghetto ed amici animali, e s'improvvisa le scene della vita prima di portarle in palcoscenico.
Il corpo e l'ombra stanno insieme da sempre, non s'impicciano, nè si fanno paura. E quasi senza confini io prevedo la mia morte, dolcissimo passaggio incruento dalla vecchia carcassa a ciò che sono stata sempre, un'ombra, termine d'ogni desiderio già appagato, unica certezza mai avuta.
Io quasi stanco, ancora non del tutto, nel melanconico addio alle meraviglie del mondo.
Riesco a vederla l'ombra che sarò, allegra su per i colli, a curiosare tra i turisti orientali e del nord-Europa, o i ragazzi americani dal colorito sano. I cigni del lago alzeranno il collo, scrutando qualcosa, ma i gatti la vedranno in bianco e nero, faranno le fusa amorevoli nei pressi dell'acqua felice.
M'incanteranno ancora i giardini, quel profumo dolciastro delle siepi bianche che è un misto d'amore e di morte.
L'ombra mia cara sarà completamente smemorata, vale a dire ch'essa non si ricorderà di me, di ciò che sono stato in vita e tantomeno di cosa ero e quello che facevo. Per lei io potrei essere stato un santo o peggio ancora un malandrino. Avere combinato cose imperdonabili. Solamente a tratti essa indugerà compiaciuta sulle mie antiche passioni, senza sapere che m'infiammarono nel procedere a tentoni per finire i giorni.
Lei non si chiederà il perché, planerà stufa d'ogni senso umano, cercando i suoi trastulli al cinema quando ci saranno i films di vampiri. E se di notte navigherà nel grande mandala per caso, s'imbatterà anche nel mio sito senza turbarsi.
Non sarà il più assiduo tra i miei nuovi lettori anzi, essa preferirà altri siti di piante e d'animali, le fotografie d'un pianeta in festa, gli scontri in cielo tra meteoriti, le previsioni del tempo sopra i continenti.
Invece di mangiare, bere, fumare, l'ombra annuserà negli altri i dolci vizi, godrà delle loro facce soddisfatte. Insomma, sarà una bella ombra quella che si staccherà da me.
Questo è un gioco mandalico che non oscura del tutto il coraggio di chiedere per aria delicatamente chi sarò quando non ci sarò più. E' una fantasia senza cartomanti, tarocchi, chicchi di riso propiziatori, visceri fumanti, fondi di caffè.
Io lo faccio quando son vicino ad un mutamento, dei due o tre che m'hanno trasformato, specie di morte e rinascita come l'ombra. Non finisce nulla e tutto cambia, è vero.
Uno spettro simpatico
Ogni invenzione nasce addosso ad un corpo vero che si muove verso i suoi desideri e se ne allontana se va verso la morte. Ogni storia è una vita intera, epica, una scultura che gira attorno ad una colonna altissima come quella che andiamo a descrivere.
S'interrompeva di continuo la musica alla radio che trasmetteva una cantata tedesca d'una tenerezza struggente, voce maschile impastata di miele e sidro.
Era il giovedì grasso. Fuori sfilavano carri e coriandoli e l'aria dolciastra era da mangiare a bocca aperta, tanto sapeva di castagnole e fiocchi.
Un povero spettro disoccupato cercava qualche umano da spaventare, ma c'erano oramai poche richieste su mercato, crollato pietosamente dopo una sfilza di stupidi films dell'orrore che avevano divertito le popolazioni del pianeta.
Il fantasma tapino scese in strada e si mescolò alle maschere, iniziando la sua giornata di peregrinazione sotto ai portoni dei più antichi palazzi di Roma, con la speranza mai sopita di scovar prima o poi un bambino o un adulto un po' rincoglionito che avrebbe apprezzato le sue doti.
Esso sapeva solo comparire all'improvviso, un chiarore in mezzo al buio, e restarsene immobile con una cert'aria sussiegosa, come s'addice al più nobile spiritello rimasto in circolazione.
Non aveva fatti cruenti da vantare, la sua genealogia era pulita, mai legge umana o naturale fu infranta dai suoi avi che si limitavano ad illuminare qualche soffitta della dépendance o un angolino angusto della camera da letto d'un maniero.
Più che fantasmi gli avi erano come sostituti delle più funzionali lampade rossastre. Da essi il nostro piccolo spettro aveva appreso a mutare espressioni del viso, come un valido attore muto. Era diventato bravo nell'eseguire la faccia truce e arcigna, quella dell'impiccato che soffocava e anche la faccia dello spirito beatamente allegro con gli occhioni sgranati e beffardi.
Quando erano i giorni del carnevale esso poteva allenarsi indisturbato a comparire appena iniziava a far buio, e a saggiare in mezzo alla folla la presenza di qualche umano più portato a curiosare attorno alle apparizioni.
In genere nessuno faceva caso alle differenze tra le pallide esecuzioni perfette e le semplici mascherine attonite che passeggiavano per gioco, recitando la parte d'animale, eroe, re morto con faccia di plastica e pelo.
Ecco l'atrio d'un palazzo illuminato da mille fiaccole per orientare gli invitati alla festa, solcato da vampiri maldestri, false cenerentole e cardinali senza crocefissi.
Lo spettro volò oltre senza toccare terra e si trovò in mezzo ad un pandemonio di mascheroni che mangiavano, bevevano, ballavano, scappavano in giardino, dove continuava il banchetto per chi aveva caldo.
Un'orchestra vestita da grilli in livrea eseguiva musichette d'epoca come al compleanno della regina.
Due maschere si rincorrevano tra le magnolie chiamandosi, e una grassa dama scollacciata avanzava alticcia, reggendo in mano un pappagallo muto.
Spaventato da tutto quel fracasso, lo spettro si rifugiò nella stanza più buia e silenziosa del palazzo, dove c'era un enorme camino spento.
S'accucciò lì dentro in attesa che qualcuno, magari sbagliando direzione, perdendosi o curiosando giungesse là. Poteva provare a spaventarlo gentilmente, almeno sorprendere un po'. Nessuno giungeva.
Alle note ovattate del valzer delle candele il fantasma s'assopì e quando dormiva esso emanava una fioca luce rosa.
Sognò come un vivo, facendo un viaggio dentro alla tonda matrioska che ne conteneva un'altra e un'altra ancora fino alla più piccola bambolina russa mai esistita, una capocchia di spillo. Il fantasma era lì dentro al calduccio.
Non sarebbe mai voluto uscire da lì, e per la nostalgia di quell'angolo buio e caldissimo aveva scolato barili di vodka e mangiato tonnellate di dolci, senza riuscire più ad entrarvi dentro.
Ce l'avevano nascosto i suoi avi durante una lunga guerra sanguinosa che gli umani non cessavano mai di combattere, sospinti dal crudele vento ubriacone della steppa.
Era il primo, meraviglioso ricordo di sè che aveva nitido. Quella notte, forse vedendo i costumi d'una storia del passato con re ammazzati e popolo affamato, lo spettro ricordò più facilmente.
Molto tempo addietro egli era apparso ad una bambina spaventata per salvarla da morte sicura, e l'aveva talmente traumatizzata che quella non solo riuscì a scappare, ma diventò un po' tocca, dimenticando persino il suo nome.
Più avanti negli anni, a Parigi sul lungosenna, i fantasmi degli assassinati dalla rivoluzione francese, la chiamavano principessa Anastasia, ridendo a crepapelle di lei e della sua corte d'ubriaconi russi.
Gli spettri a volte sanno essere crudeli con i vivi, ma il nostro sapeva essere addirittura fedele ad un ricordo antico. Quella rosea bimbetta vellutata restò per sempre la loro protetta preferita nelle innumerevoli reincarnazioni con cambio di nome e di corpo.
L'ultima Anastasia era una ragazzotta un po' scema sempre in mezzo ai guai, e se non li aveva li andava a cercare. Guai amorosi o di danaro. A nulla serviva che lo spettro soffiasse tra i suoi capelli ricci, poiché quella non si calmava nemmeno con la camomilla.
Lo spettro viveva appresso all'ombra attuale nel ricordo della prima Anastasia, suggerendole come abbigliarsi, come comportarsi. Le faceva da angelo custode.
C'era un'altra storia nella memoria del caro fantasmino, una fola che lui ben ricordava, la prima ch'ebbe nel suo nuovo, miserabile paese.
Si trovava per caso e per dispetto a vagare nei boschetti spelacchiati e sassosi sopra un fiumiciattolo che rotolava giù arzillo dalle cime dell'Appennino centrale, quando vide un uomo che camminava con la testa tra le nuvole, parlando ad un tronco mozzo. C'era una nebbiolina viola che ghiacciava le ossa persino a chi come il simpatico spettro non sentiva mai freddo. Giù da basso i contadini accendevano il fuoco, preparando il desco serale col buon vino toscano e con un'allegria che veniva da posti misteriosi, abitati dalle streghe.
L'uomo distinto e fiero che parlava al suo pezzo di legno rientrò su in alto al castello di famiglia.
Immaginate la gioia del fantasmino, quando si rese conto d'aver seguito la persona giusta, un castellano in grado d'apprezzare i suoi servigi.
Il nobiluomo mise il suo legno ad ardere e mentre quello prendeva ben bene fuoco, illuminando a giorno la sala, egli cominciò a scrivere di lena, ridacchiando tra sè e sè.
Lo spettro decise di coraggiosamente manifestarsi, apparendo di lato alla parete cogli animali impagliati.
"Sei tu, mio burattino?" disse lo scrittore, visibilmente su di giri per il vino e la magra cena.
A causa di un gioco di riflessi l'ombra sembrava veramente nascere dai carboni ardenti e aveva mani, piedi e soprattutto il naso molto lunghi, sproporzionati rispetto al corpicino squadrato e secco.
Il fantasma si divertiva in vena di presentazioni. Invece quell'ispirato, catturato dalle sue fantasticherie, dette per certo che quel coso avesse preso vita dal ceppo di legno, come stava inventando lentamente, compiacendosi assai della sua creazione.
"Vediamo, mostricciattolo boschivo che sai di mirtilli e marzapane come vuoi che ti chiami, o devo fare tutto io?
"A che ti serviranno quei piedoni che non sai stare in posizione eretta. Smetti carino di vender frottole che tra un pochino non reggerai più il nasone".
Lo spettro birbone si prestò al gioco e passando al legno del pino rispose timidamente. "Se proprio mi vuoi dar nome, che io sia chiamato Pinocchio da tutto il mondo ne sarò contento". E sparì alla vista appannata dell'artista.
Ma lo seguiva ovunque per le stanze del maniero, nel giardino fino a che cantò il gallo rosso.
A quel segnale il fantasma trasformò il pennuto in un oggetto di porcellana con la coda bucata che suonava al soffio, facendone dono al suo signore assopito.
Fece prodigi per farsi notare. Catturò un grillo, una volpina, un gatto selvatico, persino una lumaca con la sua casina. Scolpì tre burattini a scala di grandezza come le matrioske li posò sopra il camino, perché facessero compagnia all'uomo troppo solo.
E quelli finirono elencati con pignoleria nelle carte dello scrittoio. Quando il divertimento finì il libro era pronto.
Lo spettro simpatico volò in un altro luogo, in un altro tempo, portando con sè il ricordo di quel signore dell'Appennino che ogni tanto scendeva all'osteria di paese a farsi dare del fannullone e del buon vino che non va mai in aceto.
I sogni del fantasma cessarono, poiché due ballerini entrarono a piroetta nella stanza buia dove quello se ne stava a mezz'aria, ciondolando in un'altalena immaginaria.
Al solito non fecero caso al nostro che rimase ancora una volta senza lavoro, senza un appiglio per spaventare sul serio.
Canto delle sirene
Inseguì sempre il canto delle sirene da qualsiasi direzione e distanza esso provenisse in periodi particolari della sua vita, in cui c'era bisogno di cose intangibili, enigmi da decifrare, spinte emotive forti che facessero varcare confini asfittici, muri insormontabili, fisse dimore divenute prigioni senza sbarre visibili.
Qualcuno potrebbe affermare ch'egli alternasse periodi normali in cui conduceva un'esistenza simile agli altri, a periodi di follia più o meno lucida nei quali era inghiottito nell'incantamento.
Allora inebetito sentiva e faceva cose bizzarre, scelte azzardate, materie di testa da esaurimento nervoso secondo la classificazione scientifica corrente.
Dal suo punto di vista era come dare spazio ai sogni, una specie di gioco della mente, di quelli che fanno i bambini per difendersi dalla realtà dei grandi, rifugiandosi nella bella favola dove loro decidono e sono i re, i comandanti. E tutto fila liscio come l'olio. Ogni desiderio, ogni richiesta, ogni capriccio vengono automaticamente esauditi.
Il varco della pazzia era sorpassato quando egli non distingueva più la fantasia dalla cosa reale e cominciava a crederci, a prenderci gusto in modo ossessivo.
L'ultima volta cominciò a pensare che qualcuno gli dedicasse canzoni alla radio, parole a cui lui attribuiva un senso concreto e alle quali doveva ubbidire.
Le sue giornate divennero una lunga sequela di pezzi musicali. Scadenti motivetti popolari che consentivano di chiudere la porta alle altre insulse percezioni che lo distraevano dal suo nuovo mondo dall'avvenire lì, a portata di mano.
Il piacere solitario, isolato s'organizzò pian piano, accuratamente, nel modo di cambiare identità, città, lavoro.
Nella preparazione del suo piano egli era un protagonista, figura di spicco della realtà, in grado di condizionare con le sue prese di posizione la vita di molte persone.
E quella volta rischiò veramente di diventare matto con quello strano modo di fare, senza possibilità di tornare indietro agli antichi pensieri, ad un equilibrio che bene o male, gli aveva consentito d'arrivare incolume fin lì.
Eppure ce la fece a salti mortali. Vi posso dire che egli divenne anche importante in certi ambienti ancora sconosciuti ai più, una specie di rarità vivente.
Ora è protagonista di un'esistenza più libera, concreta e ringrazia quella follia musicale che lo spinse a farsi coraggio, a tentare l'inedito, l'indefinito, armato di fantasticherie.
A volte guardandosi indietro egli pensa ancora che non sia stato il caso, ma una magica fattura oscura a spingerlo oltre cos'era. Però ci crede sempre meno, solo ogni tanto, quando osserva i minuscoli fenomeni della natura e si meraviglia della loro precisione, non sapendo come facciano ad essere così veri e così sorprendenti assieme.
Una statua e un ragno
E' accaduto in una di quelle giornate in cui va tutto bene, inquietarsi non conviene. Cade la penna a terra e cosa succede?
Estrai una carta dal mazzo e perdi la rima.
Un concerto fantastico tra le conifere nell'antica casa dei papi catturò il dialogo tra una statua misteriosa e un ragno che si trovava a passare di là, dopo essere scampato al lago inquinato e al becco d'un anatrone sozzo e incattivito che strepitava contro i gabbiani e una paciosa tartaruga d'acqua col capo proteso a prendere il sole.
La statua era assisa in gran pensamento, bella in volto, vestita da signore, e teneva in mano ben stretto un carteggio prezioso. Ultimi versi tracciati violentemente, tanta era la passione di un cuore non ancora pietrificato.
- La statua -
"Ecco la mia compagnia ideale, un piccolo ragno che non ha timore del teschio e del gufo, perché non sa chi fui io nel mondo che ho lasciato anzitempo.
"Dicono che io fossi un fattucchiere poeta che inseguiva i fantasmi delle dame vive o morte. Ero sempre appassionato per un collo altero, per riccioli al vento, profumosi di essenze rare, ma non sono stato che vago amante, perché le mie carte erano il vero amore.
"Notte e giorno le pagine bianche mi chiamavano ad esser riempite con le vane cose della mente, con i rapimenti dei sensi, con i pettegolezzi dell'urbe corrotta. Son trapassato ancora giovane ai prati Elisi su mia ferma volontà di riscatto dalla meschinità del fato e dell'umano.
"Ammiratori segreti fondarono un'associazione che porta il mio nome ed eressero questa statua a ricordo.
"Forse anche tu ragnetto vispo e curioso sei stato uno di loro in un'altra vita anteriore, nobile e piacente come me ed ora ti sei ridotto così impestato di influssi balzani, curvo, zoppicante e brutto a vedersi.
"Ma non fa niente. Se tu vuoi farmi compagnia, io sono disponibile, poiché ho molto tempo e sono sempre solo.
"Gli umani fanno fracasso per far sentire che sono vivi. Almeno tu sei molto silenzioso e m'agevoli il ricordo dei giorni estasianti, quando ogni cosa si rivelava per la prima volta e per l'ultima ed io correvo posseduto dal dio del vento":
- Il ragno -
"Ho perduto tanto tempo fa la mia ragnatela che avevo tessuto troppo sottile e quella non era capace di reggere nemmeno gli aghi di pino in autunno, figuriamoci le intemperie capricciose di marzo o il peso dei petali di margherita. Avevo fatto una casa talmente leggera che mi ritrovai ben presto senza, a vagabondare sull'erba, a saltare da un rametto all'altro privo d'orientamento. Intanto udivo i discorsi dei passanti.
"Io credo d'essere stato sempre un ragno per tua delusione, ma di ciò io vado fiero, perché mi nascondo bene anche in piccolissimi buchi. E sono nemico d'insetti noiosi e fastidiosi, di formiche ed altro.
"Non sono poi così brutto, c'è di peggio in natura. A chi mi sa apprezzare io porto persino fortuna. Così dicono antichi incartamenti ritrovati nelle catacombe.
"E' un mistero che tu parli la mia lingua, nobile architettura che segue le mie splendide tessiture al vento.
"Io me lo spiego con un incantesimo e forse sei davvero il mago che dici e sai cose d'animali e piante che solo lo scienziato avvicina senza peraltro comprendere del tutto.
"Mi vanto d'avere memoria d'elefante dei miei percorsi filiformi, d'esser un ottimo matematico, di far geometrie eccelse senza sforzo alcuno nel mondo di Lilliput che uno della mia razza inventò per vederselo poi copiato da uno di voi giganti.
"Tu sei per me un gigante di pietra, mentre percorro la tua giacca lunga, avanti, indietro, a scatti, a saltelli.
"Se tu vuoi spiegarmi cosa sei, sappi che io ho occhi per vedere e avverto il duro e il morbido. Ho orecchie, miracolosi radar che afferrano al volo il canto dei volatili, la nenia dei venti, i rumori degli umani.
"E fuggo con spavento i loro macchinari infernali e ad ogni piede io preferisco le crepe d'un terremoto".
- La statua -
"Quale artista, io immagino perfettamente come deve esser difficoltosa la vita d'un povero ragnetto nemmeno grosso da incuter timore allo scopo di allontanare i mille pericoli che incombono sul tuo corpicino peloso.
"Tu, amico mio, non spaventi, fai solo un po' schifo e questo non basta a non farti schiacciare come un moscerino.
"Non vorrei mai cadere nel tuo corpo per una reincarnazione errata, meglio puzzare alfine nella tomba.
"Una volta feci un sortilegio per leggere le mie rinascite. Vidi una civetta, un topo e un cigno.
"Trasformai un amore andato in malora in qualcosa che ti rassomiglia, uno scorpione giallo dalla coda ritta.
"Lo so, anche tu credi che questi siano i frutti d'una sfrenata fantasia, ma t'assicuro, non è così".
Questo è l'artista oggi e chi lo visita per caso o per errore.
Cerco casa
I muri di Roma raccontano storie d'ogni tipo, parlano incessantemente dall'alba al tramonto, stordendo gli umani con brusio ciarlatano e diabolico ritmato dal suono delle campane.
Parlano di vicende irripetibili d'una crudeltà estrema, trasportano l'eco sospirosa di vittime innocenti, morti irrequieti che non si danno pace e cercano d'entrare in contatto con i vivi negli spazi puri della solitudine metropolitana.
Così accade che il caso balordo s'affidi cieco come una talpa a questi residui di storia e decida per te che cosa ti accadrà d'improvviso, razionalissimo esemplare.
Tu stai cercando casa a casaccio, percorrendo le strade con la cartina per turisti, ma in realtà non sei un visitatore. Hai camminato a lungo negli anni da quartiere a quartiere scientificamente, avendo imparato a orientarti nel centro e dintorni con discreta maestria.
E ricordi ogni stanza della tua permanenza da quella dello studente annoiato a quella degli amori impossibili. Alcune erano spaventose, miserabili come la camera a pensione dalla vedova che andava a teatro e ti controllava la carta igienica.
Muri al caffelatte e pane indurito, lattine di birra bevute di nascosto per resistere, crescere verso la libertà.
E poi la casa delle patate, salame e formaggio, ancora birre e vino per vincere la paura d'affacciarsi sul cortile zeppo di buste di plastica.
Il boudoir dell'hotel a tre stelle, enorme conquista, colazione pronta e crackers, salame, formaggio, ma non solo birre, il vino in frigo per le emergenze.
Infine la casa della tua passeggiata preferita, quella dove si lasciò morire per fame, per gli assilli di figlia, marito, vicini e pazienti molto sadici, una povera psicologa buona e forse un po' somara. La tua casa per cinque anni eterni, rifugio, chiostro di frati che pregavano contro caterve di demoni.
Adesso t'inghiotte il futuro e giungi per caso alla casa delle belle di notte con la tenutaria abruzzese. Casa provvisoria, per pochi mesi, come la tua vita a cui non ti sei mai affezionato.
Camminerai per un po' tra aneliti e spasmi a pagamento a due passi dalla Cappella Sistina. Sei arrivato ai confini di Roma e del paese che rinneghi e t'ha annegato a lungo, figlio sano, saldo, un po' ingenuo, disposto a fare la tua strada ad ogni costo.
Il quadrato e il cerchio
Mi muovo ai bordi del mandala mondiale, celandomi sotto ad un plumbeo mantello medievale, cercatore d'oro, operatore instancabile di me stesso. Devo perfezionare il mio quadrato che ancora tende a scollarsi ai quattro angoli, ad espandersi in figure informi nello spazio disperso tra l'adolescenza e il niente.
Eppure è ben configurato, è un quadrato perfetto, disegnato dalle mie rinunce, dalla speranza che si rinnovi la gioia vitale ad ogni primavera che giunge, dal rinchiudere le chimere in un vago posto senza forza.
Il quadrato è il solido che resta di me dopo ogni devastazione, colui che non si muove e si riforma in pochissimo tempo. Ho faticato a disegnarlo bene, nella sofferenza dell'abbandono di una giovinezza pigra e viziata, ma ora io innalzerò ad esso una statua votiva, tanto è l'orgoglio del mio disegno. No, non ce l'ho col cerchio che m'inghiotte di tanto in tanto a spirale, anzi, lo considero un'altra risorsa della mia anima incontenibile.
Quello che m'infastidisce del cerchio è che esso gira a velocità alternate per conto suo, ora troppo veloce, ora con lentezza estenuante non in sintonia con le mie giornate di osservazione della natura e della fauna umana, con imprese e cedimenti un po' fuori della storia comune.
E' il cerchio che più dello splendido quadrato non riesco ancora ad incastonare entro il cesello, nel corso delle lavorazioni artigianali sul mandala interno. Ora son troppo lento, ora veloce in eccesso e il cerchio si sfalda in mille rotondità fuori del quadrato.
I maestri, le armi
Sono tentato di stilare un lungo elenco degli umani che m'hanno condizionato di più. E la mente va ai più liberi e gioiosi tra di loro, a coloro la cui vita è un ameno pomeriggio d'invenzioni, di fuochi d'artificio, di creazioni.
Non dico nemmeno i nomi, non ce n'è bisogno, perché ancora essi troneggiano come vaporose nubi sopra politici, banchieri, petrolieri, gente insulsa, imbellettata di cosmesi ed ori. Non a caso.
Ma la mia storia particolare ha avuto anche la fortuna d'intersecare un semplice umano onesto e forte, capace di volare sopra il suo paesello incatenato al passato.
Lui ha sfidato tutti, chiuso in un silenzio assoluto e ce l'ha fatta, guardando al futuro.
Devo a questo signore le affilate armi con cui oggi io posso valicare ogni confine e affidarmi sorridente a ciò che sarà dopo di me. Il mandala esterno, la rete.
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