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versione italiana
english version
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Quanta fortuna occorre per girare all'improvviso in fondo al paesaggio dipinto ed entrare senza rumore nel campo dei miei miracoli! Quanti errori aggiustati, cancellati per vivere ancora alla ventura libero col merlo dietro al biancospino. Ciao, impiccati sopra la collina appesi agli alti alberi. Non posso sciogliere la corda non ho tempo da perdere con voi
Mi preparo per il secolo rosso velluto sulla foresta nordica dove il nobile alce gioca coi cuccioli e polvere di seta verso sud sotto il sole e il leone famelico. Chi ero, voi lo ricordate? oh, non fa niente, meglio così. Qualcuno mi conoscerà ora nella Russia sconfinata degli zar pensando d'avere innanzi un fantasma. Guardate la mia mano aperta la misteriosa linea di un'origine incerta quanto i solchi della vita. Ammirate il vestito azzurrino che spicca audace, mentre attorno si fa lentamente oscuro e morto.
Quando salta il contatto elettrico e la pelle della metropoli si screpola come avesse una corrosiva lebbra non sognare di ripulire banche e mercati traboccanti di delizie ma precipitati nel bosco dei platani. Calpesta le foglie secche, affonda i piedi, inciampa, e un albero ti catturerà nel suo tronco scavato come fonda caverna. Parlerai con l'omino del secolare silenzio non infettato dall'alito cattivo del drago verdognolo della metroferro. Egli è gentile con chi comprende la lingua del fango e del legno il divertimento della polvere. E quando tornerai a casa avrai un altro respiro di cosa immobile e viva.
Prendono in giro il guitto Semplicione battezzato anche col nome di Pacione i predoni del deserto senza sabbia aridi nei loro truci tabarrani. Per buona sorte, Eros è altrove nascosto al mondo, sigillato nella dimora di risposte senza domanda. E gli amori nascono così, a caso dove nessuno arriva a cercarli nel mezzo del sorriso e del pianto tra le spore d'una pianta antica che raramente offre un fiore delicato e mai frutta di che saziarsi.
Come in un nastro girato eccomi qua, all'inizio. Ma non è vero. Come allora odiano la mia ricca armonia e preparano trappole mortifere che scattano addosso a loro. Quanto è triste chi non può mai affacciarsi alla sua fonte e specchiarsi amorevolmente incurante dell'altrui follia che sfocia in cielo come tromba d'aria! Lasciate che il sonno più lungo vi avvolga nel suo tanfo. Quando vi risveglierete, guardate su in alto, oltre i mausolei e mi vedrete ancora, imprendibile. Tanta patetica invidia per nulla contro una liscia pietrina fluviale che scivola nelle sue trasformazioni trastullandosi ben a fondo.
Da quanti morti ammazzati ci sono nella trucida Roma è naturale che ad ogni passo ci sia una chiesa, un altare un angelo vendicatore armato e preti e monache pietosi in aiuto di chi sosta sfiancato. Qui s'impara a mentire dal popolaccio cinico e vile che sputa sul sale e sulla terra credendo non debba mai venire la dolce suora con la falce arrotata. E' un giorno qualsiasi nell'Urbe quando in sogno m'appare la burlona divoratrice spaziale. Se vi fischiano le orecchie è il suo passo che rimbomba ultrasonico.
Prigioniero dietro la rete arrugginita in compagnia di formiche e cetonie dal bianco giardino all'orto smeraldino. Ritratto come la più bella cosa al mondo io ricordo il percorso a ritroso ora che l'ho abbandonato e vago per vasti possedimenti. Fughe continue e ritorni m'han fatto giungere qui allievo dei pianeti allineati lassù, noncuranti e fissi con gli occhi sgranati come perle. Forse potrebbe piacermi rimanere in questo spazio che scompare con la luce ma fa vedere nella tenebra.
Ho come aiutante assiduo il monaco cellaio, cuoco speciale per la felicità d'ogni bambino. Colma la mia dispensa di golosità e per ogni lacrima, un bignè per un cattivo pensiero, il luppolo e biscotti alla mandorla, ricotta cavolfiore, confetto, pane bianco per Pinocchio al fatato desco della lumaca. M'abbandono al cibo come all'amore supremi piaceri necessari al corpo che nessun orco potrà mai ghermire poiché il cellaio prende il tritacarne e ci fa macinato per i suoi topini.
"Signore dei sospiri, dacci anche oggi pane!" Il Tevere parlava tra i singulti nell'età di mezzo, sotto alla torre colma di granaglie ed ori. Volavano uccelli e streghe sui ponti coi fuocherelli fatui. Ci sono forze rimaste in natura che nottetempo castigano soccorrono repentinamente fanno indovinelli e dispetti. Io so dei loro incantamenti perché indicarono fortunosamente ciò che non volevo ad ogni costo. Passo e sento i richiami domando ai muri del mio custode.
Qualcosa si deve buttar via quando la secchia cerebrale è colma e non ha più spazio sufficiente per pensieri mai prima sfiorati: desideri di mutar carrozzeria vecchie amicizie stantie, sogni ciabatte aperte in punta, balle che fanno acqua in ogni dove amorazzi sfondi, che d'ora in ora perdono pepe e spalancano sbadigli. Non resta che alzare le spalle spolverare le vesti, e dire "adios!" con la fretta di trovarsi altrove.
Ho incontrato un amico, al parco disteso al vento sopra le ghiande seppellito da un quintale di foglie e si divertiva ad affondare e riemergere. Pacifico come un grosso orso aveva scavato la sua comoda buca per sollazzarsi la schiena e i piedi. Aveva nome di re e sorriso da stalliere che conosce ad una ad ua le sue bestie. Eravamo entrambi d'un altro tempo quello degli orologi da riparare ore ed ore, col saggio canuto che sortiva sempre alla stessa ora tanto da regolarci le lancette. Quando ho lasciato il mio amico lui s'è acceso un sigarone ed io sono andata in banca.
Famelici invidiosi del girone di merda e panna montata corrono dietro ai pionieri del West per rapinarli dei loro averi in nome di sacrosanti diritti. Ogni zecchino d'oro sarà rubato o restituito al fuoco dell'inferno. Così urlano, sbattendo a terra caffettiere di legno, latta, plastica non adatte al loro pregevole uso. Quelle vere sono già al sicuro con le custodie dei pistoleri nella locanda più accogliente fuori dalle piste battute. Alla fine del gioco, i due bambini ridevano a crepapelle dei mostri.
Gironzola sotto l'albero delle mele e cerca sempre la più allettante ma lasciala lì. Guardala solamente mentre diventa da acerba, sugosa ghiotta allo sguardo e al palato nettare degli dei sadici e insani. E poi, languidamente, va in malora marcendo incolta, zeppa di vermi finché la cornacchia e il corvo la divorano fino ai semi pulendosi il becco soddisfatti. Ognuno vorrebbe assaggiarne il sapore e tu l'hai immaginato, annusato sperando con passione che qualcuno te l'avesse prima o poi offerto sfidando la maledizione dell'impero.
I morti parlano giù al fiume mentre lavano i veli inamidati che li rendono invisibili al mondo. Esclamazioni, tra l'edera e i suoi amanti i legni rinsecchiti degli alberi. Distese di ricami molto sottili nel posto dei mostricciattoli dove i cani vanno a pisciare. E' la zona di confine tra la vita serena sequela di pianti e risate tavola calda aperta no stop e qualcosa di leggero abbandono al vento, al silenzio, al riposo assoluto.
Quando è finito l'anno del serpente con le sue tragedie inevitabili ho incontrato il poeta dei fiori di loto a correr dietro ai cavalli alati per domarli oltre l'orizzonte. Io sono oppresso da mali feroci che cerco di soffiare lontano mentre offro omaggi floreali alle forze contrarie alla vita e seppellisco sotto ciocche di malva la carcassa d'un povero merlo. Vorrei che la dea imperatrice alleviasse i lancinanti dolori regalandomi una parte di futuro. Oh, è notte senza luna. Non ci si vede chiaro né in alto, né in basso. Ho perduto la carta dell'aruspice ma sono di nuovo energico come il nobile Lucrezio, allorquando vide la natura estrema delle cose.
Minuscola strega del giorno perso appresso al sospiro d'acqua avvelenata dal luccichio stantio della luna. Fermati a parlare con me viandante! Amami come fossi il tuo nemico al ritmo del ballo in maschera incessante attorno al gorgo vorace. Ogni uomo insipido fa le sue giravolte fino a che s'accascia sfinito, e tace. Io sono il mago dei cattivi e in pochi mi trovano gradevole. E mentre il tempo batte la grancassa e l'amore è un perdigiorno io lavoro sodo in ogni dove. Dimmi che mi odi veramente mia diletta bruja spaventata.
La mia pietra sorride restando al solito immota. Sto fermo, ignorandomi resistendo ad una sottile corda che mi enfatizza quale sinfonia. Volevo sbarazzarmi di capricci e ricci dell'invasata adolescenza ma eccoli tutti in fila a far le boccacce dallo specchio. Non bastano truci delitti, scandali le orrifiche cose d'una vita estrema per cancellare la mia macchia solare. Tanto vale che io ci rida sopra.
Ecco l'aria pollinosa delle concubine con le bestioline innamorate che s'agitano profumose di marzo. Chi è allergico starnutisce sotto ai meli pieni d'api. Qualcuno si stropiccia gli occhi arrossati dalla luce improvvisa dopo la tenebra e la pioggia. Ma chi aspetta tremulo ogni anno s'immerge in un'altra era dell'esistere ben ponderato. Fatalmente è vittima di un'esaltazione.
Aedo d'aprile,sfinimento sottile spetalato da mille mani ansiose di sapere gli arcani. Ho anch'io una richiesta balzana. Dopo il tempo della vergine scappata a ritroso verso l'incubo e quello della dama di corte intrigante assassina insolente fa che vengano i giorni sani dello studioso nella cella del frate. Già so com'è quella bambina che tiene male la penna ed ha imparato a fare le vocali.
E mentre danzava, allacciato al solito vecchio amore di sempre lentamente vide cristalli sul muro. Provò a contarli, ma erano imprendibili come lacrime di dolore storie andate, storie a venire. Cosa saremo, a smontare pezzo a pezzo i marchingegni levantini del sogno? Forse chiunque, meno ciò che siamo ora, qui, sorridenti come ebeti. E dietro quante urla, quante fitte di tormenti indicibili, all'aurora.
Viveva protetto entro le mura che il padre aveva costruito e non riusciva più a raggiungere la superficie terrestre, il respiro della grande madre assente. Tesseva da lontano le lodi dei pianeti allineati a sè in giocoso cammino a sud senza croci, solo ombre bianche pallidi mantelli aperti nel deserto. Nessun rumore, il tremolio dell'acqua a coprire la mia Atlantide segreta.
Voi resistete alla crudeltà che gli uomini hanno così cara? Allora siete pronti per rinascere nei grandi spazi luminosi che la mente concede, dopo un anno di astinenza dalle parole erranti. Aprii la gabbia delle scimmie perché tornassero lassù, sugli alberi ad agitarsi e spidocchiarsi a mostrare i denti giallastri. Ed io, sotto le palme sempre più liberato dal silenzio.
Nell'attimo di gioia delle piante e degli animali in fuga gli umani pensano male d'ogni angelo che si posa lì accanto. Paure e dubbi sull'arrivo del vento e lo scorrere di luci e oscurità. Il tronchetto della felicità è sempre più alto, resiste alle foglie che s'ingialliscono. Il serpente s'arrotola a corda e la vita è la solita zuppa che odora di buono e durissimo.
Oh, frammento d'anima dissolta avidamente, non più sconvolta dagli eventi, imboscata, distesa al riparo sotto le conifere! Ricorda da vicino le ore sprecate a farti male col male altrui. Non vale la pena il disturbo di seguire le formiche noiose sfilare l'una dietro l'altra incontro ai corpi supini vivi o morti che siano.
Come un pirata della Tortuga non ho più paura di voi. Sono picaresca falena accecata dalla luce del faro. E il mio percorso è tracciato di netto da mano scultrice che mandò tutti al finale giudizio. Dopo tanto vagare, sarò arrendevole ad ogni ora che bussa al confine.
E' aperto il nuovo parco dei giochi. C'è un trenino che arriva in capo al mondo passando per un falcetto lunare che ridacchia placido e nebbioso. Un gatto spelacchiato acchiappa i mosconi in giardino. Una bimba soffia sulla cipria dietro al banco dei profumi orientali. E se sposti un oggetto a te caro c'è un sospiro della tua mente che si muta dietro le orecchie fino a che non diventa parola. E' una scena di mezzo, Lutin Non lasciare i riflettori! Dal mestiere delle armi alla torta fumante, in cucina dove stanco ritroverai i gessetti della tua scuola elementare.
Ogni tanto poso il gran peso del mondo che non è come me una danza agitata di piccioni in attesa che parli in piazza il matto che tutti conoscono. "Io vi posso maledire, voi e figli!" strepita dal palco di campagna orrifico retaggio d'un evo che inchioda un'intera nazione alla sua pizza con la mozzarella. Eppur si muove qualcosa laggiù, tra i faggi e le gazze ad altro ritmo, al mio che qui, senza opera, sonnecchio.
Una nota musicale comanda sottoterra, nella tana della signora che d'estate veste in pelliccia e d'inverno si denuda sconnessa fumando cento sigarette, e spalmando un rossetto che è fuoco violaceo come l'incendio che le arde la mente ad ogni festa comandata quando il resto del mondo finge di amarsi e rispettarsi per poi tornare al crimine appena si staccano gli addobbi. E lei si trucca accuratamente nella panchina disastrata con accanto il poeta solitario che prende appunti al buio.
Mi manca il mio mare le onde che scorrono paciose lasciando spazio alle congetture. Bloccato a terra dove nulla passa e le cose restano ammucchiate nel disordine tra passato e presente. Il mare aperto trasporta lieto il futuro, in leggero bilico sopra le corde dei delfini cantori. Cosa dicono quei pesci farfalla nella stagione degli amori dietro a razze e conchiglie vuote? Il granchio indietreggia e avanza per sempre nello stesso tragitto che conosce come il suo guscio. Ora muta ogni cosa la luce d'un sole fisso e forte che invita a denudarsi vogliosi. Ma ancora è presto. Fa freddo.
Sfinita, nella taverna del lupo senza alcun cappuccio a coprirmi saltai a piè pari le siepi giungendo alla brulla pianura d'una favolosa solitudine. Ogni tanto rivedo denti aguzzi le unghie dei predatori che rapinano la banca della vita. Profumo di glicine, le foglie d'un fico dai frutti di pietra, come l'asfalto su cui s'ostina a rimanere. Io cammino con lo scheletro gelato attraverso il tempo che verrà e mi sento nel posto giusto per contare ogni notte le stelle disegnare la luna integra. Sono il bimbo nero, in mano alle turiste tedesche, sballottato nel caos dell'uscita dalle viscere della città che corre instancabile.
Resterò qui, sul colle assopito con la canzoncina della strega Aprilia fatta per ninnare le quaglie e gettare polverina laggiù sui terrazzi con i panni stesi e le scale per scendere in piazza a comprare gelati e sigarette. Che sonno che ho! E' giorno ma vi do la buonanotte tanto è il torpore degli arti che non si muovono più. Non c'è stagione che separi l'amore dalla morte le gemme che s'aprono e son bruciate all'improvviso nell'etere fissa e fredda prima che arrivi il re sole a far credere ad ogni creatura che nel moto affannoso c'è vita e nella sosta per riprendere forza ci ghermisce l'imparziale regina. Ho imparato, stando all'aperto che aspettare il capriccioso Cupido è solo balzana chimera e correre a cercarlo, è cruccio di vederselo scappare sotto il naso. Allora, disteso, io sogno. Non importa se l'ora vola. Non c'è cosa alcuna da cogliere alla svelta. Non esiste. Sono io il servo fedele che russa ai piedi della pigra bruja
Ho colto in riva al fiume gli audaci papaveri, la tenera lupinella mentre altrove si preparavano dei fanciulli a saltare per aria in nome d'un demone incolore che spinge a disintegrare il gaio trastullo terrestre. Non c'è rosso pari al mio raccolto che sfacciato troneggia sul tavolo del più inutile e sconosciuto. Provare a rifarlo è impossibile. Si può solo guardare, pensare che è un regalo in anticipo sul tempo che farà tra poco col fiato bollente dell'estate.
Attonito, odi motivetti nostalgici versetti andati a male, buoni per beccare la carità tra le pulci. Furon gli inni di mutamenti repentini che, strisciando, mozzarono teste saccheggiarono i palazzi d'argento. Ora, fra scheletri e scorpioni richiamano le urla strazianti dell'artista che non voleva morire condannato a tramandarne il suono il trambusto del sangue che schizza.
Visita al sito dei centurioni affogati nel loro vino, affamati di soldi e di grano, sotto la torre serrata dal segno del comando. A nulla è valso il pacioso Tevere che invitava a scorrere lenti con gli orologi cinerini di Dio. I centurioni deformi non ascoltano la vezzosa natura, la sua luce che ammicca paciosa all'oriente. Equilibrio d'alati posati sopra vetuste magnolie. I centurioni sempre più truci improvvisano ridicole guerre e il pittore si volge altrove il parolaio tace per cipiglio. Le donne sono travestiti che allattano per finzione una prole di bechi urlatori.
Con due chiodi sulla tempia sinistra invidi l'esistenza delle piante gli ippocastani scossi dal grecale. E infrangi volentieri la legge per cogliere un grappolo rosato che ti riporta in un giardino abbandonato con la ricreazione spensierata dopo la lezione di matematica. Ogni respiro torna a te con l'aiuto prezioso delle piante. Chiedi scusa alla rosellina seccata lontano dall'aria solare tentando di rinvigorirla ancora. Il tempo vegetale non è eterno ma duttile e libero. Vuoi essere animale per spostarti nello spazio o una qualità di pietra di minerale dal colore gradevole che nulla avverte, ma dura quasi eguale nelle catastrofi.
In ricordo della delicata bambina allergica all'incenso in luogo chiuso avvezza ai campi con l'erba alta dove si nascondono mille animaletti che passano il tempo a mangiare e a farsi i dispetti, felici, loro. Adesso io la porto a spasso ma storce il naso ad ogni incontro puntando il dito su chi deve morire. E son pochi quelli a cui concede che spuntino le ali per il cielo nel bestiario scappato dallo zoo giù, sotto la collina lacrimevole. Qualsiasi cosa io faccia per lei la piccola s'annoia e sospira tenendo il broncio fino a sera quando spera di riprendere il treno per Woo ignorando che non esiste più.
Da lì è sorta la femmina che corre senza orologi nella metropoli, ipnotizzata da una vecchia torre diroccata. Ha sotterrato con l'ascia di guerra le angosce e le raffinatezze di un'età dell'oro mai raggiunta. Lei sa dei disastri dell'umano e sorride stranamente alla sorte sfidandola ad un gioco inedito con un mazzo di carte napoletane dalle figure riccamente dipinte. Indossa ancora le scarpette un dì appartenute ad Amadeus fotocopia noncurante di antenati certamente più degni di lei.
Ipnotica via dove ognuno va e viene, travestito da qualcosa di cui non ricorda il nome e il cognome che ha lasciato disperso negli uffici dove segnano in blu nascita e morte. Sono a guardare a mezz'aria quando cambiano i vestiti al manichino della ragazza atletica che pare tenti di parlare e dire che vorrebbe uscire dalla sua vetrina e camminare scalza verso Ocno.
Nel favoloso corso del fiume che muta in largo con la pioggia e secca gli argini, bevuto dal sole pesci e germani vivono in santa pace. Ho portato il mio computer alla riva assieme a pentole e coperte, in ordine. Un mansueto lupo fa la guardia per avere da me cibo e lavoro mentre sosto col taccuino balordo annotando luci d'una città distante quanto basta per stendere un velo sognante. Di stagione in stagione si risvegliano gli umani istinti, o soccombono per natura e le statue dei poeti non parlano che agli animali e ai venti.
I Cosa dire di profeti pietrificati che scrutano minacciosi un paese di comparse senza arte, né parte? La porta dei corpi volanti meta turistica internazionale è chiusa per ferie ad oltranza. E in molti bivaccano, aspettando un cenno, una chiamata dal cielo per tornare a godere d'un tempo sfumato dietro alla nebulosa tra le carovane del re in fuga e i fucili degli eroi novelli. Fa male al cuore, osservare la traccia delle anime che si sfiorano e assale il desiderio feroce d'esser bronzo fuso, nella fucina della bellezza che lì governava. Ma poi ci si sveglia, cercando ciò che è custodito dietro la porta dalla mano di un dio impassibile. II Da lassù qualcuno invia segnali di frescura e godimento, mentre sotto, torme di schiavi angosciati corrono allo sbaraglio contro il tempo. Li hanno venduti e comprati tante volte che ho perso il conto, sfogliando le pagine sporche del librone che narra alla meno peggio la storia. Sto con lo sciocco del borgo che crede a ciò che ha sotto il naso. Non furono imprese memorabili ma ingegnosi raggiri di sterminio e brama di comandare lassù. Ora lì c'è un fantasma ignaro che dipinge più bello ciò che è stato.
Era in viaggio col musico morto trasparente nella tunica indiana beato alla sua tenue chitarra. Sotto il treno c'era una folla in marcia verso acqua e pane. Oh, gli affamati sotto i sacchi di stracci e ricordi del mondo! Trasalì di ghiaccia paura non volendo morire alla frontiera per mano di stranieri in arrivo malconci e sordi al suono del sitar. Il musico socchiudeva gli occhi e offriva cantate per niente pur di salvare un amico.
Amore duraturo come pietra levigata alla furia del torrente prima d'arrivare a valle, al mare. Duro come mestiere malvisto e inviso ad ogni essere vivente. Fuorviante come il sale con la pioggia insospettabile sbaciucchiamento di scirocco ultimo respiro di gioia sarai quando stordita dagli eventi navigherò da capitano d'aria verso un'altra memoria distante.
Mantieniti parsimoniosa vicina ad una natura incontaminabile uguale a sé nei secoli fuggente. Il premio in palio è una paura in meno, ogni giorno che passa dalla luce alla tenebra stellata. Ritornello d'una vecchia canzone nostalgica e disincantata di fronte al bello e al brutto che assortisce la natura umana come frutta di fine stagione.
L'angelo nasconde la sua ala sconosciuta e nera, lontano da sé. Ed essa torna infida a battere se un ricordo si colora al buio nel mezzo del torbido viaggio verso il posto malfamato dove ai bimbi mancano i denti per mordere i loro aguzzini. La forma scura dell'angelo è terribile a vedersi implacabile come le imprese ch'egli compie per bontà divina. L'aureola angelica scompare quando si deve compiere un delitto, per proseguire il famigerato disegno rotondo.
E' ora che tu sappia cosa è l'esistenza: percorso di vagabondaggio che inizia al caldo infernale e arriva ai brividi finali. Non sappiamo molto altro né come ci troviamo qui di fronte alle statue di sale che han perduto la veste e la cetra ma rilucono ancora sentimentali in memoria del recinto infantile. Rinnoviamo gli omaggi all'amore perché salvi ciò che rimane del calore dopo la nascita.
Soffia via lo spirito sfinito. Modificabile è ogni frammento dell'anima tua. Apri e chiudi muta d'abito, e l'abito ti seguirà. Sarà più veloce del lento corpo meccanismo assai rudimentale. Pizzica una chitarra indiana con mano sicura e mite. Soffia sul tuo spirito bollente ed esso sarà fresco a lungo.
E mi trovai nell'isola sperduta bella a vedersi, tanto era verde dopo l'alta marea calda e rossa. Disteso e senza fiato, acquatico elemento legato alla terra, plancton dissolto per sempre dall'origine materna, feconda, protettiva. Esplorai la zona scientificamente organizzando i giorni col sole e la luna. E desiderai che in mezzo ai vegetali sorgesse anche un cannibale muto un nemico da cui difendermi ma non c'era nessuno. Eppure ero felice, risonante conchiglia ai venti e alle ondate figlio indifferente e materiale che invia, sognando tenerezze segnali al di là del pianeta parlando ai pesci e alle mie sculture. Fabbricai nel legno, nella pietra ogni cosa potesse servire ai miei giorni immemori, bianchi. Non parlai mai con me stesso per antico pudore ereditario o per troppo rispetto del silenzio senza cure particolari di un corpo né della vaga cosa, davanti all'acqua.
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