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versione italiana
english version
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Gira la clessidra
dalla polverina gialla
e ridiventa piccino tra la flanella.
Punta un potente binocolo
dalla sua alta finestra
ruotando pian pianino le dita
per mettere a fuoco il mondo.
Passa le ore a vagliare le cose.
E’ un accumulatore di foglie
chiavi, serpenti, delinquenti, denti
degli ultimi draghi scozzesi
che incendiavano senza fiammiferi
i ladri di meloni e fragole.
Le sue amiche sono cicale
gazze e bruche a strisce
che divorano ogni verdura dolce
e risputano quella amara.
La sua divisa è a forma di farfalla
e non ha più allievi al suo fianco
ma distanti, forse sì e forse no.
Di mestiere insegnava la lingua
nel senso letterale del termine
e come correggerne gli errori.
L’immagine più simile a lui
è l’adolescente che corre imprendibile
tra il bric-à-brac del rione
“Pane, amore e fantasia”.
Ciao, Donnie, che vivi sul posto
dove i coccodrilli dicono il vero
spalancando le fauci taglienti
prima d’ingoiare umani
senza versare nemmeno una lacrima.
Qui, dove io fingo d’esser saggio
è difficile dire la propria.
Bisogna andare ad urlare
in mezzo a boschi impervi
sperando d’incontrare bestie mitologiche
che non siano carnivore
e ottime guide spirituali.
Donnie guada sopra l’uragano
con mezzi improvvisati, col cane
d’un amico del secolo scorso.
Cerca soldi, sotto il sole roseo
che asciuga ossa e corpi.
Ogni tanto anch’io dico il vero
antico vizio lussuoso
senza spaccare niente attorno
lanciare massi sopra auto in corsa
allagare scuole, musei, banche
chiudere neonati dentro ai cassonetti
o ucciderli dopo lo svezzamento.
E mi piacerebbe vincere la guerra.
Mi sentirei più in pace.
Conosci le fughe d’agosto le chimere
che sorgono ingenue
le esaltazioni per qualche amore
inventato di sana pianta senza
fondamento alcuno casupole
che crollano rovinosamente?
Hai mai invocato le fughe d’agosto
altre impossibili esistenze parallele
segnate nel tabellone a punti
di chissà quale splendido gioco?
Dormi con la tua foto migliore
in 10.000 copie accanto al letto
mentre galleggiano sulle acque torbide
stoppe di un’arca che non affonda.
La cosa più importante
è un finale modificabile
dove mettere ciò che ora tu vuoi.
Il suonatore di fisarmonica Sarghetta
è consunto dalle sue note
e dal vino scadente che trangugia
per resistere agli inverni sottozero
in ogni piazza del rione “Saluti e baci”.
Il suo sogno è un’America
che non finisce mai
ma lui crede che sia l’India
e si ritrova per caso al caldo
quando abbassa le palpebre alle 4.
Il gelo avvolge le sue ossa
ormai di pietra durissima.
E’ quasi senza denti, puzza
ma ha un sorriso bellissimo
quando inciampa patetico sulle punte
per andare a scroccare sigarette
ai benestanti del rione “Mediocrità”.
Sarghetta suona in mezzo alle nuvole
come una campana stonata
del cimitero di Fiume, vicino ai cavalli
che aspettano pazienti la chicca
da una bimba grassoccia che lo vede.
Allora Sarghetta si nasconde vergognoso
coprendosi la bocca piena di bava.
Sono il nano che raccoglie pinoli
quando gli altri mangiano in casa
discendente d’una generazione paralitica
che cospirò a lungo contro i propri demoni.
Quando il giorno è terribile
faccio il lavavetri di macchine
bloccate al rosso sparato, spente
per risparmiare benzina nell’attesa.
Amo una cospiratrice malata di nervi
che spia da un monte indisturbata.
Con le sue fantasiose congetture
a volte non ci accorgiamo dell’ora
e tiriamo a campare più allegri
di chi sbadiglia sempre in casa.
Per questo viviamo all’aperto
e se avessimo tanti soldi
non ci chiuderemmo di certo in casa.
Quando nasci come Carina e Seccaragno
tra le megere che sbattono i tappeti
mentre i fegatelli friggono nel burro
fai bene a non prendere l’infezione
per mancanza d’aria, per contaminazione
di corpi modellati in un pozzo nero.
Taglia di netto i tuoi capelli
per trasformarti in diversa cosa
esci dall’angolo buio pesto
dove non c’è ragnatela provvisoria.
Trovati un lavoro importante
fa’ l’avvocato del diavolo
non è un mestiere malvagio.
Qui rischiano di saltare per aria
e si curano ugualmente a pasticche
per non fumare più sigarette.
Curiosa genialità, divertiti
con le loro fissazioni
lasciando i dolori ai cavalli.
Un telefono squilla gracchiante
nella casa abbandonata da anni
da dove sei scappato per congelamento
e rientrato fuggiasco in amore.
Qualcuno dall’altro mondo ti vuole
insiste per sapere come stai.
Devo rispondere che sei cresciuto
che hai avuto alcuni contrattempi
ma hai fatto la tua carriera
proprio secondo copione.
Vorrebbe parlare con te
perché sei tanto famoso
e deleghi assurdi congiunti
che ti portano ai 4 venti
tra chi indaga pettegolo
sulla data esatta, scaduta
del tuo tesserino sanitario.
Arriva un profumino dalla cucina
di vita che continua, a fianco
della morte sempre davanti
nella camera dei miei genitori
dove la mamma accudisce il babbo
come un bambino che non cresce più.
Un amore atroce li tiene assieme
canto sublime, perfetto
che mi fa bene al cuore, spezzandolo
prezzemolo sulle patate.
Avete cresciuto un alieno
non sapendo ciò che lui fosse
ed ecco per voi, carissimi
un fiore da Saturno, uno da Venere
un mazzo suntuoso da ogni pianeta
con l’augurio che non appassisca
salvo un black out del firmamento.
Hanno ritrovato il profeta
carbonizzato sopra un povero cammello.
Era partito da poco, in solitudine
lasciando alberghi e scuole esclusive
per fondare la setta della scalogna
destinata a spargersi sulla terra
a comandare nei secoli dei secoli.
Gli andranno dietro per un po’
storpi d’ingegno e ciechi di rabbia
finché ad uno ad uno
periranno senza lasciar traccia.
Hanno ritrovato l’ultimo eroe
della congrega “disgrazia continua”
i suoi denti, l’incerto DNA, i peli bestiali
e non c’era nessun testamento.
Uno sguardo felino, l’egizia divinità
e il segnale di vita e morte
tracciato per poco sulla mano sinistra.
Amadeus biancospino cresce con me
e sfuggiamo alle confraternite
ai nobili caduti in disgrazia
ai templi sconsacrati, ai bouffons.
Per favore, fai la carità
all’angolo della mia strada
in fondo mi trovo qui per te.
Non farmi riempire di formiche
appoggiata a questa chiesa
che nasconde mille cadaveri.
Non c’è foto che riporti
il fantasma assiso al Duomo
alla ricerca d’un posto di lavoro
tra le officine, gli antichi mestieri
i santi che pregano in ogni idioma
i diavoli sconfitti da tanta beatitudine.
E’ un giorno buono per essere virtuosi
e tu vuoi solo mangiare e bere. Vergognati!
La fortuna non ti vola sul collo
perché hai uno spirito troppo vivo.
Hai promesso a tua madre
di tornare sui banchi di scuola
e fingere d’essere più somaro
dei professori diritti in cattedra.
Dove la notte i pipistrelli inquieti
stendono l’ala che sbatte alle conifere
di giorno c’è un asilo infantile
una nurserie un po’ tocca
che esibisce il suo ipotetico futuro
mentre urla e ammazza lucertole.
C’è qualcosa in costruzione in quel luogo
una trama nell’ombra, quasi dovesse
risorgere da lì un animale nuovo
dopo gli estinti, dopo i ragnetti volanti
e pochi umani divertenti.
Chissà quale immagine vorrà dargli
una natura poco riflessiva
pronta solo quando non dorme
a distruggere e salvare a caso.
La sagoma di un toro infilzato
in cima al paesino, al rione
in festa per la società segreta
e il patrono che odora di ciambella
nutella, frittella, caramella
merendine elettorali a cielo aperto
coi buoni a leggere i giornali
insciarpati fino al soffitto
per timore dell’influenza asiatica.
La statua di un saltimbanco
ancora in vita, in giro per relazioni
pubbliche e privatissime, ottime
per aver coppe, pelouches, medaglie
artistiche al valor civile.
Evviva il rione della libertà
d’impiccarsi alla quercia più grossa
ascoltando un motivetto arzillo
l’organetto della vecchiettina, caldarroste
giochi, palloncini, trombette.
Paese di balocchi assai pericolosi
soldatini di latta e di partito
a caccia di scoiattoli sul monte Collodi.
Esibizione d’una pace armata
penne di falso indiano e zucchero bruciato.
Ronf, ronf, dormitina breve
a notte fonda, sveglio
per sognare passato e futuro
straordinariamente lineari.
Con Natali inesistenti, Pasque impossibili
quale barbone e riccone
verso la stella polare
rompendo i recinti alle frontiere.
Quando nasce il giorno ti chiedi
come festeggiare un isolamento dorato
mentre gli altri affrontano solidali
futili tormenti pestilenziali.
Ringrazi la morte civile.
Vai incontro al thriller, all’horror
già visto intorno a casa tua
tremante come una foglia.
All’alba leggi in rete
ciò che succede lontano
Ronf, Ronf, dormitina breve.
Vestiti alla rinfusa, lavati i denti
prima di tornare a sorvegliare la città.
La divisa che indossi è religiosa
unica, molto originale
fuori moda, secondo il tempo meteorologico.
Tra celebrità casalinghe
sei trasparente, voli
tappezzeria al muro del pianto.
Ronf, ronf, è il comico nome
adatto a chi dorme pochino
a chi veglia, sparandosi la vita in vena
intossicato dal battito, dal respiro.
C’è qualcosa in questa stagione
di nebbia viola in concerto
che narra di una nascita fortunata
bruciata in un attimo, fino a qui
sorpassata da un passo felpato.
Avrà sofferto il chiuso, per questo
Il ricordo è talmente ventoso
da portare via con sé tutto il resto.
La noia d’un ritratto improvviso
si dilegua con la confessione
il perdono d’una colpa mai avuta.
E una pace, un appagamento
si depositano da qualche parte
al cadere d’un frutto a terra
non ancora ben maturato.
Io sono l’americano muto
che viaggia di tanto in tanto
dentro ai treni pieni di pulci
con occhi ora aperti, ora chiusi.
M’hanno cresciuto in un altro paese
con altra lingua così dolce
che mi sarei fatto adottare
senonché gentile è l’idioma
e sbarrato ad ogni effusione
tutto il restante mondo attorno.
Ho preso il giusto atteggiamento
esteriore, quadrato con l’interno
ed eccomi muto e americano.
Strano che nessuno mi derida
come di fronte ad un telefilm.
Hanno paura della mia parte vera
che mi conduce a piedi
smiagolante o sfrontato
come Tom, Oliver, Alice
in un posto assai distante.
Sono un traduttore automatico femmina
interpreto le corbellerie più piccanti
attribuite a quell’allocco dell’americano muto.
Ad ogni festa dei morti, uguale in ogni borgo
lui ha l’allucinazione della grande armata
e mi usa come tamburo, tam tam
giù per la steppa del lupo umano
nella stagione dell’incubo totale.
Altrimenti fa buon uso di me
sono la sua voce e le sue orecchie
un pensiero tradotto alla svelta.
Solo dormendo puoi ballare
uno strano tango che ignori
col passo più lungo, e qualcuno
ti posa a terra con cura.
Ti fidi ciecamente mentre muori
e il tuo corpo è adagiato piano
poi di nuovo messo in piedi.
E sei vivo, con tuo padre elegante.
Poi un’altra sagoma esotica
molto più grossa di te
t’abbandona al tuo destino solitario.
Da chi avrò imparato quel tango
in cui sbaglio un unico passo
sentendo la musica e lo sconosciuto.
Con qualcuno l’avrò provato una volta.
Quando sono ad occhi aperti
detesto quel ballo. Io conosco i passi
del valzer, i giri veloci
che si fanno bene da soli.
Anatre, polli e qualche cicogna
da curare, far volare ancora
bimbi senza giochi e dolcetti
presi a fucilate da maniaci
in guerra, esplosioni, l’apocalisse.
Hai messo la maschera bianca
che ulula davanti agli specchi
e il tuo Halloween arriva improvviso
molto prima del Natale divino
ma a ridosso di un compleanno
che segna un ritorno di fiamma
con tutte le fiabe che hai letto
che ti spaventavano per finta.
Non le ricordi già più?
Buon prosieguo, auguri, scherzetti.
A volte se non facesse male
se fosse indolore e senza pensiero
la morte sarebbe ben accetta
migliore d’una vita insulsa
come ce n’è tanta, troppa in giro.
Qualche volta occorre pensare
di svolgere un compito grande
impossibile da lasciare incompiuto
altrimenti non riesci ad uscire
dal sonno, dal torpore, dal dolore
di come stanno le cose
e te ne andresti, lassù.
Fa bene non tenerci molto
alla pelle, al fiato, al cammino
ti dà una forza sbagliata
che poi ti serve, t’aiuta
ad essere meno indecente
come umano, malvagio tuo malgrado.
Prima c’era un clown di stoffa
nascosto dietro l’armadietto.
Ora l’intera palla mondiale
m’appare un circo senza disciplina
sotto il tendone dell’orizzonte
in attesa d’essere svenduto
per tornarsene al posto sconosciuto
dove origine ebbe ogni cosa.
Non so se dopo ascolteremo
un inno purissimo, solare
ma ora c’è gran frenesia
di scappare, calpestare, ascoltare
urli a ritmo selvatico, silenzi
solo dopo impreviste devastazioni.
Il clown fingeva di ridere
folgorato da madre natura.
Ora ha un ghigno scucito
e guarda allibito il soffitto.
Non ha più un grammo di cuore.
Per quelli del quartiere “Totale abbandono”
era “Lo Schiaccianoci”, il ballerino
del vecchio cinema muto
la colonna sonora di fetide ore
cimici francesi con popcorns bruciati
mentre dietro s’uccidevano di felicità.
Nel mio maleducato ricordo
egli prese la metro di Paris
e sparì verso la prima spiaggia.
In realtà era un uomo solo
non aveva nemmeno una bestia
e forse ora galleggia passivo
prima della foce del fiume.
Irriconoscibile russo spaesato.
Non è detto che sia morto
può stare così, nel rimpianto
della madre Russia, dell’antico balletto.
Non s’aspettava quello che trovò
nel posto della cuccagna.
Teatrini europei diroccati
vento di bonaccia, ignoranza
su solide mura medioevali.
E’ il tempo dell’insonnia, o sonnambulo
che annaspi con le mani, incerto
d’essere felice con nulla, gratis
beneficenza a te stesso, o sconosciuto.
Tu puoi restare a guardare una foglia
a mulinello sul ramo secco
o muoverti rapido per strada.
Non andare più al vecchio specchio
dove vedi solo amici morti
o nemici che hanno preso la lebbra.
Non riposarti in quei banchi
stagliuzzati col temperamatite.
Puoi restare piccolo piccolo,
che nessuno ti veda, ti cerchi
ma fallo per dispetto
e goditi i beni del sonno
così reali che non svaniscono mai.
E’ un pensiero cattivo, o Florentia
che governa ciò che vedo
vicino e lontano, che dilaga
dall’Arno in piena, sopra brillanti
per fidanzati che si sbaciucchiano
alle finestre aperte sull’acqua.
Un vecchio che sembra il Da Vinci
punta il suo indice secco
sui passanti che ridono ignari
e vanno al Duomo a toccare le pietre
così belle da far impazzire.
Incredibile visione mescolata
impietosamente ai giorni presenti
fa piangere l’anima, la confonde
come quando ci si traveste
per le feste carnevalizie
e si beve forte fino a star male.
Come è possibile che proprio qui
qualcuno abbia fatto meraviglie?
E’ un pensiero cattivo
che s’aggira implacabile, corrode
più della furia del tempo.
Accendi la rete, la radio. Consuma la tua dose
quotidiana di petrolio, gasolio, luce.
Ricicla carta e pile tra i rifiuti accumulati
dietro il tramonto d’un sole stantio.
Ti sei rifugiato in una fotografia
ma ne dovrai fare altre, tante
timbrandole con lo sputo del drago.
Cinese fragile. Uomo sensibile, calmo
è l’indiano. Diverso, il contrario
dello scozzese scontroso irruento
cattivo, a volte impietoso.
Peccato che non sia della mia era
poiché cerco un fac-simile
sulla piazza dei liberi giochi.
Dicono che non ci sono più uomini
in giro, né all’est, né all’ovest.
Nessuno parla più in latino
e il greco moderno non è greco.
Sono ambasciatore trasparente
di un’Europa esaurita, satura
di cortei con piagnoni isterici
che hanno rubato l’argenteria.
Continente dalla pressione bassa
che nessun dottore riesce ad alzare
perché il suo passato indorato
da un raggio perpendicolare
mormora estenuanti parole fisse
in un giradischi rovinato.
“Passa tutto, tutto passa, tranquilli”.
E i masnadieri all’assalto
del ponte levatoio ghignano
aguzzando enormi tronchi.
Sai cosa c’è dietro di te
a sinistra e a destra?
Guardati alle spalle.
Mariangela con stellina al mento
faceva allegria ai funerali
ottima compagnia ai matrimoni
prima di tornare alla sua famiglia
Napoli, Italia, tragedia continua
pesante, grottesca parodia
d’una prigione con sbarre di burro.
E la stellina è volata via
a cercare un posto lungo il viale
anche piccolo piccolo, laggiù
tra gli stelloni d’oltre mare.
Jannes è cresciuto ad Amburgo
distribuendo volantini pubblicitari.
Ha lasciato la cucina di Clep
e i tic da nevrotico, le pappine
erba e legna rubata.
E’ cresciuto nello spavento
tra brutti ceffi. Dai tre anni
è arrivato ai diciassette, incallito furbetto.
Ora è guastatore, riaggiustatore
di situazioni estenuanti
spia di se stesso.
Quando arriverà l’ultima ora
prenoterà una vacanza al mare.
Sospeso a mezz’aria nel bosco
mi sento sobriamente inutile.
Sto facendo una gita originale
e questa volta voglio vedere
dove mi faranno arrivare
gli obesi incappucciati, nascosti
sotto il muschio, coi funghi
e i parassiti delle piante.
Esplorerò la zona
prenderò le giuste misure
della distanza dal sole.
Mostri ancora in circolazione
fate attenzione! Ho fervida immaginazione.
Non a caso il resto del mondo
mi conosce quale gratuito sollazzo.
Gli stranieri s’accoltellavano dentro alla stazione
e i treni non partivano più.
In tilt il tabellone delle ore
i computers tra la sporcizia secolare
con uno scorpione che piccava i viaggiatori.
Quando due treni davanti a me
si scontrarono frontalmente
io decisi di scappare da lì
ma non riuscivo a fare il biglietto.
Le previsioni metereologiche
Non promettevano che catastrofi.
Ho preso al volo un autobus altissimo
sparendo, inghiottito dalla nebbia
e quando sono arrivato in cima
qualcuno mi ha messo al collo
una corona malconcia di mirto.
Ecco il parente povero
che piscia ancora a letto
accattone che fa il gradasso
quello che nessuno vuole attorno
perché ride troppo, è sempre allegro
campa con gli avanzi degli altri
e pensa ingenuamente a sé
si sente fortunato com’è
libero di dire la sua
al polo nord e al polo sud.
C’è anche lui a questo mondo
non si può non tenerne conto.
Lo incontrate ogni tanto
quando fa brutto tempo
non cambiate subito strada
non giratevi dall’altra parte
perché ad una certa ora
della vostra vita così ammodo
potreste aver bisogno di lui.
Guarda! E’ il parente povero
che non ti odia e non s’ammazza
e non ha nemmeno capito
d’appartenere ad una famiglia
ma d’essere il cane, il piccione
o il roditore più grosso.
Così contento d’esser vivo
che prima o poi verrà ucciso.
Andiamo solo noi. Vieni, o musico sublime
alla riunione della casa colonica
perché io credo in te, come tu credevi
alla consorteria, ai fratelli liberi, eroi
che in allegria aiutavano poveri e talenti.
Chiama a raccolta i vecchi testimoni
se conservi ancora attrazione per chi
suona pesante le tue note leggere
per il falso presidente, quattro beccai
la poetessa mascherona, gli architetti sommeliers.
E’ un anniversario solenne
ed hanno riunito il solito bestiario
da lancio di frutta e verdura
sopra il palchetto di periferia.
Se ti mostrassi a loro, lesti
ti metterebbero alla porta
scambiandoti per un mendicante
che ha dimenticato di star fuori
ai lati dell’entrata secondaria
quieto, in attesa della carità.
Quando finisce la recita
ogni sera celo il mio volto
per dire nel chiaro silenzio
che sono stato io ad uccidere
ogni parte di me che non risponde
ai continui appelli amorosi.
E gioco abbastanza disinvolto
a cercare compagnia nella notte
che scorre via su ruote e rotaie
dietro a miraggi fin troppo evidenti.
Esco in una metropoli immaginaria
senza trucchi, adolescente inquieto
che rincorre con stupore, a disagio
le cose scansate dagli altri.
Con il gusto d’essere originale
almeno per un breve tragitto
megalomane incurabile.
Non restano che stracci di noi
riciclati, lavati mille volte
che piaceranno a chi ne ha bisogno.
La luna piena brucia via
un’altra interminabile notte
in cui si nasce e si muore.
E’ sincero, non si ricorda com’era
quando non conosceva, non camminava
che dietro a profumi, a sapori
fino alla piena del grande fiume.
Così facile divertirsi! Spolvera la giostra
che gira con lunghe ragnatele appese.
Quanto tempo è passato
da quando ti sei svegliato sonnambulo
e non eri più nella tua stanza
controsole, coi volti di protettori
incontrati alle fiere, in chiesa, a scuola.
Nella decima infanzia, egli conosce.
E’ cambiato il teatro ambulante
e tu sei curioso di studiare le mosse
più calibrate, i copioni più complicati
scivolando sull’acqua cheta
nei pressi della foce ambrosia
dove svolazza una fauna tinta
che ti sembra di dover annotare.
Planetarius porta tutto pimpante
l’adorata cassetta degli attrezzi
una valigetta con i vizi e le virtù
d’un esploratore che s’ha da fare
ancora come sempre in formazione.
Nella nona infanzia scriveva grande
e non si vedeva nulla lo stesso
imparava a fare le difficili effe.
Era bravo in economia domestica
come ora, era qualcuno per aria
soffiato a forza dentro una finta nube.
Ricuciva le pantofole sfonde
e i guanti zeppi di buchi.
Diventò così abbastanza ricco
ma insieme alla strana bellezza
della povertà, l’alone bianco
che luccica più del diamante.
E la rete gli mangiava il collo
spegneva la carcassa acustica e visiva
infernale tormento d’attesa
bisognoso di linea, di corrente.
Puliva il pavimento con acqua ghiaccia
e segatura con puzza di lardo.
La scalinata conduceva in alto
dove viveva la sua confraternita
che rapiva bimbi in segreto
tappando le urla col cemento.
C’erano scheletri in ogni dove
di passeggini, carrozzine vuote.
Una sinistra stanza degli ospiti
aspettava la monaca perfida
dal naso all’ingiù, la bocca torta.
Nessun dubbio sulla sua vocazione
a vendicarsi della natura matrigna
di chiunque s’avventurasse là
tra mani ruvide di varechina.
La monacaccia della congrega
che leccava le ferite d’amore
col vetriolo, coll’olio bollente
mentre il suo confessore nazista
dava gli esami su Dio.
Nel vicolo del precipizio io bevo
e in quello della notte non spero più.
Quando arrivo al vicolo dell’aurora
non odo più i lamenti.
Mi domando chi incontrerò in giornata
che non sia più che scontato.
Forse l’infelice sdentato.
Oh, non c’è nessuno che mi piace
sono costretto a fingere, o cuore
e un giorno non batterai più.
Capita d’avere paura di dormire
anche ad un licenzioso libertino.
La penna e gli occhiali sono me
all’aria aperta, appena fa caldo.
M’aggrappo ad una virtù mesta
che vorrei finisse da un momento all’altro
per opera di qualche mistero
o del solito fato distratto, o merlo.
10.000 maschere in fila
sono i volti di chi comanda
presuntuosi contro disgraziati
o dèa dai dolci capezzoli
chicchi d’uva matura.
E’ saltato per aria il tempio
e nessuno potrà più pregare
sotto le tue 10.000 braccia.
Allarga un sorriso imperturbabile
sulla terra oppressa, sugli ignoranti
ricordando d’essere stata madre
in un tempo molto lontano.
Se devi farlo, distruggi pure
qualcuna delle maschere inutili
a sé, ad altri senza faccia
che vogliono fermare la tua mano
l’anima instancabile che hai
nonostante l’umano ghiribizzo.
Forse domani salteranno tutte
le 10.000 maschere in fila
ma l’erba ricostruirà il tuo tempio
con solide radici di rampicante
e qualcuno rinascerà a casaccio
lungo la scia d’una stella esplosa.
Chi ha disegnato l’inverosimile sogno
dove il clown sciacquava la parrucca
diventando una persona seria?
Cercate piuttosto dove è il mostro
tra di voi, migrantes. Fermatelo
poiché non vuole che mangiate
e dormite al centro dell’asilo perfetto
presso la chiesa senza croce
o invisibile che sia, campane di traverso
dove il battaglio non ha mai suonato.
Scricchiola l’asta della bandiera
mentre noi perdiamo a tressette.
Case coloniche abbandonate
per facili guadagni. Fantasmi a sguazzare
nell’ipotetica bonaccia del vizio.
Dal ponte stracarico d’oro
ti cerco, padre riservato e schietto
e mi domando com’eri, come stavi
tra tutta la marmaglia scema.
Più che il naso, io penso
tu avessi lunga la lingua
che pretendessi il passo dal potente
come fece il musicista nervoso
adorato in silenzio da qualcuno
a quella finestra adesso chiusa.
Quando me ne sto pacioso al sole
rimpicciolito di manie di grandezza
scruto con sussieguo il mio tempo.
Tu avevi anche una lingua eccellente
in me rimasta poco abbondante.
L’incubo non è che il giorno
suoni compatti, luci, volti
montati spiriticamente all’incontrario
immagini incastonate in un puzzle
che tu non potrai mai finire
poiché mancano gli ultimi pezzi.
Il male è bene rovesciato, e viceversa
e tu ridi o piangi come sempre
a seconda di cosa in quel momento
più t’aggrada, ingannando il pendolo.
Stai correndo in riva a 4 fiumi.
Il più grande è il meno conosciuto
due ne hai affiancati distrattamente
e l’ultimo è solo nato dalle tue parti
trascinandoti avanti e indietro
prima alla foce ed ora alla sorgente.
Il saggio direbbe che l’acqua
è il tuo elemento essenziale, zodiacale
ma allora perché non sai nuotare
e moriresti da solo senza salvataggio?
Come la terra hai bisogno del fiume
di stargli appresso soltanto un poco
e di sapere che vicino c’è il mare.
Non occorre che scappi come un coniglio
dall’altra parte del semaforo
tanto non ti saluterei. Meglio seguire
le previsioni del tempo, sedersi in treno
con l’indianino accanto senza turbante.
Amica del liceo classico “Plinio”
ora avvocato senza grido, ma con l’adipe
come la psichiatra della bulimia e dell’anoressia
vista col gorgozzule alla tivù locale
o il terzo segretario della capitale
col petto gonfio dietro ai capoccioni
o l’amico insciarpato alla palestinese
luglio, agosto e settembre nero.
Non ti ricordi più chi eri
le lettere che firmavi volentieri
con l’inconfondibile stellina rossa?
Hai paura di me come di un’ombra
di un testimone attendibile, scomodo
uno straniero che osserva bene
i posti da voi colonizzati.
Passa pure nel tuo imbarazzo
mi scanso con tatto. Hai contratto
il virus che hanno preso per strada
quelli incollati ai manifesti elettorali
ai gazebo dei vicini di casa
all’uccelliera su finto manto erboso.
Transita in un treno di piscio e merda
dal posto con la torre rossa, la chiesa gialla
il ponte levatoio circondato dalle paludi
dove han gettato il voceratore Saturnino
tra le ranocchie a comporre sonetti.
Treno con sorprese di poco conto
cercatori di tessere, idealisti ariosi
zappatori rincitrulliti, ladri, ciuccioni
arabi con valigette, signori schifiti
d’un tempo che fu, che ha da tornare.
Arriva in ritardo, gran frenata, craniata
a passo d’uomo fino a Santa Maria Novella.
Qui ci sono famose tombe, tripudi africani
cineserie, est-europa che già batte i bar
frullati, foto, pizzette, sigarette
il barbone filosofo e quello di partito.
Ecco, riprende il treno ubriaco, a sera
sbadiglia sul ponte, passato il cimitero inglese.
“La vita è finta”, pensa il guru
che non è mai andato alla Sorbona.
Lo schermo televisivo è dipinto
con i faccioni di tre pagliacci
ridotti in miseria dal circolo elettronico.
Essi provano a riparare le manopole
con mani di pezza lunghe lunghe
ma fanno peggio. I fili s’aggrovigliano
e i due muoiono strozzati, lingue in fuori.
Qualcuno dipinge una tomba e dei fiori
per i poveri disgraziati, poi
dipinge altri tre faccioni ridenti
che provano a parlare a denti stretti
poiché hanno le bocche cucite.
Non si sente niente. Sono senza sonoro.
I films sono altrove. Si può dipingere una palla
così guardiamo la partita di calcio.
Adesso disegnano campo e giocatori
ma si muove solo la palla.
Il resto dovete immaginarvelo
poiché si vive così nel novo mondo.
Non ci sono più idioti in piedi
a pigiare sul telecomando
né strilloni di questa o quella banca
a vendere quintali di cambiali
e nemmeno i loro grandi artisti
usati come pedine della dama.
L’omino dal berretto di traverso
inizia a riconcimare il terreno
e forse si tornerà a mangiare
masticando coi denti senza tremare.
Addio faccioni, mascheroni, coglioni.
La macchina rossa truccata
arranca ciondolante in salita
verso la fabbrica chiusa. E’ fallita.
Le maestranze non esistono più
tutti, tutti licenziati. Dài
metti la pentola nel fuoco
prepara la minestra bollente
poiché sta camminando sulle scale
la signora vedova morte
ed ha un fardello pesante
sotto il diluvio universale
questo vento che non smette di tirare
e scuote forte gli alberi.
E’ notte alta, ci sarà un funerale
alzati, prepara il banchetto finale.
Inutili agende vuote, nomi scaduti
nella patria col cervello ad acqua
con la coppa al matto spedito
a ricevere gli onori del poeta.
Compi pure ogni nefandezza
tanto nulla ti appartiene.
Dì ciò che più ti aggrada
tanto non esisti che per finta
in una capsula spaziale dispersa.
Sniffa i profumi che trovi
mescolati ai tuoi ritratti, quelli veri
che gli altri continuano a rinnegare.
Fai sciacquare i denti
a coloro che parlano troppo
in attesa d’essere i passeggeri
dell’ultima carrozza nel buio pesto.
Su mandali tutti al loro paese
tanto tu vieni dallo spazio.
E’ triste essere senza legge
fuori legge malgrado l’ala, cherubino.
Non so come farai così a crescere sul serio
con marmocchi e criminali ovunque, urloni
d’un sistema marcio alla radice
roso da vermi grossi come dita.
Io ho avuto tanto, tu niente
e mi chiedo come farai ora
libertino Aèrio, figlio d’altri per fortuna mia.
Gli umani brutti s’accalcano allo stop
europei ciarlatani, orientali chiassosi
infimi soggetti d’ogni dove, dalla steppa al deserto
mai visti prima dell’era disperata
esasperata, esaurita da squilli e bombe
dagli scioperi per andare a morire
tra immondizia, idiozia, puzza.
Con musica indecente, assordante
che ha perduto neuroni, ormoni
i ruzzi meravigliosi del 21 marzo
tra l’odio dell’11 settembre
e i funerali dell’11 marzo.
Oh, era bellissimo il mio rock
con il sangue alla testa, alle cosce
ogni volta prima della Pasqua
poiché prima mettevano le gemme
e le bestie si baciavano la bocca e il culo.
Così è l’amore a primavera
fino al caldo suadente.
Ho cercato un confessore segreto
ma ho trovato tutt’altra persona
un guardiano al circo acquatico.
Allora sono cresciuto in un secondo
buttandomi in mezzo a una strada
come attivista del profeta Slow
quello dell’ultimo reality show
arrivato ben presto al capolinea.
E’ così questa terra non mia
una volta qui, una volta là
allineata male dai suoi poteri
sull’unico asse del “tutti contro tutti”
o inginocchiata al nuovo altare
nella riserva etrusca invisibile.
L’importante è osservarla a distanza
non entrando nella stalla dei maiali.
Hai dato il voto sbagliato, all’ora
in cui i mondezzari pulivano Roma
con enorme spiegamento di mezzi.
Vallo a cercare adesso, se lo ritrovi
insieme a scorze di cocomero
nel quartiere degli studenti in festa
che non studiano mai, perché loro
sono gli artisti del secolo a venire.
Rinnoveranno il grande partito
delle cime più che tempestose
rifonderanno arti e mestieri
suonando la grancassa. La massa
di pronipoti in marcia, dal quadretto
delle zie nel salottino buono
a prendere il the, giocare a bridge
prima di scendere al circolino
con al guinzaglio l’ultimo cagnolino.
Oh, una delizia d’artista, un posseduto
il nuovo geniaccio secolare
da sbattere al centro del centrino.
E tu, povero cristo, che volevi
solo studiare la statistica, vai
a scavare tra la monnezza
ma non per trovare un voto
dato al partito immaginario
che non esiste nelle liste ufficiali
costrette tra Beppe il comunista buono
e Beppe il calciatore allo stadio.
Scava per mangiare, per vestire
come fanno i barboni, pardon
i clochards, è francese, è raffinato
una delle lingue dell’Europa ricca
che prende i suoi voti infami
mette da parte i soldacci
in banca, al sicuro, si fa per dire
per darli per finta ai poveri
e poi riprenderli, disperderli
in gigantesche feste turche e rosse
dimostrazione d’una democrazia uncina
alle porte del cielo sopra il passato.
Sopra la panchina della lega comunista
uscendo dalla multisala del socialismo reale
nel deserto dei consumi obbligati, rubo
la carta igienica dal cesso del mondo
come uno che fa la manomorta
e inganna chi gli si para davanti.
Piacevoli queste lande di Mortello
del vecchino oramai senza cappuccio
a spasso con gli amici centenari
appoggiati ai servi marocchini
sotto le logge degli architetti toscani.
Tutto passa, anche loro. Il monte de’ soldi
le casse etrusche nascoste sottoterra
da provinciali astuti che contavano
una volta più degli altri evoluti.
Ecco perché oltre all’incenso senza chiesa
brucia acuto nell’etere questo sapor d’oriente
una favola finita in salumeria.
E non ci sono più voti da dare
né tessere da fare. Resta da saltare
sull’ultima carrozza in oro massiccio
guidata dal re Porsenna in persona.
Vallo a dire alle bambine
di liberarsi da sole dagli orchi
perché tu sei occupato. Devi partecipare
all’ultimo gioco di società
che va di moda sugli arabi.
Esso ha un nome impronunciabile.
Vallo a raccontare ai ragazzini
che combattono contro il loro stomaco
insaziabile brontolone, vuol da mangiare
non la politica, l’Europa, l’Asia
ma uno schifoso panino, anche nemico
insipido, senza companatico
di nascosto per non essere uccisi.
Se Allah è così grande come dicono
lui sa questo, che ci aiuti.
Ero qui per me stesso. Non dovevo vedere.
Da qualche giorno lo sapevo
che sarei morto. Mi dispiaceva
ma non dipendeva più da me.
Speravo ancora, quando sono andato in aria.
La mia bara è in chiesa
al centro dell’Urbe, benedetta.
I
Eleggono un altro presidente.
Non c’è palloncino attaccato al filo.
Vola la portoricana col bassista
dalla riviera dei culi al vento.
Quanti paesi a questo mondo! Incubo
poi grandi risate contro i miei 15 anni
sbattuti al muro duro di Berlino.
Sacre inquisizioni, o presidente
per tessere l’ottima tela
che durasse, arrivasse agevolmente
da palazzo a palazzone.
Eri già imbalsamato in doppiopetto
stoccafisso da Nobel.
Lunga fila all’hotel di lusso.
E’ il giorno giusto nella capitale
con l’udienza papalina, formazione del governo
e l’omino dal glorioso cappuccio
in trasferta per favorire.
II
Io son qui per cantar maggio
dalla Corea quando era cattiva.
Ho voce atona che ben s’addice
ad una enorme spollinata
pidocchio più. pidocchio meno
pidocchio in volo, pidocchio a terra
polline addosso a te, a me.
Diretta da piazza Montecitorio
che attende nuovi smanaccioni
tra carta, flash e gavettoni.
Vai infine, o padre caro
riconsegna l’anima a Dio
ed Egli la farà uscire dalla miniera belga
da quella dell’Alta Savoia. Cucinerà le patate
con le uova sbattute come ti piacevano.
Caricherà la caffettiera piccola alla napoletana
e ti guiderà la macchina fino al mare.
Coglierà i garofani nei campi di Francia
raccoglierà tabacco, lo essicherà al posto tuo
farà le assicurazioni, dandoti la percentuale.
Andrete in moto al vecchio scatolificio.
Dio in persona staccherà i biglietti nella galleria
dove sono esposte le prove evidenti della sua esistenza.
Padre, darò le tue camicie più belle
a chi sai, perché gli volevi bene.
Continuerò a prendere il sole anche per te
a prendere in giro chi gioca a bocce
ad amare i gialli, i polizieschi
senza capire chi è il colpevole.
Mi piaceranno oltremisura le bestioline.
Ho trovato il mio paese, che già cercavo
quando tu avevi la memoria piena
e sapevi quali rischi correvo a scavalcare
i confini della nostra umile casta.
Vicino al tuo cippo, caro Mimo
le tue rose bianche, rosa, rosse.
Quelle arancioni muoiono con te
e non arrabbiarti, se con la mamma
cureremo il tuo orto alla meno peggio
badando vanitose al giardino.
Roma è sempre lì che aspetta
ogni tua debolezza, ogni ricaduta
dietro l’ipnosi dell’elefante di pietra
e nei giorni in cui t’ama
si fa perdonare le cose più atroci.
Ti guarda, finzione d’attore perfetto
t’avvolge mammoma, misura extralarge
come sapesse ogni segreto ben riposto.
Ti fa vedere come s’è conciato
il paese delle meraviglie
mentre studiavi e ti distraevi.
La vigna del figliol prodigo è distrutta
e il buono è reo confesso.
Passa un burka con gli occhiali spessi
e tu non puoi vedere niente
sperando sia solo stoffa che cammina
Belfagor scappato dal Louvre.
Invece sei in periferia, in Toscana
e tra poco giungerai a Gomorra
se il treno non deraglia prima
verso le torri del passato
i funerali di stato, le tue tavole
della legge visibilmente consunte.
Silenzio! C’è il bambino isolano
scalzo, coi piedi neri neri
che parla ai merli, alle gazze
alle basse nuvole tropicali
sopra gli alberi mediterranei.
Gli è favorevole il clima giallastro
afoso sole che ha ammalato gli altri
e fatto danzare lui come cucciolo
appena bagnato di saliva cosmica.
Io entro in rete sotto il suo nome
con l’altra me, quella senza nazioni
che sarà sempre com’era. Anche dopo
colei che fece dannare in vita
comari e madri casalinghe
potenziali criminali, fattucchiere
brutture d’ogni epoca e luogo.
E miriadi d’omini con la valigetta
sul circuito della caccia al tesoro.
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