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versione italiana
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La risata della luna
Sono le due della notte e due gabbiani bianchissimi volano tra le nuvole rosate dalla pioggia imminente.
Io vi annuncio che regnerò sopra gli ultimi frammenti di bellezza del pianeta. Non possiamo sapere se alla fine resterà solo la bellezza.
Sono la luna. Vi guardo da quassù mentre vi agitate a vivere, o umani. Voglio chiarire alcuni secolari equivoci e false opinioni che avete su di me per dissiparli. Non è vero che sono triste. Se mi osservaste più attentamente quando sono piena, non sovrapponendo il vostro sacco di tristezze al mio volto, potreste notare che le pieghe scure formano sulla mia maschera ora pallida, ora accesa, un'espressione alquanto allegra.
Io rido, strizzando lievemente l'occhio, ammiccando, complice distante delle vostre notti terrene.
Me la spasso quando nascosta sotto una fitta coltre di nubi qualcuno tra di voi mi cerca invano prima che piova sul mondo.
Non mi sento mai conciata ad esile falce come voi mi vedete ridotta dall'intero. Io sono sempre uguale internamente. Siete voi che ogni tanto avete le traveggole.
Finiamola anche con questa stupida ipotesi sul mio presunto amore impossibile con il sole o quello più ragionevole per affinità con il pianeta degli anelli. Uo sono per inclinazione una solitaria che ama immaginare le storie, un'onanista come voi definite chi fa l'amore con se medesimo.
Se mi concedo un amplesso al secolo è per non scordarmi quella sensazione così umana. E nascondo accuratamente quelle manciate di minuti tra le stelle più sconosciute, perché nessuno possa trovarne traccia nell'intero sistema solare.
Se mi fosse consentito da madre natura, vorrei che il mio pallore divenisse fatalmente orrifico per illuminare le stanze dei potenti aguzzini. Io creerei giochi d'ombra spaventosi da cui potessero materializzarsi fantasmi cinesi con lingua e cresta di drago dagli occhi gialli senza pupilla.
Rivolterei l'umano, poiché se lo scopo è la felicità e per essere felici spesso occorre essere poco umani, allora è segno che urge un nuovo equilibrio non più umano, gioco armonioso in su e in giù per le scale del vivente. Così le piante godono, ascoltando il 'Pater Noster' di Liszt o 'Il Diavolo Zoppo' di Haydn e crescono sotto la mia luminosità.
Bafometto
In una galleria elegante di Roma c'è una curiosa libreria che espone ogni giorno oggetti diversi per attirare l'attenzione dei passanti. Vi si possono ammirare di volta in volta piccole statuine dalla testa molto grossa, attrezzi di lavoro per la muratura e alcuni strumenti di precisione, pergamene antiche scritte a grandi lettere in lingue misteriose, libri che restano sugli scaffali, perché il proprietario si rifiuta di venderli.
Di notte si notano sagome oscure agitarsi vicino al mappamondo di legno, grande quanto un essere umano.
E una notte più strana delle altre, con una misera falcetta di luna in cielo, si fermarono lì davanti due belle bambine a sbirciare dentro i vetri appannati della libreria già chiusa.
Avevano l'aria di ritrovarsi dopo tanto tempo, come se qualche circostanza della vita le avesse tenute separate a lungo. Una era vestita come giungesse per incanto dal secolo scorso. Aveva un cappellino in testa alquanto ridicolo, ma il viso con lineamenti dinamici, moderni.
L'altra era proprio una contadinella con qualcosa di selvaggio nei capelli spettinati e negli occhi di un'innocenza torva.
"E' ora di finirla, cara Amy. Non è più tollerabile che non ci facciano restare dentro i nostri libri solo perché non andiamo più a genio a qualcuno. Occorre preparare un piano prima che ci cancellino dalle nostre adorate pagine".
L'altra, più calma rispondeva, scuotendo la testa: "Hai ragione, carissima Fadette. E che andremmo a fare noi nel mondo? Ho la vaga impressione che se non ci aiuta direttamente lo spirito di miss Sand, o del mio caro mister Dickens, qui ci buttano veramente in mezzo ad una strada".
Fadette aveva un'aria furibonda come nelle pagine del libro per bambini in cui era vissuta beata fino a quel momento.
"Io non cambierò di certo il mio vestito per seguire i tempi correnti".
E sagome oscure e fuochi fatui accompagnavano le sue parole.
Fadette tremò come avesse avuto all'improvviso un gran freddo.
"Le conosco bene, sono le bestie dei tempi brutti. Di te, povera Amy, dicono che sei noiosa, affascinata dai militari. E di me che sono una zotica che non trova la strada della città. In che diavoleria siamo mai capitate?"
Nella vetrina s'aprivano come sfilate dal vento le pagine consunte di due libricini. E Fadette, chiusa là fuori cercava di azzeccare al buio la sua pagina, quella con la figurina mancante.
Amy infilò in tutta fretta la sua, quella con la barca sopra le acque del Tamigi, salutando con distacco da perfida figlia d'Albione l'amichetta delle tre di notte.
Il Liescii
Stanotte alcuni viaggiatori del Grande Carro hanno rinvenuto i resti di un manoscritto antichissimo degli umani, risalente al 2998, alquanto malridotto, scolorito dai bizzarri venti di Saturno.
Nel mezzo c'è un enorme buco nero e ciò che si può decifrare a fatica è di appena due frammenti.
La sua denominazione è "LIESCII". Trattasi probabilmente del prosieguo di alcuni canti del nord ancora più antichi che narravano imprese mitologiche dei popoli glaciali di cui non avevamo più notizia dai tempi della discesa degli orsi bianchi verso il continente del sud. Una specie di suicidio collettivo, circondato dal più fitto mistero.
Uno dei nostri viaggiatori scienziati ha anche ipotizzato che si potrebbe trattare di uno degli ultimi esempi di autore umano, sopravvissuto alla scomparsa di personalità totale, avvenuta a ridosso del periodo in questione.
Eccone il breve testo leggibile.
Primo frammento. "Chi sono io per dire solo corbellerie? Mi presento, sono Liescii che rovescia le zolle e ti fa camminare in ogni direzione senza avanzare di un metro. Vivo dentro la terra ed esco visibile ai cani senza meta e senza padrone. Sono un fabbricante di recinti che tu, non potendo scorgere ignorerai, vagando con una leggiadra sensazione di libertà.
Hai qualche moneta in tasca? Hai una piccola mania, bevi e perdi il pensiero? Il mio potere di recintare arriva fino ai buchi neri, al gioco dei dadi, al labirinto. Non ricatto e non minaccio, ma non scambiate il modo d'esprimermi così teatrale con una qualche forma umana. Sono una bizzarra volontà di esistenza, un'illusione, un soffio di libeccio sui piedi in riva alle onde marine, una vanità che finge di mandare avanti le cose per farle tornare sempre all'inizio.
A volte mi travesto da ombrello bagnato e navigo oscillante tra la folla. In un certo senso proteggo, ma non so bene da che cosa. A volte sono un mazzo di tarocchi da cui escono solo tre carte, il matto, l'appeso, il bagatto.
Io sono Liescii, abito una zolla invisibile che non troverete mai. Camminerete, credendo di andare verso il Mediterraneo e starete sopra pensieri inutili, rientrando nel giallo del grano e nel verde dell'erba. Nessuno si ricorderà di voi.
Una volta giocavo con un flipper pieno di satelliti da colpire per ottenere il massimo del punteggio.
Inserivo un codice segreto. Melagrana, melocchia.... Ci siamo incontrati sopra il satellite triste. Dove vai? Vado a spasso. Io invece sopra il dondolo a strisce, sulla terrazza, vieni?"
Secondo frammento. "Sei brutto come un rospo, salvando l'anima!" urla la donnina che vende i porcini dentro ad un canestro di venco all'angolo del mercato coperto, quello dove al venerdì scaricano il baccalà che puzza come le sardine. Bisogna fare attenzione a dire male dei rospi, perché sono permalosi e se ne incontri uno con la groppa gonfia ti schizza il veleno e t'acceca. Questo è tutto quello che sapevo sui rospi fino all'estate scorsa. Ero solo nella notte a trenta gradi, oppresso da un cielo rossastro per la troppa calura.
Quando le voci degli umani sono sciamate andai in giardino a cercare un po' di sollievo e a dare acqua alle rose, alle ortensie. Ad un certo punto spingevo l'annaffiatoio e non sentivo la terra, ma qualcosa di più morbido.
Era lui, il leggendario rospone del torrente asciutto che mi chiedeva gentilmente di bagnargli il groppone.
La notte dopo è tornato con tutta la famiglia ed ha continuato a farlo per tutta l'estate, tra il grillìo, i pipistrelli tremolanti, le lumachine assetate.
Senza sforzo alcuno gli umani mi erano indifferenti come se stessi entrando in un benefico interregno.
"Se s'accorgono che io parlo con te, caro il mio rospo, io sono spacciato!"
A volte la solitudine fa brutti scherzi e così mi parve di sentire una voce stridula. "Il mio nome è Cagliostro ed ero un massone perbene di tempi lontani. Sono ormai un rospo senza più illusioni, ma chiamami signor conte, per favore".
Stavo bene al riparo dal mondo. "Fa' le valigie, vai all'incrocio dei venti nei pressi di un filare di casupole con una torretta.
Là troverai un fantasma e forse anche un vivente", mi disse quello.
Izba
Ci sarà un posto senza l'essere umano. Io devo trovarlo, trovare un'izba disabitata. Il pensiero s'era fermato da alcuni giorni su questa suggestiva ipotesi apocalittica, tanto da non riuscire a leggere, a scrivere.
Partii all'improvviso senza valigie per il nuovo mondo, alla ricerca del mio posto abitativo su questo pianeta arrugginito e senza anelli di luce.
Per diversi mesi mi spostai di giorno e di notte, senza trovare nulla di veramente dissimile dalle cose già viste. Una mattina arrivai ad una strana frontiera con degli omini che suonavano una specie di inno molto ridicolo, come alle antiche fiere di paese, battendo a turno ora le mani ora i piedi fragorosamente.
"Che paese è?", chiesi con tono partecipe e divertito. "Come che paese è, non si vede? E' il posto delle evanescenze, famoso per distribuire generosamente terra e cielo, visto che non costano nulla", mi rispose il suonatore di trombone dalla voce intonata al suo strumento. "E cos'è prezioso in questo posto?", domandai insospettito e timoroso.
"La merda", rispose senza esitare il suonatore di grancassa, rubicondo e fragoroso esattamente come il suo strumento.
"E' il contrario del mondo che mi lascio alle spalle", pensai rassicurato. "Finalmente ho trovato un posto che fa per me, dove inizierò una vita nuova, fatta di cose piacevoli e basta".
Rimuginai a lungo tra me e me: "Non dovrò più contare i soldi, né dar loro importanza per difendermi dalla volgarità dell'uomo. Potrò scrivere e pensare liberamente senza rischiare la galera o il manicomio. Converserò al tramonto con gli uccelli prima che tornino ai loro nidi, aspettando che la luna nera ridiventi a poco a poco luna bianca o visibile."
Ero felice. Quella notte sognai campi sterminati d'erba soffice e profumata, qualche bestia, una mucca, un corvo, una lucciola, poc'altro.
La densità umana era risibile e costituita per lo più da ombre di artisti morti e fanciulli zingari dagli occhi gialli. Nei giorni successivi decisi di tenere una specie di diario, anche perché a causa dell'uniformità di paesaggio e del clima primaverile stavo appisolandomi, perdendo la cognizione del tempo.
Non avevo con me l'orologio rimasto appeso ad un chiodo al muro della mia antica dimora.
Non possedevo una bussola, avanzavo a caso, seguendo gli istinti.
Le bestie non erano socievoli in quella terra. Rubavano il cibo e scappavano velocemente.
Feci amicizia con un omuncolo che addomesticava le tartarughe e si divertiva ad ordinarne interi eserciti, che faceva sfilare come autentiche parate militari.
L'ometto era un generale in pensione di una regione ignota della vecchia Russia che s'annoiava molto dopo l'ultima guerra di frontiera, combattuta nelle regioni del nord. Parlavamo insieme degli ultimi conflitti mondiali e avevo la netta sensazione che il generale voleva spacciarsi per ciò che non era. Un pacifista, che celava un'incredibile nostalgia delle armi.
In un giorno uguale agli altri, il piccolo bellicoso s'accasciò a terra morto stecchito davanti a me e alle sue amate tartarughe, facendo segno con l'indice di proseguire, ma per dove?
Le tartarughe scapparono lentamente in ogni direzione ed io restai di nuovo solo.
Non udivo più le allegre musichette della banda di paese e ne dedussi d'essermi spinto molto oltre nel mondo nuovo. Aspettavo con fiducia qualche sorpresa.
Intravidi una donna scura scappare verso l'orizzonte, come volando. Ebbi un sussulto di terrore indecifrabile come avessi visto un cadavere muoversi di scatto.
Gli animali attorno presero a morire assieme alla vegetazione fino a che ci fu solo il deserto.
Io volevo vivere appartato, sognando me stesso. Invece ero arrivato alla casupola fiabesca dal tetto sfondo ed aveva piovuto da poco.
Mi sentivo male ed una signora pallida ancora giovane mi cantava qualcosa come per cullarmi.
Number
La mia specialità è quella di segnare i ritmi curiosi che nascono ogni giorno attorno a me e a volte non cessano nemmeno di notte. Io ascolto di tutto. Campane, citofoni, sveglie, telefoni, tubi dell'acqua che perdono.
Numeri che si sovrappongono, rumori improvvisi di cellofan, carta, urla di umani arrabbiati, pianto di bambini e di donne esaurite, grida del vento che opprime le piante più deboli.
Quando ascolto la radio o guardo un programma televisivo, io non segno il significato dei discorsi, ma il ritmo delle parole, le pause del silenzio, i buchi sonori e visivi che ogni tanto sorgono per sbaglio e sono l'illusione del silenzio, poiché dietro c'è un enorme rumore agitato.
Sono un tipo che per andare fuori di senno deve quasi svenire. Rendetevi conto che sono un pratico, un matematico in calcolo perenne.
Non riesco facilmente ad uscire dalla ragnatela dei rumori attraverso cui viviseziono ogni ora, ogni azione da compiere nella mia organizzata e prevedibile giornata.
Chi vuole fantasticare deve organizzarsi nei minimi particolari. Non fatevi illusioni sulle immaginazioni che io ho per mezz'ora già messa in conto.
Ho accumulato dei tic dovuti ai calcoli che saltano e non tornano, a contrattempi. Quando qualcosa turba l'ordine perfetto dei fatti miei, devo freneticamente ricostruirlo da capo, comprendete?
E' necessario calcolare bene ciò che conta per la sopravvivenza, attenersi a certi numeri, ai codici calibrati, contro l'entropia che dilaga furtiva.
Io annoto così le giornate. Un'impressione arriva alla mente, segno ciò che ho chiaramente provato come dovesse sfuggire col respiro o arrivasse qualcuno a suonare un devastante campanello d'allarme.
Sta di fatto che la mia vita è piena di squilli improvvisi che annientano felici torpori. Suoni d'ogni specie, chiamate insolite e imprevedibili.
Ho imparato ad abbinare lo squillo del telefono o del citofono a certe mansioni fisse, così mi scomodo a rispondere solo se ne ho voglia, perché in mezzo a tanti stimoli sonori sono pochissimi quelli utili, due o tre e i restanti inutili, noiosi, improduttivi.
Io adoro i suoni e i numeri che servono a qualche cosa, quelli che comandano nella loro purezza e sono lenti se l'umano li sa prendere per il verso giusto, ma divengono sbagliati, scivolosi come anguille, imprendibili, irraggiungibili nell'angoscia di un'ultima chiamata.
Il mio nome è Number, io sono Number.
Carta
Era uscito il numero quattro. E' pericoloso.
Se il giocatore vuol essere fortunato e avere una possibilità di vincere deve chiedere ancora di giocare. La partita durava oramai da una ventina di ore ininterrottamente e tutti i giocatori erano stravolti, sconfitti dalla stanchezza. La metà di loro voleva tornarsene a casa, in famiglia e l'altra metà rinchiudersi in un buco sicuro per dormire fino alla prossima giocata.
Soltanto un giocatore sembrava voler rimanere lì per sempre, fino alla fine dei suoi giorni.
Egli perdeva in continuazione e non aveva neppure l'aria di un uomo fortunato in amore, tutt'altro. Sembrava uno che si trovava lì dopo aver fallito l'arruolamento nella legione straniera, perché troppo disperato, incapace di sfogarsi con un'arma in guerra contro il nemico.
All'entrata della bisca lo avevano interrogato a lungo sulle sue condizioni finanziarie, temendo che in caso di perdita cospicua non avesse in alcun modo saputo provvedere a saldare il debito o si fosse ucciso repentinamente.
"Devo trovare il modo di fregarli tutti", pensava tra sé e sé il giocatore solitario, "e devo farlo prima che pretendano il risarcimento per le mie perdite."
"Signori," prese fiato, "Non è come voi pensate. Ho un aspetto malsano perché ho avuto tante avventure e la mia esistenza è stata tutt'altro che monotona, piena di incontri, di amori e di giocate vincenti. Ho girato il mondo. Nei posti sperduti dove non conoscevano le carte ho giocato gratis con l'unico scopo di imparare a quei poveretti il sottile piacere dell'azzardo.
Mi sentivo bene quando di notte facevo lunghi solitari quadrati o circolari, cercando di chiudere fino all'ultima carta senza peraltro riuscirci.
Ero sfinito da me stesso, dal passato, da quello che ero stato e non mi ritrovavo che a spezzoni come un manifesto pubblicitario scritto male durante anni senza conversazioni intelligenti e incontri entusiasmanti.
Giravo a vuoto come una trottola mossa da una mano ammaccata. Ripartivo caricato sempre con il mio mazzo di carte preferito, mettendo in cima un dieci e in fondo un nove, aspettando che nel mezzo ci fossero i numeri vincenti.
Era un'abitudine piacevole che mi faceva mescolare di continuo alla ricerca di nuove soluzioni di gioco.
Volete che prosegua ancora nel mio racconto o ci facciamo una giocatina?"
A questo punto la sala semivuota riprese un po' di vitalità e gli avventori si risvegliarono come da un incantamento.
Ripresero a giocare una strana partita senza che nessuno rischiasse eccessivamente, meno che il nostro. Si vedeva chiaramente la sua ferrea volontà di rovinarsi ad ogni costo.
Andarono avanti così per un paio d'ore con una cinquantina di colpi di scena che fecero sorgere a qualcuno lo strano dubbio di un grande bluff da parte di quella specie di fallito, poiché si salvava sempre per un pelo.
E comunque il nostro giocatore era fermo su un precipizio con un piede all'avanti e uno all'indietro.
Gli ultimi coraggiosi si defilarono, ponendo fine alla interminabile notte.
Il giocatore riprese a fare i suoi solitari nell'attesa di rovinarsi perbene alla prossima occasione.
In sala entrarono le donne delle pulizie, cantando. Si facevano cenno tra di loro come a deridere quel poveraccio che pensavano troppo ubriaco per alzarsi dal tavolo da gioco e andarsene via come tutti gli altri.
Il giocatore chiese da fumare ad una femmina che stava impestando il locale di fumo e di sudore da corpo asmatico sfatto. Rimediò un paio di sigarette, promettendo di andarsene all'istante, tanto il gioco della notte era finito e sarebbe ripreso solo la notte successiva. Andò a pisciare e poi s'avviò caracollando verso l'aurora mite e fuligginosa, umida e invisibile.
Gli spazzini pulivano il mondo in un tripudio di lazzi e stornelli.
4 necrologi
I
Dormiva di tanto in tanto, quando smetteva di battere sui tasti del computer o sullo schermo cominciavano a confondersi le immagini per la troppa stanchezza.
Il suo lavoro era quello di creare nuovi modi di lavorare per gli altri. Per fortuna non s'annoiava mai. Fumava, ogni tanto si schiariva la voce, tossiva, ma non se n'accorgeva.
Da bambino era magrissimo e scuro, sembrava un po' triste, ma lui non s'accorgeva nemmeno di quello, preso com'era dietro a costruzioni di plastica, puzzle, numeri aritmetici.
Voleva studiare fisica, poi studiò così a fondo la filosofia greca che i suoi libri erano sottolineati a più colorazioni con riassunti e note laterali fino a che non si poteva leggere più niente.
Ma lui si ricordava ogni parola.
Provò a restare nella sua famiglia, provò ad avere una sua famiglia. Poi lavorò e basta, pensando di non essere molto portato per quel genere di situazioni. Osservava gli esseri umani con divertimento, meno quando non lavoravano bene e sprecavano la loro vita in cose banali e senza senso alcuno.
Non posso sostenere che avesse scopi precisi, ma sono sicuro che seguisse un'onda lunga, ambizioni, contando solo sul lavoro che aveva svolto il giorno prima e quello dopo e dopo ancora.
Era goloso, adorava mangiar bene, beveva pochissimo. Aveva piedi corti rispetto alla notevole altezza, con unghia lunghe e giallognole che tagliava di rado.
Non si curava molto, ma gli occhi erano sempre vivaci come quelli del bambino che era stato. Le mani erano piccole come i piedi.
II
Era nata con i grilli in testa. Aveva il bisogno continuo d'abbellire e rendere epico ogni più futile avvenimento. Aveva amori più o meno immaginari, qualcuno vero, per quello che possono valere in una vita completamente inutile come quella della rosa e della farfalla.
Trascorse un'infanzia incantata, un'adolescenza estrema e poi più niente.
Inventava ogni giorno congetture perfette per tornare sui propri passi e lasciare fuori il resto del mondo ruotante.
Non c'è una definizione per un essere del genere, nemmeno in occasione del suo necrologio. Un gipsy?
Forse si può dire che di recente aveva strappato miriadi di lettere e cartoline, pur conservandone tre scatole intere. Scritture frivole e insignificanti, dal Messico, dal Brasile, dal Giappone e da ogni parte d'Europa.
III
Era un uomo che rassomigliava al piccione.
Avanzava impettito come ballasse il tango, piccoletto con una barba abbastanza lunga che gli dava un'aria saggia.
Ma gli occhi erano da pazzo e amava le storie incredibili. Faceva di tutto per conquistare una donna, sfiorando a volte il grottesco. Ne aveva avute d'ogni genere e di ognuna si ricordava qualcosa.
Non tollerava d'esser respinto, abbandonato da una donna che aveva posseduto fisicamente. Ne faceva una tragedia senza fine, un terribile affronto personale dal quale non sapeva liberarsi.
Come se Dongiovanni si fosse crucciato se la lista delle conquiste s'assottigliava.
IV
Il mostro è diventato buono. Dopo un'intera esistenza dedita alla trasgressione ad ogni costo, rigorosamente perpetrata da mane a sera, chiuso nelle sue stanze buie e umidicce, egli è divenuto buono, sentimentale, rispettoso di leggi e divieti, come dovesse rimediare al tempo malsano.
Ha vissuto gli ultimi suoi giorni da spirito pietoso, facendo attraversare la strada alle vecchiette.
In sua difesa si può dire che non l'hanno mai sorpreso mentre sbranava una sua vittima.
Stelle
Erano pur sempre belle anche se non cadevano più, tantomeno quando gli umani se l'aspettavano, come nelle calde notti di San Lorenzo e di Santa Chiara d'Assisi.
Tutti stavano col naso all'insù, arrampicati sui colli, armati di coperte e binocoli. Ma nulla compariva sul tondo nerastro se non piccolissimi fuocherelli appicciati alla rinfusa più a valle da contadini ubriachi.
Dov'erano andate a finire le stelle? Non la grande cometa dei profeti, né il pianeta Venere molto spesso scambiato per una grossa stella diamantina, tanto è luminoso alla vista. Noi siamo alla ricerca delle stelle comuni, quei puntillismi ora bianchi ora gialli a volte rossolini che fanno felici i bambini, gli innamorati, gli illusi, i solitari e la luna sempre troppo muta e fissa in cielo. I brillii sopra la montagna innevata che annunciano giorni di pan di zucchero. I luccichii sul mare che baciano l'onda increspata e guidano i marinai da un porto all'altro del mondo.
La buona stella, colei che ogni essere invoca, poiché molte cose sono dovute al caso buono o cattivo e la buona stella protegge dall'accanirsi d'avvenimenti contrari, riconciliando chi è triste con i suoi falsi nemici.
Chi non ha mai parlato loro o consultato le stelle è un povero disgraziato, perché s'è perduto una dimensione sacrale.
Io ho deciso di interrompere ogni attività e pensamento almeno per un po' e mettermi sotto un albero ad aspettare che riappaiano le stelle.
Dove sono sparite? Ce ne sono ancora a miriadi in qualche pezzo di firmamento sopra la terra. Io voglio andare a cercare le stelle con uno di quei sacchi dove stanno ben riposte le patate. Voglio catturarle solo per me. E se son troppo grandi le sgranerò un pochino, tanto rilucono lo stesso.
Non venderò mai ad alcuno e a nessun prezzo le stelle che troverò. Me le godrò da vecchio in mezzo ad un campo, lanciandole per aria a manciate perché così morirò come son nato.
Eccomi alfine con i sacchi pieni di stelle. Sono arrivato sin qui, dove non conosco nessuno e chi conoscevo l'ho dimenticato strada facendo.
Son sempre più solo, organizzo nei minimi dettagli la mia giornata con il timore di non arrivarne in fondo prima o poi.
Non so quali percorsi contorti m'abbiano condotto in questo posto poco frequentato, lungo un viale di magnolie vecchissime, con panchine di legno quasi tutte rotte.
Chi passa distratto non fa caso ai miei sacchi appoggiati l'uno sull'altro, legati con i fiocchi da regalo, ma io temo ugualmente i ladri.
E' tutto ciò che possiedo di prezioso. Se mi derubassero non mi resterebbe niente.
Fortuna vuole che nessuno sappia. Posso morire tranquillo.
Spostamento
Ho fatto un sogno alquanto complicato. Una sequela di situazioni altamente comiche probabilmente interrotte da un bisogno corporale mi faceva sbellicare dalle risa. Io continuavo a ripetermi, "tu stai dormendo, ma quando ti sveglierai, ricorderai tutto". E continuavo ad annotare ogni particolare per potermi da sveglio sbellicare dalle risate.
Niente. Quando il corpo s'è alzato, pluff, più nulla.
Ho ancora la bocca ridente.
Io non so dove mi trovo. E' la pura verità.
Il mio paese, la mia casa sono altrove verso un fitto bosco che termina all'improvviso in vaste distese d'erba e fiori. Ricordo un suono bucolico che diventa metallico e cambia timbro e colore.
E in che posto sono capitato adesso? Questo è complicato sul serio. Vuoi vedere che qualcosa, qualcuno mi ha spostato mentre mi gingillavo allo specchio?
Devo trovare il modo d'uscire di qui. Forse tornando a dormire. Ho provato e non funziona. Comincio ad avere fame e sete.
Vogliono che io muoia per sfinimento, ma hanno fatto male i loro calcoli. Adesso esco e vado a vedere fuori. Poi guarderò in queste stanze vuote.
Qui non si diverte nessuno. Le persone stanno alla finestra guardando senza parlare. Poi escono e fanno finta di non vederti, correndo trafelati al supermarket. Lì litigano per arrivare prima a pagare.
Qualcuno vestito a festa va a spasso col cane e parla da solo o lecca un gelato e finge di parlare con un cane o blàtera ad un filo invisibile.
Di sicuro lavorano il minimo indispensabile per poter di nuovo correre alla finestra a spiare, poi correre a litigare per pagare al supermarket e quindi correre a fingere di parlare con cane o senza. Ognuno ha perso la piccola bussola fissata da qualche parte del cranio.
Non che la gente del mio paese fosse meglio, anzi.
Lì ogni persona credeva di sapere tutto della vita e te lo diceva ogni santo giorno e, se non lo ripeteva più volte ci stava male.
Invece di amarti prendeva di traverso a farti il malocchio.
Anche lì nessuno lavorava volentieri, ma almeno parlavano, parlavano e parlavano tra di loro per ammazzare il tempo. Due popolazioni, una sola razza. In fin dei conti non ho subìto grave torto nel ritrovarmi misteriosamente qui senza ricordarmi nulla del perché e percome io sia qui.
Torno nelle stanze vuote e saggio il muro con i pugni. C'è una televisione alquanto strampalata, un vocabolario di lingue sconosciute che parlano d'un posto comico, velocissimo, con i cavalli e i missili.
Le persone sembrano di ottimo umore e viste da lontano sembrano lavoratrici instancabili.
Attraverso films e telefilms studio altre leggi, assassini, ladri e vari modi per tenere duro in casi estremi. Sono curioso. Se mi riaddormento e sogno ancora invece di tornare indietro io vado in questo posto. Chissà, provo a lasciarmi andare.
Tre morti
Il primo mi spaventò, perché non lo vidi morto, ma mentre stava morendo con i figli attorno ad urlare che era morto.
Ma lui con un filo di voce nella stanza in penombra diceva di no, vomitando sangue a fiotti. La stanza era già un'enorme bara oscura da cui scappare a gambe levate, facendo finta di niente.
Ma quando mi dissero che era morto come se fosse la tragedia più grande del mondo mi spaventai, perché non avendolo visto ben morto per me era vivo dissanguato e sarebbe tornato quando voleva tra di noi da un posto sconosciuto e orribile.
Quella notte feci dormire mia madre di guardia sul tappeto ai piedi del mio lettino, perché impedisse al non morto di venire nella mia stanza.
Il giorno dopo mi misero calzine e vestito scuro per il funerale. Ed io ero contenta mi davo un sacco di arie, perché mi sentivo più grande.
Fino a quel momento non mi era mai stato permesso di portare calze velate e la maglietta nera aderente mi faceva un petto che ancora non avevo.
Il secondo morto lo baciai sulla guancia pelosa. Non avevano fatto in tempo a sbarbarlo.
Aveva la testa fasciata da un fazzoletto, perché il sangue era uscito dalle orecchie.
Era ghiaccio come un frigorifero, ma tutto umido di sudore per la gran fatica del morire.
Il contatto di un attimo mi trascinò in un vortice abissale, nell'assenza totale, nel niente. Io ero viva.
Quella sensazione di cattura verso il basso mi ha fatto capire una volta per tutte dove si va a finire tutti. Voglio dire dove sicuramente va a finire il corpo e ciò che possiamo vedere.
Il terzo morto lo avevo visitato prima del decesso, quando con infinita pazienza sopportava il dolore in una corsia mista d'ospedale con la televisione a tutto volume per una partita di calcio, mentre in molti facevano il tifo a urli e spergiuri.
Ricordo che per isolarlo pietosamente dai vivi gli dissi, "E' dura", riferendomi naturalmente al tragitto che stava compiendo in simili condizioni, senza un minimo di silenzio, di solitudine per ricordare.
Lui mi guardò con aria attonita come non avesse capito quello che volevo dire, ma annuì.
Credo non volesse morire, che aspettasse un miracolo per stare un altro pochino in questo schifo di mondo.
Da morto era pacioso e appagato come un pupo che dorme. La vedova urlava come una ossessa e per farla stare zitta, io che la conoscevo appena le posai la mano sul capo, pensando che tutti in fin dei conti dobbiamo morire in un modo o nell'altro. E che sarà mai.
Déja vu
C'era una stanza illuminata, lontana dai miei giorni attuali, illuminata di rosso. Ed io ballavo una canzone campestre, rimettevo quel disco che saltava sopra un giradischi vecchio, saltava come una frittella messa lì a friggere.
Ed io giravo fino a sentirmi girare la testa, fino ad essere sul punto di svenire.
Allora mi sdraiavo sopra un divano consumato anch'esso, rosso di quelli che si mettono per arredare le case di campagna per non buttarli del tutto.
Era sbucherellato in qua e in là, ma a me pareva bellissimo, al centro d'una stanza che io consideravo il mio sotterraneo personale, perché mi rifugiavo lì dai piani alti dove c'era in corso una festa continuata con molte persone e cibi, bevande, spinelli, quanto altro, in un tourbillon di conversazioni su cosa avremmo fatto avanti negli anni, quando saremmo diventati in qualche maniera anche noi grandi. Avevo un limite temporale di sopportazione per quelle lagne in cui tutti recitano la parte che più aggrada al momento, per orgoglio, ambizione, rivalsa, desiderio di sopraffazione più o meno contenuto. E quello era il vero sballo.
Allora mi portavo qualcosa da mangiare o da bere e scendevo lì sotto dove in genere, non so perché, non andavano mai nemmeno i proprietari della villa. Eppure quel seminterrato aveva delle finestre piccole che davano direttamente sul bosco. E una porticina, quella di Pollicino, che conduceva sempre di nascosto in giardino anzi, nel punto più bello dove c'era il gazebo, luogo misterioso e frequentato dai folletti che facevano innamorare e sbaciucchiare le persone.
Ma il mio rifugio antirumore, insonorizzato, antichiacchiera era più misterioso del gazebo che tutti vedevano, ma facevano finta di non vedere per ipocrisia, perché non stava bene riferire su ciò che succedeva lì dentro.
Sottoterra entrava dopo me una persona speciale, buona, strana, dolce, sottomessa, verde, bellissima o solo adolescente come me, dagli occhi del nobile Husky polare. Arrendevole lì, altrove spietato. E usciva subito dopo.
Genere umano
Se ne imparano di cose nell'arco di un sole e di una luna. Passando dal vago sogno d'un ipotetico passato di cui sono il solo depositario e testimone non molto attendibile e tantomeno verificabile, a queste ore in sequela, visionate comodamente seduto ad un teatrino di comparse, suggeritori, addetti alla manutenzione e pulizia del luogo. Vedo gli avanzi di ogni pasto del giorno prima, mentre qualcuno rimangia ancora e getta gli avanzi.
Aprono i mercanti di negozi al chiuso e bancarelle all'aperto, si profumano i banchieri e puzzano più di prima i ladri e gli zingari travestiti da turisti per sfilare meglio i portamonete e quanto altro.
Si svegliano i barboni e vanno ad occupare solerti i posti abituali per chiedere la carità e avere compagnia senza essere troppo notati.
Passano i controllori della legge e le ambulanze per chi già sta male di buon mattino.
E' la stagione senza scuole. Tutti vanno alla spiaggia, meno chi è in carcere o al lavoro.
Dentro al treno dormicchiano ancora monache, donne delle pulizie, impiegate, casalinghe con cane, figli e altro animalame lasciato in una stanza ad aspettare la spesa, davanti al televisore o alla finestra.
I vecchi vagano già di buon mattino con l'aria attonita di chi è stanco, ma ha paura della morte.
Allora cercano di attaccare discorso con qualcuno o stare semplicemente nei paraggi dei viventi.
Così se arriva la fine improvvisa non sono soli e ci pensano di meno.
I potenti si fanno vedere poco, perché devono fare così la loro parte. Se proprio ne vedi qualcuno, costretto da banali incombenze tra i propri simili, egli si mette in coda al vagone, all'angolo nascosto della via, distante dal semaforo e quasi non respira. Ma tutti sembrano scrutarlo. Lo spoglierebbero di quei vestiti e di ogni oggetto che ha addosso, lo mangerebbero senza metterlo a cuocere come facevano con gusto gli antenati.
Negli ospedali qualcuno aspetta di uscire, qualcuno finisce chiuso nella cappella al primo piano.
Dopo le ore paciose della sveglia, inizia la grande corsa rumorosa e tutti cominciano a questionare, urlare, a litigare fin verso l'ora in cui si comincia a mangiare.
Poi si ricomincia con più lena di prima, fino al buio, e naturalmente si rimangia in qua e in là. Chi ha i vizi ne fa sfoggio ampiamente fino a che, o ci si riposa ancora, o ci si diverte di nuovo in qualche maniera. Dopo si dorme per ricominciare dall'inizio. Naturalmente chi si risveglia, si alza ancora. Qualcuno non lo fa più.
E quando ero al mare, ho visto corpi enormi e nudi, con pance che sballonzolavano come orecchini lunghi. Culi gelatinosi e seni in putrefazione che sprofondavano sulla sabbia. Ma tutti ridevano, giocavano e pisciavano nell'acqua, con grande fragore d'onda.
Erano i beati senza bombe, senza incidenti, senza omicidi, suicidi, senza catechismi e moribondi appresso.
Almeno nel momento che io li osservavo.
E il mare sgranava gli occhioni acquosi, commossi e puzzolenti di pesce ad ogni agosto che si rispetti, su quei vecchi corpi grassi e magri, rugosi come tronchi o lisci, oleosi, vegetali dall'inconfondibile lezzo aromatico.
Sopra teli da bagno sudaticci, arruffati con ansia sopra i lettini, sotto ombrelloni bucati, dentro casotti con piatti, bicchieri sopra il bidè, mutandoni stesi a scolare con la pastasciutta.
E il mare osservava tutto attentamente, inarcando le sopracciglia ondose. Vergini improbabili, mandrilli di zone periferiche, vecchie lesbicone respinte da poveri maschi esasperati, adolescenti dei paesi ex-comunisti deportati in questi nuovi campi di concentramento, a pulire i rifiuti dei disperati che prendono il solleone come una missione, fingendo di divertirsi da matti a friggere come uova strapazzate, sbruciacchiate.
E mentre i vicini schiantano dall'invidia, arrivano ambulanze a frotte per prestare i primi soccorsi. Qualcuno crepa sotto il sole, mentre corre forsennatamente e abbronzatissimo.
Gli adolescenti dell'est cercano un lavoro qualsiasi per l'inverno.
Verso fiume
Sono diversi giorni che scappo in ogni dove, facendo i salti mortali per non avere a che fare con me.
Ho cambiato i ricordi, la calligrafia un pochino, la bicicletta, ma la musica è sempre la stessa.
A fatica ricordo quel giorno in cui scappai di casa con la bici rossa e vecchiotta, il mio piccolo registratore tascabile con "Born in the USA", e una lattina di birra.
E siccome dovevo dire addio alla vita fin lì vissuta, andai al cimitero di campagna dove non ci sono più i miei nonni paterni, ma ci avrebbero voluto restare, perché da vivi avevano una fattoria con i campi proprio accanto ai morti. Altro che il cimitero di città dove li hanno messi ora.
E poi, pedalando come una forsennata, andai giù fino alla fattoria dei nonni materni, anch'essi defunti da poco.
Mi sembrava una cerimonia necessaria, quella di chiedere la benedizione prima di lasciare per sempre la loro terra.
E parlavo a lungo, domandando tante cose, la loro forza vitale, il coraggio, la pazienza, qualità che non ho in abbondanza.
Dopo aver bevuto la mia birra ripresi a pedalare, ma presi la mira di traverso per partire, poiché la catena s'inceppò come fosse stata tirata verso terra da mani possenti.
Strappai i jeans e la ruota di dietro non girava più.
Ero da sola in aperta campagna. Nessuno passava e le prime case abitate erano molto distanti.
Non ricordo più come, per miracolo, feci ripartire la bicicletta con le mani nere di grasso e il batticuore.
Pensavo che fosse un presagio, un avvertimento a restare sempre come ero allora, là, tra le insidie della metropoli. A non vergognarmi della mia origine e di ogni magia della mia povera infanzia.
Tanto i mostri sono sempre in agguato ad ogni latitudine e bisogna imparare a sconfiggerli.
Ho cambiato qualche involucro, ma oggi mi sono ricordata perfettamente che cosa sono, potendo vantarmi un po'. Sono sempre uguale, la musica è quella, stesso spirito, stesso entusiasmo, azione e ingenuità.
Da vigliacca correvo per sfuggire al tempo che è passato lo stesso, fregandosene altamente di me.
Non m'ero accorta d'esser così grande all'anagrafe.
E ricordo che mentre scendeva la sera e riparavo la bicicletta, pensavo che in fondo io non appartenevo a niente e a nessuno, nemmeno a quelle zolle che mi facevano un po' paura, invocate nella loro consistenza oscura.
Mendici del Vaticano
La nonnina russa ha una gonna lilla e un mantello marrone in ogni stagione dell'anno, grossi scarponi e fazzoletto incolore in testa. E' inimmaginabile che sia stata giovane in un lontano giorno della vita sua.
C'è l'omino con una gamba sola che fugge veloce a chiedere la sua carità. Lui fugge anche coi quaranta gradi, mentre gli altri con due gambe vanno piano piano. Passa col semaforo rosso, saltellando come un canguro che cerca cibo.
Gli ultimi barboni arrivati sono veramente repellenti. A guardarli duole qualche costola a sinistra o a destra sotto il petto, fegato, milza, qualcos'altro. Dio, quanti sono a Roma!
Io conosco solo quelli di Trevi che s'espandono a turno attorno ai monumenti, alle chiese, nelle piazze più note del centro.
Il gitano innamorato, la ragazzina di settant'anni con le trecce, la santa scalza che recita il rosario, quello che puzza più di un cesso sporco da cento anni, i sudditi della regina al Pantheon, il negro e l'incendiaria al Tevere.
L'omino che sputa, quello che trascina un crocefisso dalle due alle tre, i giocatori di scacchi di Via della Conciliazione, la tedesca che scrive di filosofia in piazza del Vaticano, la nuda lebbrosa che si mostra fino alla cintola, e secoli addietro le avrebbero messo dei campanacci al collo per avvertire i passanti della sua presenza.
Ce n'è uno tutto butterato che non avrebbe potuto togliere i pezzi di stoffa dal corpo, così da poter evitare ogni contatto.
C'è l'indiano col turbante a cui manca il serpente nel cesto, il clown col carrettino posteggiato ai buzzi della monnezza, il centauro col pappagallo tropicale, il posteggiatore senza denti.
E ce ne sono altri in atteggiamenti tali che non è possibile guardare più di un istante per antico pudore solidale.
La mia guerra
Camminavo sulla spiaggia e all'improvviso ho visto all'orizzonte dei segnali di fumo bianco.
Ho pensato "Speriamo che non sia successo niente".
E ancora un po' allentata dal sole "La bellezza della natura è più forte di qualsiasi orrore."
Un mese esatto dopo.
Due aerei che andavano in opposte direzioni tracciavano righe bianche davanti a me. Mi allontanai dal chiasso, andai verso l'acqua e allargai le braccia come a compiere una cerimonia magica. Abbracciavo l'oceano che non c'era.
Nell'Urbe stavano celebrando messe solenni alla memoria.
Quel pomeriggio c'era ancora un sole bellissimo più estivo che autunnale, un sole tranquillo che rincoglionisce come la piccola bacucca nonnina Europa.
Io dico sempre che esistono i mostri, eccome. Tornate alle fiabe, alla sapienza del mondo.
Bum. Il mio popolo è stato colpito dai mostri.
Tragedia antica. Tornerà Morgana e poi Merlino sistemerà tutto.
Io esisto grazie al popolo dei miei lettori e a loro appartengo, anche se sono nata e cresciuta altrove.
Il mio popolo siete voi. L'artista vi ama, my reading public, I love you.
La guerra dei piccioni
Francesco guardava dall'alto i cortili intorno al Vaticano dove lo chiamavano i suoi diletti volatili per raccontargli l'ultima guerra che gli uomini combattevano tra di loro a causa dei poveri piccioni della capitale.
E il santo improvvisò una delle sue consuete prediche agli uccelli, tanto per istruirli a sopravvivere all'astuzia maligna degli umani.
I piccioni erano molto pazienti, ma c'erano alcuni passerotti arrabbiati sul serio che non la finivano più di cinguettare.
"Siate prudenti quando aprono le persiane e urlano, quando fanno uscire il gatto o il cane. Se puliscono i vasi e cospargono di velenose sostanze il cortile, così da tenervi lontani.
Statevene buoni per un po', tanto ci saranno sempre i vostri benefattori. Qualcuno sincero e qualcuno che per far dispetto al vicino vi tirerà le briciole dei loro pasti abbondanti. Restate accanto alle cucine fumanti. Baciatevi e moltiplicatevi, anche se questo non soddisferà le autorità competenti."
I piccioni non è che avessero capito granché, ma volarono sopra un tettino pieno di rifiuti umani, dove un loro amico lanciava il buon pane per affetto e basta, dopo che non poteva più lanciarlo in cortile.
E anche lì sopra non avrebbero voluto, ma il tetto era talmente degradato dalla sporcizia umana che più di urlare e scacciare per un attimo i piccioni non potevano fare.
Si sa che il vero amore trova sempre grandi ostacoli a questo mondo.
C'era ancora la luna in cielo. Nasceva un altro giorno di dura convivenza con la belva umana.
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