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Skill
Quando arriva la prima scossa violenta nessuno è preparato a farvi fronte, non è di sicuro in orario con ciò che siamo abituati ad affrontare nelle giornate normali, quelle che iniziano con una fuga, proseguono di corsa e scappano sul finale. Scivolano via.
Per non perdersi lo spettacolo straordinario d’ogni cosa che salta per aria senza limiti, in una catena d’eventi incredibili, occorre mantenersi lucidi, abbastanza al freddo, così da afferrare un nesso o due. Che cosa scriverà ora quel bambino seduto in mezzo ai campi, alla periferia nord della città? Un euro, 1999 lire per dare una sbirciatina.
Si fanno tre zeri, semplicemente tre colpettini sulla cifra più importante del mondo, per entrare in contatto con la Confraternita del Soccorso, il posto dove lavoro io, in compagnia d’una folta schiera di commilitoni d’ogni nazione, perché la confraternita ha sede ovunque, e questa è la sede di casa mia.
Gli altri sono qui ad aiutare. Tutti mi chiamano Skill e mi sono affezionato anch’io a questo nome che non è il mio. Ma quello vero chi lo conosce è bravo. Skill è il nome ora e non ne ho avuti altri.
Sono nato non molto tempo fa, non distante da qui, abbandonato da una signora non convinta che la maternità facesse veramente al caso suo. Skill, genietto dall’indice veloce, colui che batte lievemente a 200 all’ora sui tasti del computer con un dito solo e con gli altri fa finta. Pianista sconosciuto che finge d’accompagnare un grande concerto.
A volte mi scordo di mangiare. Qualche anima pia mi paga per il mio lavoro, ma solo di tanto in tanto, quando si ricorda e in maniera approssimativa rispetto al numero d’ore che faccio di giorno e di notte ininterrottamente.
Sto in un paese che detesta cordialmente i computer e la rete, tanto quanto ama le chiacchiere forbite.
Quando prendo la busta paga io festeggio con i pesci del mio acquario e do la birra anche al gatto che inizia a sbandare, correndo in qua e in là per la casa dietro ai suoi bambocci preferiti: un’anatra spaziale e un guerriero dal cappuccio nero.
Non è per fare il pettegolo, ma prima pagano lo stipendio ai miei commilitoni, perché fanno la voce grossa, stanno sempre a minacciare di paralizzare il sistema informatico della confraternita, se non li pagano puntualmente.
E’ uno scioperare continuo fino al qui pro quo.
Io sto zitto per i fatti miei. Questo comporta che mi ritrovo poco apprezzato nei miei molteplici talenti; quantomeno un talento lo possiedo di sicuro, essendo supersonico sia a creare che a distruggere.
La mia vita si svolge tutta attorno alla confraternita. Mi accascio alla meno peggio lì, vicino alla luce del mio computer, fino a che uno dei miei colleghi non mi ritira su, battendo forte la mano sulle mie spalle.
Allora sussulto e mi riaccendo, pardon, ricomincio non so mai se un nuovo giorno o metà di quello precedente.
Nella mia stanza c’è un vecchio colonnello col fiatone, operato a cuore aperto, addetto alla registrazione del lavoro degli altri, grande spedizioniere di auguri natalizi e bollini per l’assegnazione di alloggi economici e buoni pasto.
C’è un siriano che è una specie di enciclopedia e sa tutto quello che c’è da sapere su tutti, un etiope che si occupa non so bene di quali pubbliche relazioni internazionali e poi giù, giù, scendendo verso il basso, una serie infinita di sfigati con gli occhi a spillo e il culo in fondo ai pantaloni. Uno di loro pagato leggermente di più fa il capo, ma non gli dà retta nessuno.
Sopra di noi ci sono i veri comandanti in capo della Confraternita, in un bel palazzo appena restaurato, una chiesa sconsacrata dei tempi in cui le religioni contavano ancora.
Chiunque desideri visitare i piani alti deve munirsi di uno speciale permesso, vestirsi in giacca e cravatta se è un uomo o con una curiosa redingote bianca e rossa se è una signora.
In genere ai piani alti ci vanno solamente a protestare per i magri stipendi, sperando in qualche aumento da qui all’eternità.
Vanno dal presidente i suoi baldi aiutanti, compresi gli autisti, i cuochi, il personale delle pulizie e della sicurezza personale.
Si lamentano forte; io mi scordo anche di questo, sempre dietro al mio tavolo di lavoro.
I capi a volte mettono il naso per un secondo dentro alla mia tana e ridono sarcastici non so bene di cosa. Ma io non mi offendo e continuo con passione, imperturbabile a battere sulla tastiera.
Fuori dalla sede della Confraternita ci sono hotel per sceicchi, bar per le loro donne in burka, che succhiano di tutto con una speciale cannuccia da sotto le pesanti vesti.
C’è un’ambasciata circondata dall’esercito, un fontanone per fare il bagno indisturbati, una scalinata enorme da dove è facile cadere coi tacchi alti; allora tutti ci passano prudentemente per non fare figuracce, sia per l’altitudine, sia per il rischio di restare sotto ad un’altitudine, tipo focaccia.
Belle donne sfilano, sfidando la forza di gravità, le storte ai piedoni per essere fotografate, piagate dentro e fuori, ma sorridenti al mondo intero.
Questo posto non avrebbe bisogno d’assistenza, godendo della fama suprema di luogo della bella vita, ma chi muore di fame senza un soldo per respirare, viene ogni giorno da noi in fila indiana, mogio mogio per la vergogna dei ricconi arabi, indigeni, internazionali. Ed è sempre peggio, con file incredibili di morti di fame che prendono tutta la salita della dolce vita sotto alle finestre d’oro e preziosi.
Un declino evidente, inarrestabile: qualcuno ha scritto sui muri dell’ambasciata blindata “aggredire il declino”. Non so spiegare cosa voglia dire, se non picchiare chi è diverso da sé, ritenendolo responsabile della propria miseria. Già, poiché la gente cosiddetta mansueta agisce così, per timore e reverenza dei potenti. Non osa pensare che siano loro e solo loro la causa d’ogni miseria. Ne hanno sempre paura.
A volte io scendo fino alla statua di un fauno dell’antichità e lo guardo invidioso del suo sarcasmo, di tutta quella vitalità che nessuno ha ormai più in questo posto maledetto, dove s’arriva a cercar fortuna e si trova la miseria più devastante.
C’è invidia per chi lavora dentro alla Confraternita, perché un pasto caldo non lo fanno mancare a nessuno dei dipendenti e a coloro che riescono ad entrare lì dentro.
Sul più bello dei miei tanti pensieri arriva sempre il signor presidente, bisogna stare zitti, ossequiare.
Costui proviene da un paese straniero, s’è insediato da poco, non si trova ancora bene qui, perché prima era un dirigente rigido, autoritario, una specie di dittatore.
E’ stato eletto da una democrazia raffazzonata, camuffata alla meglio, abituata a parlare di religione ed umanesimo, ma sfaticata, mangiatrice a ufo, intristita da loschi affaristi che invadono ogni luogo.
Il presidente ha un nottolino nero che indossa una volta all’anno alla festa più grande della Confraternita, quella dove si rastrella in giro il bottino più grosso.
Forse i miei mancati stipendi vanno ad aiutare qualche disastrato nel mondo.
Lo scopo della nostra organizzazione sarebbe quello di soccorrere i bisognosi ovunque essi si trovino, senza averne vantaggi particolari, ma per il purissimo piacere d’aiutare il prossimo.
Io non so chi fondò questa sede e nemmeno m’interessa se in origine ci fosse un ingenuo o uno stronzo. Oramai non mi faccio più illusioni sull’essere umano e mi do da fare, nonostante io non creda che alla fame del mio gatto.
Prendo un treno che passa ogni giorno in zone dove violentare i bambini è un’abitudine consolidata e santificata da parte di chi ne ha facoltà ed ha appeso il ritratto di un bimbo nudo alla parete della sala d’attesa.
Ogni pezzo del marchingegno è stato rigorosamente selezionato per fare male, per impedire ad altri di fare bene o di fare qualsiasi cosa.
Qualcuno mi ha raccontato verosimilmente che il presidente era un cacciatore di drogati e prostitute, nel senso che li eliminava a poco a poco, rinchiudendoli in una casa di cura e lasciandoli lì senza viveri come i bersagli di un tiro a segno.
Quando non ne posso più di strizzare gli occhi al computer per mandare in onda ogni sorta di disgrazia umana con relativi interventi umanitari, io faccio lunghe passeggiate attorno alla statua di un omino barbuto a cavallo.
Sotto c’è scritto che noi siamo i suoi figlioli e da lui abbiamo l’origine, l’unità e la libertà.
La statua ha lo sguardo fisso e non è molto convincente, ma così vanno le storie e quella del mio paese sembra essere questa da quando sono venuto al mondo.
Le strade intorno alla statua sono dedicate ad un certo omino occhialuto, imbalsamato con la cinepresa a riprendere un hotel a quattro stelle, le bestie feroci del circo equestre, le bestie umane travestite da clown.
Vicino al presidio, il lusso dei giorni con l’aperitivo a bocca aperta, le cenette al lume di candela con le belle di notte, è oramai imbrattato dalla puzza di escrementi degli ubriachi da quattro lire.
E’ un tappeto di pisciate non stop, un tanfo tremendo a pochi metri dalle zone dorate dello shopping ad oltranza di mutande e gioielli per maggiorate seminude dentro al fontanone.
Il mestiere fa invecchiare alla svelta le dive del cinema, le sbatacchia, se le fuma a poco a poco.
Ben presto i loro servetti in bolletta chiameranno la confraternita con le dita tremolanti, zero, zero, zero, aiutate la mia padrona caduta in disgrazia.
Suonerà la sirena e i miei colleghi entreranno in uno di quei palazzi di lusso, pignorati nel tempo dalle banche e da frotte di loschi creditori.
I soccorritori saranno armati di barella e siringhe d’ogni formato, compresa una dimessa camicia di stoffa rigida come le tende da campeggio.
E una stella del passato finirà nelle stalle del presente, trattata con il riguardo dovuto al caso. Il suo ritratto sui muri della clinica, come fosse inciso per sempre tra i grandi personaggi.
L’ufficio dove lavoro è una specie di deposito di computer nuovi di zecca e vecchiotti da rottamare, quelli a cui il sottoscritto è di solito più affezionato, tanto da portarne pezzi interi a casa per ricordo.
A volte li faccio rifunzionare, li curo come fossero bambini da cambio del pannolino.
E quelli mi ripartono miracolosamente all’improvviso al buio, mentre dormo saporitamente nelle mezz’ore migliori.
Ho così tanti computer da poterli rivendere, ma quelli vecchi come per gli esseri umani, anche se buoni a qualcosa, non li vuole più nessuno per principio.
C’è il mio amico dagli occhiali fucsia che bestemmia in continuazione dietro ad un computer nuovo di zecca che non ne vuole sapere mai di collegarsi con le disgrazie che succedono in giro, cose dell’altro mondo, soccorso immediato, fuga organizzata.
Mentre i miei computer vecchiotti mi guidano spediti nel cuore d’ogni catastrofe, mi dicono continuamente la situazione d’ogni nazione di questo pianeta sotto shock.
La confraternita s’occupa direttamente di ciò: prende soldi e poi soccorre quando può e quando vuole, chi vuole e chi può.
Per il resto, aiutati che dio t’aiuta, come si suol dire.
Nelle vecchie foto dell’archivio segreto ci sono scene che oggi non si vedono più: bimbi salvati in mezzo alle intemperie, strappati alla fame, alla sete, alle malattie della povertà. Ora ci arrivano foto di bambini sacrificali, imbottiti di camicie esplosive e non possiamo farci niente o soccorrere coloro che sono colpiti dai bambini assassini.
I piccoli che muoiono di povertà ci sono anche ora, ma se saltano per aria sono semplicemente bocche in meno da sfamare.
Così è, ma chi muore di miseria scopa di più, così ha più possibilità di campare. Ed è anche così.
Dal mio avamposto, in questa associazione rispettata e osannata come uno dei pilastri buoni dell’umanità, io ne vedo di tutti i colori, ma si sa che l’umano racchiude in sé gli opposti e ciò che è buono facilmente si può trasformare in male, solo spostando qualche tasto, battendo la testa contro qualcosa di duro, e poi ritornare tranquillamente indietro al bene come intatto.
Io cerco di far sapere semplicemente cosa accade, mi concentro sulle informazioni, lasciando ai dirigenti la scelta degli aiuti, le rappresentanze.
Mi sentirei in colpa a scegliere di fronte alle tragedie dei miei simili, soprattutto nei giorni in cui mi sento bene. Io informo e basta, incrocio le dita e cerco di pensarci il meno possibile.
Florinda e Tinca
La ragazza dell’ufficio stampa, rapporti internazionali proveniva da una speciale comunità vecchio sistema, tra la riserva indiana fornita dei migliori liquori e comfort vari e la regione dei khmer rossi con speciali permessi democratici quando nevicava, per la vendemmia, per qualche sfilata di regime.
Era stata scelta accuratamente, dopo varie vicissitudini, poiché apparteneva a famiglia numerosa, undici fratelli con caterve di nipoti, centinaia di voti pronti per essere segnati sulle schede elettorali. Potere spiccio di comprare posti ovunque almeno per tre generazioni. Famiglia fedele, abbastanza ignorante, sicuramente fideista, il meglio del paese, il meno peggio per i ruoli esecutivi della confraternita. Florinda aveva conosciuto il mondo a modo suo, non avendo mai messo il naso fuori dalla sua solida fattoria. In seguito applicò la stessa regola alla confraternita: te la trovavi sempre tra i piedi qualunque cosa uno facesse, sia ai piani alti che a quelli sottoterra.
Essendo una privilegiata, ella non aveva dovuto fare la volontaria e la lunga trafila per entrare direttamente negli uffici. Arrivò, aprì la valigia e prese a lavorare, o meglio, ad osservare il via vai degli altri che bevevano, mangiavano, fumavano, raccontavano barzellette sporche sulle disgrazie di questo e quel popolo, si collegavano di nascosto coi siti porno a fine giornata per dimenticare bombe e lamenti.
Florinda da piccola aveva fatto teatro con i migliori attori comici nazionali, facendo le boccacce dal passeggino e poi spingendolo in scena da cresciutella.
Aveva poi intrapreso la carriera di pittore, lavorando finemente di pennarello per i manifesti elettorali, cosa di grande vanto per la sua famiglia, raccomandazione importante per la confraternita.
Assieme al suo dialetto da riservista, ella masticava alla meno peggio altre lingue limitrofe e con questi potenti mezzi prese a lavorare sodo per guadagnarsi il pane quotidiano.
Schifando i ragni e le loro suntuose dimore, Florinda recuperò foto vecchissime da un archivio segreto, aiutando un colonnello rimbambito a ritrovare la memoria storica.
Iniziò poi a mandare on line uno speciale giornaletto divulgativo per favorire il contatto con i derelitti veri, coloro che nessuno vuol vedere quando è intento a spendere e spandere in giro come gran signore.
Curò non so in che modo un alto dirigente dei rapporti internazionali che s’era inceppato nel bel mezzo d’una carriera folgorante e non voleva parlare più con nessuno al mondo.
Florinda fece breccia persino sul presidente che le raccontò d’esser ricchissimo, di non aver mai dato personalmente qualcosa a qualcuno, perché lo avrebbe fatto in punto di morte per comprarsi una consistente gloria postuma.
I militari erano estasiati dalla ragazzetta, ne fecero la loro mascotte, regalandole una divisa mimetica con su scritto “Sono fuori da ogni tuo concetto” e una maglietta con “el Niño”.
La niña aveva conosciuto il mondo anche con la televisione e il cinema d’insegnamento, certe pellicole noiose come la messa cantata. Non vedeva l’ora di scappare di sala e andare ad immaginarsi qualcos’altro dentro un chilo di pasticcini con mezzo litro di cognac parentale.
Di nascosto, ovviamente, fingendo che la cacarella della mattina dopo fossero le prime mestruazioni e che non si macchiassero direttamente i pantacollant, visto che le mutande non c’erano per sembrare senza i due chili messi su la sera prima.
Florinda aveva frequentato i corsi di teatro dell’impegno, le riunioni studentesche coi segretari che disponevano ciò di cui scrivere nella settimana scolastica, comprese le poesie e le dediche a chi, stranissime recensioni da comporre su fantomatici paesi nemici. E lei eseguiva muta per compiacere i capi ed essere ben accetta a tutti.
Poi di nascosto fumava e mangiava dolci, prendeva le pasticche dei parenti, facendo confusione tra il sonno e la morte. Qualcosa le sembrava non quadrare.
Il suo regista impegnato la osannava, la invitava a continuare nel suo superlavoro e poi egli correva dietro alle persone più incapaci, fannullone, purché avessero soldi da mettere a disposizione. Persone di ricche famiglie.
Florinda si rivolse persino ad omini gentili che si mettevano un cappuccio in testa fino a farla sparire del tutto, congiungendo le mani attorno ad un tavolo rotondo, ma niente, senza risultato alcuno. Doveva tener duro, facendo gli scongiuri ogni giorno dalle numerose commissioni femminili sorte per favorire il lavoro del sesso debole.
Quando non ne poté più d’aspettare la manna dal cielo si bucò a gruviera il braccio sinistro, simulando l’invalidità dell’arto per ottenere una misera pensioncina, ma non le riuscì nemmeno quell’impresa disperata.
Allora le fu chiaro che da sola non sarebbe andata che all’obitorio.
Invece tramite la famiglia si poteva rifugiare alla confraternita. Niente male davvero. Il meno peggio sicuramente.
La sua amica migliore, Tinca, andò a letto col figlio di un pezzo da novanta, ricattò la madre del malcapitato e si fece sganciare sull’unghia un posto di lavoro in una parte distante del paese.
Alla separazione sia Florinda che Tinca piansero come fontane. Gli altri amici di scuola si misero in fila per raccattare palle ai bordi dei campi dove giocavano i grandi, entrando alla fine in campo anche loro con fogli sparsi e valige. Tutti in viaggio verso le terre attorno alla confraternita.
Almeno una volta all’anno, preferibilmente d’estate, Florinda provava a cambiar vita, a lasciarsi alle spalle ogni certezza per andare a vivere altrove, trovando un ragazzo, un’altra famiglia, un lavoro che le piaceva.
Impietosamente ogni tentativo falliva e la ragazza si ritrovava di nuovo in palestra a smaltire, a metter dischi alle radio del paese, a recitare in parti comiche al teatro comunale, a piangere a qualche funerale e ad ubriacarsi a qualche festa patronale.
A fare buon viso a cattivo gioco per conservare un ruolo per le stradine deserte e nebbiose.
I corteggiatori non le mancavano, ma lei aveva orrore a lasciare le sue idee balzane e a far la cucina economica elettrica, con figli e frigo supercapiente.
Nel frattempo molti amici mettevano su una bella pancia, il conto in banca, correvano dietro a riunioni, tesseramenti, associazioni d’ogni tipo e tendenza, purché ci fosse una possibilità di piazzamento.
Un assessore si sparò in fronte al poligono di tiro, la moglie del sindaco aveva contratto una brutta malattia, un senatore aveva cambiato sesso, un deputato teneva le corna per la compagna ninfomane, un sindacalista s’era stufato del suo lavoro e s’era messo in testa di fare l’artista. Cose scontate, ordinarie, quasi dozzinali.
Gli artisti con la politica mangiavano sì ogni giorno, ma perdevano inesorabilmente l’ispirazione. Questo già avveniva prima che Florinda lasciasse la sua seggiolina di famiglia per essere arruolata dallo zio nella confraternita.
Appena giunta qui ella vagava dalla mattina alla sera da un ufficio all’altro, fino a stramazzare come un cavallo dalla stanchezza.
La città poi le sembrava un palcoscenico stralunato, dove ognuno si sentiva di morire, di smarrire qualcosa e allora prendeva a sbattersi di brutto, fingendo d’essere molto preso da ciò che stava facendo.
Erano tutti soli e assiepati l’uno sopra l’altro come insettacci mai visti prima. La confraternita fu e rimase il suo unico rifugio. Come una profuga. Non diceva a tutti da dove veniva, poiché non avrebbero compreso, non le avrebbero nemmeno creduto.
Mica veniva dal fronte di guerra, non era il suo un paese dittatoriale, almeno così era stampato a chiare lettere nella sua costituzione esposta all’ingresso del presidio.
Un bel giorno si rifece viva anche Tinca, perché non resisteva più tra le braccia del suo pezzo grosso obeso e puzzolente.
Arrivò al presidio assieme a molto materiale per il fronte di guerra.
La ragazza fu subito misteriosamente rifilata all’ufficio stampa con l’incarico di scrivere un pezzo originale su come era un giorno la città e com’era ora. Possibilmente senza retorica.
Ella andò ad un concerto in galleria con fantasmi pagati per agitare le mani, dirigere concerti sinfonici, scorazzare lì assieme ai cani.
Tinca era brava a montare agilmente le chiacchiere più assurde. Si recò immediatamente sul posto per rendersi conto dello stato delle cose, ma era vestita così così e nessuno voleva farla passare.
Allora entrò in uno dei negozi a fianco della galleria rigorosamente in bianco e nero, più maglietta a lucciconi con il faccione del capo dello stato.
Naturalmente ne indossò una extralarge che la copriva castamente fino ai piedi. Entrò e s’avvicinò al suonatore di pianoforte che stava scaldando il suo pubblico con una presentazione estenuante di ciò che avrebbe poi eseguito e non iniziava mai.
Un pubblico annoiato, mezzo rincoglionito dall’afa, gente che era là solamente per riposarsi dal sole cocente e andarla a fare nei bagni comunali gratis, circondata da buontemponi in fregola di ottimi affari.
Erano questi i migliori borseggiatori della zona, riunitisi lì, a portata di portafogli, inseguendo l’estasi più o meno finta degli ascoltatori.
Tinca vide le prime ombre entrare schifite in galleria e le apparve un bell’uomo vestito di chiaro, i baffi ben curati e le mani molto grandi.
Egli teneva sottobraccio una donnina sorridente che sembrava non vedere lo scempio dei tempi presenti, badando a non far cadere una bottiglia di vino e pagnottelle rotonde di pane bianco appena sfornato.
Altre ombre erano minacciose e facevano scappar via i cagnolini al guinzaglio delle signore, bambini educati in ottime famiglie.
Un’anima si mise a galleggiare col pennello da pittore in bocca, un’altra annusò tabacco aromatico dai fogli di un manoscritto accuratamente sigillato e prese direttamente a volare sopra gli astanti.
Tinca sapeva di vederlo solo lei ed era felice d’esser lì, di sentire infine la musica spargersi nel cuore della galleria.
Era euforica di fare quel lavoro, ma se la godeva da sola in silenzio.
Infatti furbescamente non raccontò a nessuno la verità. Scrisse per il giornale del presidio un pezzo innocuo sulla visione di fantasmi sopra il fiume della città eterna, stando accuratamente attenta di non sparlare del presente e dei suoi padroni. Tatticamente perfetto.
Tinca fu così assunta a tempo indeterminato e sottocosto abbastanza volentieri, poiché la presenza femminile scarseggiava negli uffici e doveva essere rinforzata.
Essa poteva servire caffè, far sorridere i lavoratori piuttosto ammutoliti dalle disgrazie continue cui assistevano di continuo.
C’era inoltre la necessità di tenere allegri i finanziatori della confraternita, poiché le loro riunioni politiche erano talmente noiose da portare ad un massiccio declino psicofisiologico in poco tempo.
In diversi iniziavano a disertare i palazzi del potere col timore di ammalarsi di curiose malattie somatiche, dopo essersi sbattuti come polli allo spiedo. C’era qualcosa nell’aria come anni addietro, quando avevano esposto i capoccioni al disprezzo delle piazze, col rischio di farne carne da macello.
Ancora Skill
A volte io rifletto tra me e me. Insomma, la vita è tutta qui?
Correre via da sé, sbattersi come ossessi, ballare il trescone senza sudare troppo, assistendo alle peggiori disgrazie, sopravvivere ad ogni maschera che ci fanno indossare.
Scordarsi d’avere un equilibrio e sconvolgersi a tal punto da essere invasi da altre persone petulanti.
O vivere sempre nascosti, sconosciuti persino a sé, dalle tante bugie che uno si racconta. Non tornano più i conti infine.
Si resta attoniti a guardarsi le mani, a guardare ogni cosa al di fuori di sé come se fosse la prima volta.
Memoria assolutamente in disuso, percorso inesplorato.
Questo io penso della mia vita e di quella degli altri, dove si insegue delle cose stupide o si respira secondo ragione, ma non si vede l’ora che qualche immane sciocchezza succeda a sconvolgere almeno un orario fisso.
Poi si tornerà a braccia aperte verso quel paradiso perduto che prima ci sembrava il braccio della morte.
Io volevo cambiare la mia esistenza quotidiana che trovavo estremamente noiosa, ripetitiva. Diciotto anni massicci, un pezzo di torta dell’aldilà.
Mi trovavo nel posto giusto per fare buoni affari a seconda delle angolazioni solari, con catastrofi da osservare molto da lontano, e bellimbusti zeppi di grana da sganciare.
Mi aiutavo bevendo caffè a litri per tenere gli occhi aperti, ansioso per qualcosa che doveva succedere, che probabilmente aveva già avuto inizio a mia insaputa come in un film che avevo già visto chissà quando.
C’è qualche potente che sia anche povero? Non mi chiedevo più da un pezzo il senso di nulla. Se esistesse qualcos’altro oltre alla finzione.
Tu ti vesti bene e allora trovi chi t’offre cioccolatini, mentre un altro ti sfila il portafoglio. Tu ti vesti male e tutti ti trattano male, senza cercare in te niente altro, perché non interessa loro niente altro, non avendo il minimo dubbio sul fatto che sei uno da eliminare rapidamente.
Che piaccia o meno agli antropologi, questo è.
Il roscio
Qualcuno s’era svegliato una mattina ed aveva deciso che la sede della confraternita era minacciata d’attentato.
S’ignorava di che tipo, angosciante prospettiva. Allora spuntarono portoni blindati e personale armato fino ai denti in difesa degli uffici.
Lì successe che uno dei nostri informatici, solitamente molto silenzioso, quasi muto, improvvisamente prese a parlare uno strampalato idioma che erano pezzi di molteplici lingue mescolati tra di loro a casaccio.
Noi pensavamo malignamente fosse dovuto al fatto che il Roscio, così lo chiamavamo per la sua folta criniera di capelli color rame, era abituato a legger nei ritagli di tempo tra un sito e l’altro minuscoli vocabolarietti economici che riportavano i principali termini delle lingue, comprese quelle più rare e sconosciute. Alla fine, dagli oggi e dagli domani, il Roscio s’era incartato come un carillon scarico e non c’era modo di riparare alla meno peggio i suoi pezzi rotti, appiccicandoli insieme.
Parlava, parlava, tant’è che il cappellano di guerra iniziò a spargere la voce che fosse indiavolato. Ma il Roscio lontano dalle gocce dell’acquasanta sorrise di nuovo, riprendendo ad essere come prima molto riservato.
Però aveva un’unica espressione diversa, un’alzata improvvisa di ciglia, come stesse in allarme. Fece amicizia col personale dell’esercito e confessò ad uno di loro d’annoiarsi oramai troppo così bloccato ai suoi computer.
Il Roscio era dispiaciuto di lasciare gli amici oberati di lavori anche suoi, ma la decisione presa era importante per il suo stato d’animo.
Da quando aveva deciso di partire per il fronte di guerra egli si sentiva più vivo, quasi euforico. Ovviamente sarebbe andato sotto l’alto patronato della confraternita del soccorso.
Armato fino ai denti per difendere i più deboli, per salvarli dalla crudeltà del conflitto armato.
Il Roscio era un soldato difensore, non d’attacco. Così qualcuno pensò bene d’attaccarlo e il Roscio ci tornò indietro fatto a pezzi dopo un attentato tremendo.
Ci fu restituito avvolto nei gloriosi stendardi della confraternita.
Malignavano ancora alle sue spalle sul curioso linguaggio che egli aveva preso a parlare poco prima d’essere ucciso da un tizio che parlava una sola lingua più che sufficiente per mandarlo a farsi esplodere e spedire al camposanto diversi soldati nemici.
La foto del Roscio è tutt’ora esposta nei nostri uffici, assieme a quella di una ragazza affamata e di una diva del cinema muto rifatta a colori dal bisturi di un nostro dottore in cambio di laute donazioni. Lui però da vivo non ha mai avuto una donna, ma solo la luce notturna e diurna dei suoi computer.
Per colpa loro è andato a farsi uccidere così lontano nel posto più assurdo del pianeta.
Io sono stato molto male quando ho saputo che il Roscio non c’era più. La sua sedia girevole nera è rimasta lì, mentre i computer se l’è presi il tizio cogli occhialetti viola.
Quando le cose mi vanno più storte del solito io penso al Roscio e do la colpa della sua morte anche a quei computer, poiché erano stati loro ad insegnargli che il mondo era più grande della nostra confraternita e parlava tante lingue, tantissime.
Se fosse rimasto a fare finta di lavorare o a lavorare sul serio di nascosto, ancora sarebbe lì a vedere solo beneficenze, soldi e catastrofi di altri.
Mi dovevo trattenere per non andare nella stanza accanto e distruggere i suoi computer, finché mi passava e piangevo un poco. Oltre a parlare quello strambo idioma, il Roscio m’aveva raccontato di un incubo ricorrente della sua infanzia, ricomparso curiosamente poco prima d’andare in guerra. Il suo corpo era divenuto pesante, non riusciva più a rialzarlo e sulla sua stanza giungeva una presenza ostile da cui doveva fuggire. Egli provava a chiamare, ma anche le corde vocali erano fuori uso, mentre tentava invano di strisciare con la sua carcassa verso la maniglia della porta.
Alla fine era invaso dalla presenza ostile e poi si svegliava di soprassalto. L’incubo del Roscio s’attaccò misteriosamente alla mia mente, con varianti legate all’allarme generale sulla possibilità di un attentato al presidio.
Io ero l’unico a sapere cosa doveva succedere, perché l’avevo scovato in rete alle tre della notte in una delle consuete insonnie del gatto. Cercavo di comunicare con gli altri, battevo sui tasti con dita pesanti e non compariva nessuna lettera, mentre s’avvicinava l’ora fatale. Sentivo di morire senza morire.
Questo era il regalo che m’aveva lasciato il Roscio e durante il giorno, quando calava l’angoscia di fronte alle banali incombenze del lavoro, io andavo fiero del mio segreto come se non fosse un incubo, ma una preziosa eredità.
Asham
A tenere accuratamente i conti della confraternita in un sito segretissimo cui nessuno poteva accedere, nemmeno i pirati più smaliziati, c’era un ragazzetto siriano esile come una canna di bambù, alto come un bambino di 10 anni non tanto sviluppato che metteva i piedi in terra per camminare nella maniera più rocambolesca che avessi mai visto. Avevo sempre paura che cadesse da un momento all’altro. Si chiamava Asham e dimagriva ancora di più in occasione della sua festa.
A detta di tutti sapeva fare il suo mestiere superbamente, non mancando mai un’occasione per farlo pesare al resto del presidio. Per qualche commilitone Asham contava più del presidente stesso, cui il siriano s’ostinava spudoratamente a dare i titoli più beceri, odiandolo a tal punto da dichiarare apertamente che se non ne avessero fatto un altro al più presto, lui si sarebbe fatto saltare per aria ben volentieri per ucciderlo.
Tutti avevano sentito i suoi discorsi a chiare lettere e pensavano che prima o poi sarebbe successo qualche cosa di irrecuperabile, ma nessuno dell’esercito della salvezza si decideva ad intervenire, pensando che toccasse ad altri.
Asham dunque aveva l’accesso ai capitali destinati ad aiutare i bisognosi, a quelli che rimanevano inutilizzati, o peggio ancora congelati per sempre nelle casseforti della confraternita.
C’erano terremoti e guerre di cui nessuno aveva conoscenza, perché saltati volontariamente a piè pari, allo scopo evidente d’imboscare capitali cospicui.
Se ne fregavano dei poveri disgraziati rimasti a secco, scomparsi da ogni notiziario: tempo scaduto, nessuna disgrazia, innominabile cosa per la quale uno rischiava di passare per esaltato.
Asham era abilissimo a mascherare i fondi segreti, migliore delle grandi banche, soldi che ritiravano fuori al momento opportuno per gli usi privati della confraternita.
Si mormorava di poteri occulti che comandavano più della presidenza, ne infettavano continuamente il sito ad ogni apparizione on line.
Nell’ultimo attacco avevano travestito da clown il capo e lo avevano confinato in mezzo a un’isola scoppiata da poco. Il montaggio era grossolano, altrimenti il personaggio sarebbe stato veramente credibile.
La stazione
C’è una piccola stazione verso la periferia della città eterna che sconfina in aperta campagna, con mucche pezzate e pecorone che allattano gli agnellini, brucando paciose ciò che trovano: una vera miseria. E’ lì che ogni giorno transitano persone apparentemente comuni, ma a conoscerle più da vicino ti sbalordiscono con maschere sempre nuove da indossare per i tempi presenti.
Questi soggetti non hanno cognomi eclatanti come i soprannomi che si son dati l’un l’altro: Mar la cubana, Corinne, Marino, Alina, Male, Onorevole, Puttano, Lex, Nuca.
Arrivano alle prime luci dell’alba al nostro presidio e vanno dritti in cucina, restandoci fino a tardi, fino a che ognuno di noi ha finito di mangiare e bere tutto. Dopo essi tornano a prendere il trenino e il giorno dopo rifanno il giro.
Hanno un aspetto assai trasandato, però hanno alle spalle storie particolari che legano male con le incombenze del presente.
La cubana viveva a Montreal prima di finire a sbucciare patate; insegnava una specie di scrittura creativa, arrotondando con marchette da regista d’alto bordo in crisi culturale.
Corinne e Marino erano burocrati in un paesino dell’est risucchiato nel crollo d’una dittatura secolare.
Marino sindaco buono, non lo volevano più tra i piedi neanche come venditore di succhi di frutta.
La sua consorte acclamata donna di corte sempre nel mezzo di feste e bagordi, finì a far le valige per partire alla ricerca di un altro paese dove campare.
Ora Marino è il nostro giardiniere e Corinne aggiusta i menù dei capi per renderli più appetitosi.
Alina, Male, Onorevole sono ciò che resta del potere prima della confraternita del soccorso.
Alina e Male frequentavano letti proibiti assieme a Onorevole, entrando e uscendo dalle stanze giuste. Essi riuscivano persino a contare più di chi accarezzavano nelle parti basse in certi frangenti. Puttano era stato eletto direttamente dal popolo come suo portavoce ufficiale, essendo metà uomo e metà donna.
Lex e Nuca erano un tempo il giudice importante e il suo fedele cagnolino da guardia, accoppiata più che micidiale per incastrare chi transitava a sbafo alla ricerca di facili consensi, voti sicuri, guadagni extra.
Purtroppo è poco che è venuta a mancare Mar, finita in modo rocambolesco sotto al treno, non si sa se per suicidio o per disgrazia, poveretta. Al presidio fu proclamato una specie di lutto breve che durò appena mezz’ora, il tempo di mangiare e bere, piangendo al ricordo di quella bella ragazza.
Alla stazione misero uno striscione di condoglianze con la foto della cubana, poi tolsero tutto e dimenticarono alla svelta.
Brutto tempo
All’improvviso si mise a tirare un vento incredibile senza che ci fosse alcuna possibilità di sapere quando sarebbe cessato.
Il nostro personale si tappò murato vivo dentro al presidio, uscendo solo per procurarsi i viveri nel market di fronte.
Il presidente restò bloccato ai piani alti assieme ai suoi assistenti, a qualche autista preoccupato per le auto parcheggiate sotto che si muovevano come ballassero tra di loro.
La cosa curiosa è che ognuno reagiva a modo suo, ma quasi tutti mutarono abitudini e comportamenti.
I turni furono confusi, gli orari impazzirono e fu un andirivieni irrequieto, continuo, uno sbandamento collettivo. Il lavoro del presidio come polverizzato.
Uno dei sistemisti prese a dire d’essere stato la reincarnazione del re Attila, maledicendo noi tutti e augurandoci ogni male possibile.
“Perirete come non foste mai venuti a questo mondo”.
Uno dei suoi vicini di computer ne risentì in maniera evidente suggestionato dall’improvviso malessere del collega.
Sgranava uno strano rosario fabbricato in qualche paese non propriamente cattolico, ma più come un trastullo del momento che non come strumento di preghiere del credente.
“Affronterai ogni cosa che non hai mai risolto, giocando al grande gioco del fifone”, strepitava Asham, abbandonando importanti carteggi. Sorrideva e spiegava di farlo per il bene dei suoi amici, per svagarli, per non farli pensare al male.
Il grande gioco del fifone era un delizioso videogioco in cui si materializzavano dentro allo schermo le paure più evidenti come immagini concrete di persone che saltavano, scappando da se stessi, schiacciando ostacoli e mostri del percorso. Ovviamente era tutto un saltare per aria.
Ad essere sinceri non erano in tanti coloro che riuscivano a sopravvivere in quella tremenda battaglia che all’inizio sembrava semplice per trasformarsi poi in un massacro collettivo di uomini e cose.
Per fortuna dopo ci si risvegliava e si preferiva tenere ogni paura per sé, come se nulla fosse accaduto.
“Aria maledetta!” gridavano dai piani alti, vedendosi sconfitti da un soffio di vento capace di paralizzare ogni progetto a breve termine. “Per un po’ di ventaccio!” ululavano sconsolati in crisi d’astinenza da potere.
Chi tramava nell’ombra gongolava in silenzio dalla gioia, poiché vedeva avvicinarsi sempre di più la fine di presunti nemici.
Io, Skill, so chi è felice della morte di questo presidente, non c’entro nulla coi cospiratori, so e basta. E che fine farà il presidio, sarà raso al suolo completamente? E dopo?
Più che osservare io non posso fare. Sono in allerta assieme alle ragazze, magari per salvarmi la pellaccia.
Il primo attacco partì in rete, con un simbolo fintamente cinese che s’inserì perfettamente nella rubrica di lettere al capo e iniziò a distruggerne sistematicamente gli accessi che divenivano irrecuperabili.
Allora cercammo di spostare il sito in gran segreto nottetempo per metterlo al sicuro, fino a che non si fosse individuato un colpevole sicuramente interno.
Bazzecole rispetto ai timori di qualcosa di peggio, probabilmente un depistaggio di qualche idiota.
L’aria stava facendo impazzire la gente del presidio a tal punto che qualcuno provò a scappare, ma morì poco distante sbatacchiato contro i muri della dolce vita.
Ci dissero di non spargere la voce per evitare allarmismo, poiché si doveva evitare oltretutto che s’aprissero indagini all’interno di un organo internazionale così prestigioso.
Gli sciacalli invidiosi sghignazzavano nell’ombra.
Schiacciate ai muri d’ingresso c’erano persone abbruttite dagli stenti, screpolate impietosamente da una lebbra segreta, che chiedevano d’entrare, ma facevano passare solo qualche politico spaesato che non ricordava più il proprio nome. Gli riservavano le stanze più riparate per timore che una folata di vento più forte delle altre lo portasse via per sempre, lasciando a chi rimaneva l’oneroso compito di continuare a governare i matti in mezzo alle macerie sfonde.
Asham era sparito, destando in me una certa apprensione. Avrei preferito averlo davanti e non alle spalle.
Tinca s’era messa a spiare ogni stanza, ogni presenza divertendosi a passare il tempo così, a filmare il degrado fisico dei pezzi grossi che non contavano più un fico secco. Essi restavano muti e depressi fino al tramonto, prendendo a parlare agitati di notte, con gli occhi di fuori.
Il lavoro della confraternita del soccorso non aiutava più nemmeno quelli e restavano in pochi a riuscire malapena a timbrare il cartellino d’entrata e uscita, nella speranza che servisse a qualcosa.
Sparlavano di tutto e di tutti, era questa l’unica occupazione clandestina, più il saccheggio sistematico delle enormi cucine, dei contenitori lungo il corridoio e di qualche armadietto segreto dentro alle stanze dei piani alti. Aria pessima in giro e non accennava a mutare direzione.
Io mi chiedevo dove si stesse andando, senza che nessuno s’occupasse realmente di qualcosa, senza nessuno a dirigere niente o ad eseguire ordini precisi. Pensai seriamente di scappare, volando alla cieca fuori all’aria aperta, fuori da quel mondo.
Il gran galà
“Skill si ricorda ancora com’era ai tempi d’oro della confraternita del soccorso”, avevano scritto sulla porta del mio ufficio. “Skill al suo computer ne ha viste di cotte e di crude, ma ha resistito e resisterà anche adesso”.
Questo era stampato sotto al ritratto della mia prima entrata nella rete locale, tenerezze che ora sembravano mai esistite. Ad esser sincero io non avevo mai creduto di dover salvare qualche pezzo di mondo, ma alla fine, giorno dopo giorno, m’ero adagiato sul mio lavoro come un gatto sul suo cuscino preferito, osservando ogni sconceria a debita distanza.
Facevo cose utili a qualcuno che non era necessariamente il presidente o lo stronzo di turno.
Anche Asham, le ragazze avranno creduto a qualcosa a loro piacimento e questo li faceva campare meglio.
Una mano invisibile sistemava fiori sotto alla foto del Roscio, felice d’esser lì e che lui fosse morto.
Se avessi sorpreso qualcuno lì sotto lo avrei sgozzato col tagliacarte. Dovevo controllare attacchi feroci di rabbia, in solitudine, in mezzo alla degradazione dei sentimenti più puri.
E mi tornava alla mente di com’era il presidio ai tempi del gran galà annuale per la raccolta di fondi più sostanziosa mai vista sulla faccia della terra.
C’era una musica fantastica sul palco delle autorità, come se fosse possibile avere ognuno una piccola porzione di comando, di benessere, di soddisfazione. Tutti sentivano chiaramente le note del concerto, molti ballavano e credevano sul serio di salvare altri esseri umani.
Insomma sembrava di stare meglio ad aiutare che a sparare, a soccorrere che a far saltar per aria ogni cosa. S’ammucchiava faticosamente la carta agli angoli del mondo, sognando di far funzionare tutto con la forza della mente, immessa direttamente entro fili sottilissimi.
Passavo spensierate giornate giocando a centrare i cestini dell’immondizia con palle di carta d’ogni dimensione e colore. Il mio computer da vero amico faceva il resto.
Mappa su mappa andavo entusiasta dove volevo; e si vedeva ogni cosa chiaramente, ogni paesino, persino tracce di fantasmi.
Quando saltava la corrente io chiudevo gli occhi, pensando d’essere felice lì dentro. Mi preparavo per il galà, registrando i discorsi di chi trovava fondi; un lauto bottino da distribuire in giro.
Con quei buoni propositi, bacini dentro la bocca, sorrisetti a denti pari e sbiancati, com’era possibile immaginare l’oggi?
Forse i tempi sembravano più lunghi, forse anch’io come tanti altri speravo di rimandare a dopo la mia morte il mondo malvagio.
L’ultimo gran galà era zeppo di artisti preparati spiritualmente per l’occasione. Con prodotti appetitosi per i più sofisticati palati. Quadri deliziosi di frutta e verdura, premi di cuori appena trapiantati, musiche commoventi e nostalgiche dedicate ai morti di fame delle zone depresse. Il cantante coi suoi gorgheggi incantava le maliarde ingioiellate sotto al palco del gran galà e qualche cavaliere sfilava loro il blocchetto degli assegni, scrivendoci cifre astronomiche.
Poi, con passaggi vari da banca a paese, da paese a banca, alla fine un tozzo di pane in posti molto distanti da lì, forse ci sarebbe arrivato.
In una sala speciale allestita appositamente, proiettavano film girati nelle strade attorno al presidio, spiegati da un omino che mangiava a sproposito, dovendo digiunare per il resto dell’anno.
Nel bel mezzo d’una proiezione, io ho visto un ragazzetto silenzioso che s’è defilato con la ragazza pian pianino dalle luci della ribalta e si è chiuso alla toilette per molto tempo, costringendo gli invitati ad una lunga fila senza speranza. Immagino abbia avuto i più seri motivi, urgenti, ineccepibili.
Belle presenze, tasche gonfie, bella vita ovunque, addio. Peccato.
In cielo c’erano già stelle che portavano iella, mai viste prima, stellacce assatanate del malaugurio, con la coda dritta e la schiena inarcata da brivido. Se qualche scienziato si fosse occupato d’osservare ad occhio nudo il firmamento, forse si poteva salvare più gente, ma ciò che stava accadendo non si scorgeva con i binocoli più sofisticati. Meglio mezzi rudimentali a braccio, altro che sofisticherie.
Io danzavo attaccato al muro, mentre saliva sul palco il presidente per il discorso conclusivo dell’anno, circondato da truccatori e suggeritori.
“Carissimi! L’economia è a pezzi, l’arte non c’è più, le bellezze del passato sono incrostate da merda secolare, ma io sono qui. A salti mortali, ma sono qui”.
Le scimmie bucavano dispettose i palloncini, staccavano le parrucche dalle teste degli astanti.
Ancora si poteva sparlare di funerali, di cattivoni, rimbambiti e fasulli, senza che le appetitose tartine andassero di traverso a nessuno. Anzi, la gioia d’esser lì ne era raddoppiata.
E nei giorni dopo il gran galà nessuno aveva più voglia di occuparsi di vittime, tragedie del mondo in malora, come se fosse toccato ad altri turni di lavoro.
Io non rimpiango i miei sollazzi al muro delle risate, anche se ora non c’è più ironia che ci possa portare altrove almeno con la mente.
Skill! Skill!
Ero abituato a sentirmi urlare dentro alle orecchie all’improvviso per scherzo e non ci facevo più caso, perché ero diventato sordo da una parte per colpa delle cuffie acustiche sparate a tutta birra.
Gli allarmi ultimamente si succedevano così spesso che avevo fatto il callo anche a quelli.
C’erano sabotaggi alla rete recuperati alla svelta, bombette-carta senza vittime ai piani alti, assalti all’arma bianca ai piani bassi, quasi sempre frutto di risse, di vendette trasversali per avanzamenti di carriera e di buste paga.
Nessuno finiva per lasciarci le penne, nessuno firmava rivendicazioni, tutto regolare.
Qualche urlo strozzato di corridoio era coperto accuratamente un secondo dopo. Una mattina spararono alla finestra di fronte al presidio, mi presero di striscio e dall’impressione svenni. Non m’era mai successo, fu come un piccolo coma. Entrai nella dimensione che non c’è mai e vidi la morte del presidente, la fine del presidio, una terra di invisibili come nati dall’altra parte della galassia.
Era tutto morbido, lento, senza suono.
Mi era neutrale, né ostile, né favorevole, ma io provavo timore come di fronte a qualcosa che non dovevo vedere.
“Skill, Skill, non morire adesso che stanno per perire gli ultimi stronzi paraculi del tuo paese, quelli che danno fastidio ogni volta ai muri del presidio.
“Fanno finta di niente, tengono duro, ma crolleranno col palazzo all’improvviso. Resisti”.
Mi svegliai al richiamo della foresta, avevo ancora da chiedere, ma non feci in tempo, perché tornai tra i vivi, fine della storia.
Avevo la bocca dolciastra come avessi mangiato tante caramelle all’idea di quello che sarebbe successo ai fannulloni merdosi che guardavano schifiti dall’alto in basso il resto del mondo.
“Skill. Skill! E’ arrivato un tizio che dice d’esser disposto a salvare capra e cavoli, ma in cambio vorrebbe essere chiamato col nome di un grand’uomo del passato remoto, uno eccelso”.
Io chiesi se al grande sarebbe stato bene e tutti risposero di no, ma non si poteva fare altrimenti: prendere o lasciare.
Iniziarono ad uscire sui muri dentro e fuori al presidio manifesti che odoravano di camomilla, dai colorini stantii, mai visti prima.
Le parole erano molto soffici: “ricominciamo da zero zero zero”. “Seminiamo e domani raccoglieremo”. “Oggi decidi per il tuo futuro, vieni con noi”.
E c’erano i volti convincenti d’alcuni personaggi che sembravano fissarti negli occhi, ipnotizzandoti. In un manifesto al limone c’era la moglie di un famoso serial killer impegnato politicamente che rassicurava le altre donne sulla loro sorte.
Alcuni bambini seminavano mucchietti di terra e ridevano, perché già crescevano le piante.
“Anche tu con qualche scossa elettrica in più, comprerai con noi il futuro” diceva malioso il decrepito docente di politica dello spettacolo indicando una seggiola con alcune striscioline di pelle.
“Skill, Skill, devi aiutare a salire sul palco il tizio che ci salverà e registrare ogni cosa; poi spedirla ovunque a chiunque”.
L’omino si dipinse da solo le guance e la punta del naso, cominciò a bestemmiare come un turco, mai sentito parole così indecenti, talmente sconce da far arrossire il maniaco all’angolo della strada che esibiva volentieri le sue parti basse.
Non avevo scelta. Dovetti spedire ogni corbelleria in rete. Alla fine m’ero abituato anche a quello.
1999 lire
Ero a ricevere le chiamate urgenti sullo schermo, zero zero zero, collegamento immediato col presidio in attesa d’aiutare chi ne aveva bisogno urgente.
Con difficoltà erano giunti dalla piccola stazione gli addetti alla cucina, le ragazze, il siriano e quelli dell’esercito della salvezza.
A piedi, perché era giornata di manifestazioni e scioperi selvaggi per oliare bene il nuovo corso democratico.
La curiosità è che nonostante le bestemmie iniziali, l’ometto che doveva salvare capra e cavoli li salvò sul serio, perché appena lo vedevano salire sopra un palco tutti si sbellicavano dalle risate, lacrimavano e si mettevano le mani sulle budella.
In mezzo a questa euforia generale arrivò la prima scossa violenta che fece saltare per aria mezzo presidio, un rombo ovattato, insostenibile al timpano, sinistri scricchiolii d’ingranaggio rovinato per sempre.
Una mano possente mi tolse la scrivania, la seggiola sparì letteralmente nel nulla.
I vetri, ogni superficie lucida luccicava nella penombra d’una scena incredibile.
Pensai che fosse opera del demonio, che veniva dall’aldilà se esisteva, perché era qualcosa né di guerra, né umana, oltre.
Prima che giungesse un’altra deflagrazione notai che il mio cellulare giocava da solo a combattere, inviando due messaggi: “tu sei il capo” e “tu sei morto”.
Il computer impolverato funzionava bene da solo, cambiando a piacimento siti e motori di ricerca.
Il secondo boato era solo di morte, portava la sicurezza che non ci sarebbe stato un terzo rimbombo, riuscendo a sistemare ogni cosa.
Io vidi volare nelle pose più sconvenienti uomini e bestie, oggetti e schegge di cose sconosciute. I capoccioni, i loro servi, i poveri barboni mi passarono sopra la testa a fauci spalancate, inghiottendo microscopiche gocce d’acqua sporca.
A sangue freddo, nascosto in cucina sotto una valanga di polli, conigli surgelati e patate da infornare, mi stavo salvando dalla dissolvenza finale.
Un calendario o una banconota si posarono davanti a me, 1999 lire o anni. Troppo velocemente per capire cos’era.
Mi sono svegliato con il segno in fronte d’una moneta molto grande, sicuramente d’altri tempi, un marchio marrone che difficilmente si sarebbe cancellato.
Avevo le mie bottiglie vuote vicino al computer, era notte fonda. Potevo sentire Asham russare lì vicino come un cammello sfiatato dalle frustate gratuite, stufo, pronto a dare morso.
La puzza d’escrementi umani e bestiali giungeva al solito dalla strada della dolce vita e degli sceicchi bianchi e neri.
Niente era mutato, il presidente era lì e alle prime luci dell’alba arrivò al presidio il politico più ammanicato del momento per farsi togliere un porro gratis dai nostri chirurghi plastici.
Io dovevo comunicare subito il fatto allo stilista all’angolo della strada, che stava disegnando il ritratto del benemerito ancora con l’indelebile segno di riconoscimento. Ahimè, Skill! Svegliati, non hai fatto in tempo ad inviare niente o lo hai fatto apposta?
Ormai sono state inviate in tutti i negozi del paese le magliette sbagliate.
Emergenza
Ricomincia la solita rogna. Qui è tutta un’emergenza.
Per qualche terremoto non sganciano una lira, per qualche guerra men che meno. Ma dove vanno a finire i soldi che all’inizio sono tantissimi? So che molti decidono d’inviare i fondi dopo il fine settimana, sospirando ad ogni decisione presa.
I religiosi dicono che è colpa del materialismo e della scienza, nel senso che forse uno dovrebbe venire a questo mondo senza bisogni di sorta e cavarsela sempre benone, senza rompere a nessuno, soprattutto a coloro che stanno già bene malgrado tutto il resto. Non si farebbe prima a spartire un po’?
Perlomeno a provarci in qualche maniera. Bussano ad ogni frontiera, attenzione, pericolo rosso.
Dentro all’emergenza continua suona la musichetta amena di alcuni vecchi musicisti, accolti come profughi tanto tempo fa.
Essi sono costretti a suonare ininterrottamente per testimoniare la giustizia di questo mondo; mangiano, dio solo sa quanto, svuotano la cucina, fanno impressione.
Quando arrivarono erano secchi secchi e oggi neanche loro rinuncerebbero a qualcosa per darla ad un altro.
M’appare ironica la faccia del Roscio che mi saluta dalle nuvole e mi dice:
“Skill, lo vedi da solo che io non potevo rimanere lì. Sono tempi non miei, giorni per i cretini del pianeta. Si sono riuniti tutti i deficienti ora, giorni balordi che non sanno di niente”.
Se arrivate qui, sapete dove trovare Skill e gli altri.
Benvenuti in un posto molto povero, sporco, insidioso, criminale, corrotto. Ma tanto artistico e turistico.
Cercate di restare vivi, soprattutto di testa.
Fate attenzione al portafoglio e se v’occorre qualcosa, superando i posti di blocco, venite sulla strada della dolce vita, via delle godurie, alla confraternita del soccorso. Scusate, c’è un’altra emergenza.
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