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Trimalcio e Romarotta
O americani che passeggiate frettolosi e stupiti tra le rovine del mio enorme corpo di pietra e ciuffi d'erba trifoglina, e siete incantati dall'odore delle ossa dentro di me seppellite, che ad ogni scavo di ruspa noiosa saltano fuori come al vostro Hallowen: datevi pace, concedetevi alcuni momenti di tregua nella vostra corsa continua. E vi farò sentire storie di dame e signori d'altri tempi, sussurrate dubbiose contro ponentino. Sarò volentieri il vostro giullare devoto, per strade larghe e per vicoli stretti; non vi chiederò molto denaro, solo enormi mangiate, in compagnia, all'osteria che preferite, e bevute robuste per digerire, alla salute vostra! Dove volete andare di bello oggi? Volete visitare le mie rovine più antiche, o quelle più recenti; volete immergervi in un tessuto vibrante di sangue e fauci, o di coroncine bianche e oche che starnazzano? Volete essere buoni o cattivi nell'enorme emporio del tempo, ove s'acquista ciò che uno vuole e che più si confà alla moda del momento? Suggerisco, signore e signori, di immergere la vostra mano preziosa nelle fauci della verità, di farvi staccare di netto l'arto, poiché quella signora a questa latitudine è molto bugiarda; ogni notte si rivolta più e più volte sul letto disfatto e rifatto, rifatto e disfatto.
E se sarete abili nel raccontare frottole divertenti che stuzzicano la voglia di sbefeggiare riposta in ogni angolo del mio corpo infinito come l'oceano, sarete ricompensati con buoni maccheroni e bei mascheroni che fanno le boccacce. Stasera voglio portarvi nella grande piazza bianca dove vivono, nascosti dentro la pancia dei cavalli, i folletti del secolo che muore, e non si fanno vedere da nessuno, perché hanno paura di morire ammazzati dalla ferocia dei tempi nuovi. Camminano ogni tanto sulle ali degli angeli di bronzo dorato. Sono folletti scompigliati da un vento contrario che li rende molto malinconici, loro, che erano così allegri dentro alle carrozze con i cavalli veri, zampe robuste e pelose, groppa insellata, occhi nascosti e chini di fronte al guidatore inquieto con la frusta, appena una manciata d'anni fa. Quando si accendono le luci colorate, i folletti giocano sui candidi gradini e si ricordano i nomi sconosciuti dei signori che andavano su e giù a portare omaggio agli dei protettori, a dee capricciose, parlando al vento volubile, agli alberi della rupe Tarpea. Americani! Vedete quella splendida cupola che di giorno sembra il grosso sedere di un mulo bianco, e nell'oscurità brilla di mille pietre preziose da Oriente?
I folletti, prima di rifugiarsi nelle visceri di un cavallo morto, davano l'assalto gioioso ogni dì al cupolone; li vedevano ridere e sbimbocciare spensierati come le fate davanti a Magnanapoli, sopra i gatti neri del passato musicale e succulento. Oggi non ci sono più gli spiritelli simpatici, perché c'è troppo rumore di ruspe, martelli, seghe, trapani che sconquassano il suolo della città sacra, alzando una polvere nuova; non quella dolce della fine corporale, la nostra buona, vecchia luce etrusca che sale su dagli inferi nei lieti meriggi afosi, su fino ai sette colli, ma la luce del nulla senza morte, del tutto senza la natura. In mezzo a questo cielo di polvere si muovono gli umani dei tempi oscuri, quelli che moriranno per sempre, liberando una nube di terriccio.
Qualcuno dice che la colpa è vostra, o americani, ma una evoluzione così maldestra del sangue al cervello non è imputabile solo ai vostri maghi fin du siécle. E' colpa dei folletti amorosi che non amano più entrare di soppiatto per vicoli e cortili a spiare le storie quotidiane degli umani, giudicandole senza arte nè parte. Lo strano popolo dei folletti delusi possedeva un'energia che è andata dispersa con il sopraggiungere degli scavi di Romarotta. All'inizio i folletti si tappavano le orecchie, gli occhi e il naso a turno; poi presero a parlare a proverbi tra di loro, a schifirsi per inezie, a sentenziare sulla fine della Città Eterna e sul fatto che senza di loro la decadenza d'ogni cosa avrebbe accelerato i suoi passi. Ci fu un periodo di passaggio d'epoca nel secolo scorso in cui Maia, sorta di folletto ermafrodita nativo di un paesino latino, usava guidare i suoi seguaci all'imbocco di via Magnanapoli, nei pressi del ristorante Ulpia. Esso iniziava a cantare strani stornelli iettatori, indirizzati agli stranieri che gustavano all'aperto sopra le rovine i prelibati cibi della cucina romana.
"Dice la volpe ai suoi figli: una volta tordi, una volta grilli". "Ricordate che prima o poi vi sarà utile!", urlavano in coro i folletti latini, spargendo sul lastricato intorno alle rovine un incenso liquido giallognolo come l'ambra, che appestava umani e cose, animali e chimere. E i cibi prelibati divenivano veleno, e i pensieri dei commensali si tingevano di fosca follia. "O terra fortunata di eroi tra cielo e cielo, come ti stai riducendo? Perché lasci che ogni gesto amoroso e bello di sfida tra vita e morte cada nelle buche fognarie?", cantava Maia insieme all'esercito dei folletti ribelli, nel girotondo notturno sotto la luna inguaiata. O americani che oggi vi adattate a passeggiare tra rifiuti puzzolenti e giapponesi molto tolleranti. Dovevate vedere che energia emanava da quella danza allunata! Sembrava che fosse ancora possibile fermare il disfacimento della bellezza eterna e conservarla intatta per farvela ammirare, per rapirvi nella rievocazione magica dei templi eretti agli dei del pianeta invisibile. Allora si celebravano ancora riti speciali, invocando ora l'una ora l'altra costellazione più visibile in cielo, nominandola regina della notte, fino a che la luce arrivava dal mare a sbiancare i sogni di gloria e di fortuna.
Di giorno riprendevano i grandi lavori di sconquassamento della povera città eterna. Passato il Giubileo di fine millennio, all'entrata nord fu messa la nuova iscrizione di 'Romarotta', e tale rimase fino al marasma di oggi, a ben rappresentare ciò che accadde prima del tempo in cui i folletti si rifugiarono dentro al corpo delle statue, o sotto la coda dei cavalli. Fu ordinato che in vista del grandioso evento religioso fosse mutato il volto delle cose, e questo accadde, ma in malomodo. Si ordinava di spostare la statua orrenda di Campo de Fiori in un angolo di Piazza Farnese, e succedeva che gli operai la portassero ai giardini di Villa Borghese, tra merendari, bibite e cagnolini a far pipi. Si cercava di coprire alla meglio le parti impudiche del satiro di piazza Barberini, e si otteneva al contrario un effetto erotico raddoppiato, indecente.
Si dovevano attaccare alcune copie dell'estasi del Bernini agli angoli delle principali piazze di Roma, e si scopriva che la santa era un maschio, una specie di San Sebastiano vestito da monaca, con l'abito scorciato da un sarto esperto. Erano in molti a sospettare che dietro a questi fenomeni ci fosse un preciso disegno di deturpazione di simboli peccaminosi o altro, non semplici errori di operai che rubavano qualche statua minore per rivenderla a mercato nero. A volte l'effetto era l'esatto contrario della deturpazione come nel caso di draghi, mosche, pescioni e leoni, che nella nuova collocazione divenivano più buoni, figurando come protettori di piazzette e giardini. C'era un corpo speciale di fabbri e scarpellini a cui era stato dato l'ordine alquanto bizzarro di saldare assieme alcune statue di bronzo che raffiguravano i vari imperatori di Roma, solenni, in pose ardite. Ne risultava una specie di orgia storica, gestualità oscena e perversa, orribile a vedersi. Le monache, passando, aggiustavano il velo e abbassavano lo sguardo imbarazzate, mentre i preti ci perdevano gli occhi, allo scopo scientifico di capire se quell'obbrobrio era dovuto alla necessità di creare spazio per le enormi masse in arrivo, o alla fantasia malata del capo-saldatore in un'ora eccitata. Era umiliante per quei grandi condottieri saldare la mano alzata in segno di comando al didietro di un collega che andava a finire ricurvo sopra altri due appiccicati come due sardine al proprio cavallo. Ciò che gli spettatori scorgevano era solamente un gioco geometrico sito nella loro mente, o una bizzarra combinazione di materia dovuta al caso. Si spostavano statue, ma anche alberi, colonne e fontane, non sapendo mai per ordine di chi e perché. Ci si svegliava al mattino che era già stato fatto tutto alla chetichella, e buonanotte al secchio. Gli alberi li portavano fuori città e li trapiantavano dove capitava. Le cinque palme di piazza di Spagna si ritrovarono improvvisamente vicino ai pioppi e agli ippocastani provenienti da chissà dove e si seccarono subito, sconsolate, depresse, abituate agli elogi di Pan e di fanciulle in amore. Gli spostamenti più curiosi li subirono le colonne e le fontane, veri ingombri di pietra e d'acqua, nel mistico trasloco in Vaticano. Le fontane a bacinella le misero una sopra l'altra come una pila di piatti cupi per la minestra. Le colonne le legarono a pannelli col fil di ferro come asparagi cresciuti troppo o sedani giganti. Il grande spazio vuoto fu creato alla meno peggio. Era come un'enorme ciambella chiara, sbucherellata dalle mani di un bambino, fino a che non ci colarono sopra come cioccolato fondente, tonnellate di catrame e bitume che non asciugava mai, poiché i lavori furono fatti in autunno, stagione poco propizia e con fitte pioggie. La popolazione fu costretta per molti giorni a rimanere tappata in casa, con viveri e acqua razionati come durante la guerra. Infine fu Romarotta, che trastullava gioiosa gli avventori e li conduceva in ostelli e osterie a rifocillar le membra stanche per il lungo viaggio. Una Roma rifatta, rotta come voi vedete, che magna e beve e rifà, che butta tutto dalla finestra sopra la testa dello straniero di cui ha timore, sapendo che egli è il padrone. Alla salute vostra!