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versione italiana
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Conosci te stesso
“...ti hanno ucciso un figlio, dunque uccidimi al più presto”. Ma l’indiano rispose: “Quando i miei volevano ucciderti, io mi sono ricordato di mio figlio, ed ho avuto pietà di te. Non ti prendo in giro: torna dai tuoi, e continua a ucciderci, se vuoi”. E lo lasciò andare.
La sacerdotessa del sole amava le favole antiche e ne scriveva a sua volta, quando l’energia dorata cominciava a calare sopra le terre arse dell’estate piena.
Le avevano affidato un altro caso disperato. Lo avevano portato incatenato nottetempo, ed ora già si trovava in quei bellissimi alloggi, al sicuro, non si sa per quanto tempo.
Naturalmente, come tutti gli ospiti forestieri, anche quello era stato messo in condizioni di non nuocere più nè agli altri, nè a se stesso. Guardato a vista, mani legate in modo che potesse mangiare e bere e in più adempiere ad altre utili incombenze della vita quotidiana.
Aveva decapitato diversi ostaggi e mandato suo fratello a suicidarsi, imbottito di esplosivo, dentro a un affollatissimo cinema dall’odiato nome americano.
Ogni stanza della villa agreste, immersa in un tenue paesaggio d’uliveti e campi d’avena, aveva ampie finestre che davano direttamente sulla gioiosa operosità d’ogni specie conosciuta di piccoli volatili. Rondini, passeri, merli, colombi, tortorelle, picchi e tanti altri.
Mancavano quelli domestici, perché non erano abbastanza indipendenti.
Non era solo questa la colonna sonora delle lunghe, meravigliose giornate. Una musica continua usciva dalle mura, sonorità molto varia.
Il mattino e la notte era sinfonica, poi d’ogni specie e d’ogni paese del mondo. La voce umana s’udiva raramente e taceva pudica quasi subito.
Mentre l’assassino torvo, pieno di odio s’immaginava la morte di un ragazzo che volava col surf sopra un’onda altissima, entrò bussando la sacerdotessa del sole, come dovesse scuotere uno zombie.
“Non sei il solo assassino al mondo e non sono così speciali nemmeno quei poveracci dei tuoi simili. Se vuoi ti porto qui vicino, in un istituto di genetica dove macellano le bestie commestibili. Ti troveresti un po’ a tuo agio, ma forse non avresti lo stomaco. Sai, quella è gente normale che fa, ridendo, un mestiere infame per tutti gli altri umani. Non sono così zuccherini come te, che hai bisogno di proclami e giustizia divina per armare la tua mano. E se credi che eliminare un po’ del genere umano abbia tutta questa importanza, sei un illuso, carino! La vita continuerebbe ad agitarsi felicemente come al solito, allevando altri terribili americani e similari, sorridenti, sempre in piena attività. Sei qui perché tu sappia il minimo indispensabile e conosca di quale pasta sei fatto. Se sei un ritardato sarai curato con generosità, altrimenti farai da solo”.
Quello era sempre più torvo. Il suo odio cresceva a dismisura, per poco non esplodeva dal collo in su, facendo schizzare via la testa come risucchiata da un imbuto.
La voce di lei era dolce, suadente come quella di una benevola sirena.
“Mi fa ridere anche il capo che ti ritrovi. Se tu sapessi come era l’Europa tanti secoli fa, rideresti di lui e il suo carisma sarebbe zero. Quello che farebbe di voi uno spettacolo unico, là lo hanno fatto in lungo e in largo con teste coronate e poveri bifolchi. Ogni volta, ogni esecuzione era un gaudioso spettacolo da circo e il pubblico attorno beveva e mangiava soddisfatto. La vostra organizzazione è uno sputo nell’universo spazio temporale, rispetto ai veri guerrieri della morte, quelli dei tempi andati. Voi spaventate all’improvviso dei poveracci che stanno leccando il loro gelato. Quelli erano molto più temuti e il loro arrivo era immaginato direttamente dagli inferi a lì. Inquietudine continua. Desolazione. E coi gas, cosa vi credete di fare? Dopo i forni crematori, le montagne di ceneri. Io sono figlia di questa Europa e di quella scappata verso la costa americana. Potrei fare di te ciò che voglio, ma mi è sufficiente che tu sappia di non essere il primo e unico della storia umana a permettersi di sfogare la propria malvagità. Sei un pidocchio di odio rimasto attaccato alla criniera d’un pianeta in certi posti molto appagato, in altri scosso da carestie e tragedie bibliche. Non possiamo permetterci di perdere troppo tempo con te, dunque datti una regolata”.
Non ci crederete, lo so, ma io vi dico ugualmente ciò che accadde.
Il corpo dell’assassino, dalla rabbia, prima cominciò a tremare, poi eruttò pezzi di carne ed ossa, ad uno ad uno.
E non si ritrovò mai la testa, come non l’avesse mai avuta.
I più sono malvagi
Strana conversazione alla radio, oggi.
Mi sembra una certa Radio Community del Tennessee?
Non ne sono sicuro al cento per cento, ma i discorsi li ho sentiti davvero.
”Vogliamo essere malvagiamente sinceri? A qualcuno basta fare qualcosa di cattivo gratuitamente durante la giornata, anche inezie contro il prossimo, per sentirsi non dico bene, ma già meglio. La maggior parte del genere umano ha uno spiccatissimo sentore di ciò che può turbare la serenità altrui e agisce automaticamente di conseguenza. Tanto è vero che uno si meraviglia del contrario, scambiandolo per enorme gentilezza, mentre è semplicemente un riguardo, un pudore delicato. Ciò che distingue i malvagi pavidi dai veri e propri cattivoni, i serial killers, è l’intensità del desiderio a nuocere. Gli assassini occasionali sono a volte persone buonissime e stimate dai più che si meravigliano altamente a posteriori dell’estremo gesto. Molti suicidi sono assassini falliti, assassini impotenti. Gli attentatori, i kamikaze e compagnia bella, sono gli assassini coglioni, quelli che necessitano di camuffare se stessi dietro a gran pensamenti. Alcuni tra loro sono ex-pacifisti, o peggio ancora, megalomani poco dotati. Ciascuno ha il sentore di ciò che è, e, allo stesso tempo, desidera il massimo dalla vita. Ci sono dei genitori che pensano d’essere padroni, e con giudizio, dei figli. Alcuni tra loro uccidono i figli venuti male come bistecche bruciate, pensando che non sia poi così ingiusto. E ne fanno altri per rifare numero. Oggi questo è di moda, più dei figli assassini per soldi, inezie varie, esaurimenti nervosi abbinati alla famiglia come le torte dei compleanni. La guerra è un’altra cosa, va fatta per difesa, per giustizia, perché inevitabile. Chi è in guerra non è un assassino e raramente lo può diventare, perché l’assassinio è qualcosa di gratuito come la tortura, non avendo altro scopo che l’appagamento di odio, invidia, gelosia, rivalsa, vendetta. Non si può dare degli assassini ai soldati come fa qualcuno. E' ignoranza, malvagia menzogna, detta vattelapesca a che pro. Assassino è sempre chi provoca una guerra ingiustamente.
-Mamma, non ho la Coca-Cola, allora vado a fregarla all’uomo ragno.
-Vai pure, figlio, che anche se muori noi saremo ricchi.
“E scoppia un intero villaggio. Qualcuno dovrà pur dirlo che non si fa, ai cattivoni.”
Questi sono i discorsi poco scientifici, sottofondo d’una musichetta tradizionale, corroborante. Poi è saltata la frequenza.
Radio Independent o qualcos’altro dall’Ohio.
We are sorry. Timeout.
La carica rivela l’uomo
Frequentavo da un po’ di giorni lo scultore moribondo e il suo amico musicista, ancora giovane e pieno di grilli in capo.
Era un ambiente che mi andava a pennello, sempre in piena attività anche di notte, accogliente come un garage dove riparano le macchine rotte. Adesso che ci ripenso, quell’unico stanzone seminterrato sapeva di olio e benzina, di ferraglia con l’antiruggine, oltre che di escrementi, perché il bagno era sempre rotto e ci tiravano sopra l’acqua e la segatura alla meno peggio con un secchio sfondo.
Era quello che cercavo allora, oltre ad un pasto garantito, una bevuta in compagnia, qualcosa che mi dissuadesse dall’accoltellare il mio prossimo, in specie se stronzo, vale a dire, probabilità di omicidio al 90 x 100.
A volte s’univa al gruppo uno strampalato individuo sordomuto che sembrava molto interessato all’ultimo lavoro dello scultore. Passava ore a scrutare il suo scalpellare su una grande testa senza fronte, vuota dentro, con occhi bucati, naso greco e un’enorme bocca piatta.
Il musicista suonava diversi strumenti, ma il suo prediletto era un violone con le sei corde sempre da regolare, dal suono quasi cupo, il cui uso richiedeva calli dolorosissimi a delicate mani che ambivano al pianoforte.
Egli non riusciva a spiegare la sua assurda predilezione e ne dava benevolmente la colpa a quella statua, al suo creatore, asserendo che una volta terminata la testa, si sarebbe infatuato sicuramente d’uno strumento meno impegnativo.
In realtà sia io che gli altri pensavamo a ragione che costui non era certo un musicista, ma un dilettante di quelli un po’ spacconi che fanno gli artisti, perché non saprebbero che altro fingere d’essere di così raffinato e alla moda.
E c’era l’amata del povero moribondo, da tutti chiamata con sufficienza “vedova impeccabile”, una specie di monumento al femminile, alta e secca, sempre vestita eccentricamente nonostante un’età indefinita che molti sostenevano da matusalemme.
Ella era stata una danzatrice del ventre in giro per i paesi del deserto, corteggiata dagli arabi ricchi che la volevano ad ogni costo regina nei loro harem, non ottenendo che prese in giro e ammiccamenti.
Lei si considerava ancora sposata con uno scrittore disgraziato che l’aveva lasciata per la sua serva, quando aveva realizzato che la danzatrice non voleva avere figli, ma soldi e successo.
Fatto sta che la signora aveva cacciato nella tomba sia lui che la nuova consorte giovane. E ci mancava poco che morissero prima di lei anche i figli nati da quell’amore deprecabile.
Mentre la dama nera continuava imperturbabile e cocciuta a vivere, sfidando sia le leggi della natura che quelle dell’uomo.
Il suo unico scopo era vivere per vendetta il più a lungo possibile. Era rimasta sempre più sola in questo percorso di odio e sfida.
Allora prese a pagare alcune persone per assicurarsi di non essere sola nel momento del trapasso, ma le morivano prima anche quelle, dopo che aveva dovuto sganciare soldi per dare indicazioni precise sulle proprie esequie.
Fino a che aveva conosciuto a un’asta di beneficenza quell’uomo vecchio sul serio, malato, che aveva oramai poco tempo da offrirle in sua compagnia, ma al momento pieno di buona volontà, di forza per lavorare.
E poi era gratis e con un po’ di fortuna, visto che comunque era di diversi anni più giovane di lei, poteva morire un po’ dopo, a dio piacendo, non si può mai sapere.
Infatti lo scultore non aveva nessuna intenzione d’andare al creatore, almeno fino a che non avesse terminato la sua amata testa, grossa, ingombrante, magnifica.
Il sordomuto prese ad interessarsi anche al violone, spiando furtivo i momenti d’assenza del giovanotto vanesio, per accostarsi alla pancia dello strumento ed appoggiarci il capo.
Una scalognata mattina sparirono sia il violone che il losco soggetto e il debole musicista non si dette più pace.
Invece di passare agli altri strumenti dell’orchestra come aveva detto prima del misfatto, passò alla filosofia e poi all’aldilà.
Dispiacque a tutti. In fondo era un buon diavolo.
Il violone ricomparve misteriosamente verso la fine della stagione dei monsoni, ma tanto tutti sapevano che era stato il muto, che sordo non era di certo.
La vedova impeccabile ebbe l’onore di sentire anche la sua voce, la notte in cui danzava cantate e madrigali gentili un po’ goffa, come una giovinetta.
Fu la notte eterna, mentre quello la tranquillizzava, strozzandola pian pianino.
“Vedi, carina, ce l’ hai fatta, non volevi morire da sola. Ci sono qua io, durevole creatura. Muori pure in compagnia".
Infine è toccato allo scultore, ma lui è morto della sua malattia, più lunga del previsto. E’ morto tranquillo e soddisfatto, vicino alla sua opera finita. Era veramente bravo. Io ero il sordomuto.
Sappi cogliere l’opportunità
Verso l’aurora del 30 giugno è venuto a farmi visita in sogno una donna scura, vestita di tela indiana sottile e bianchissima.
Anche i suoi denti erano bianchi, come il riflesso degli occhi che non ho veduto distintamente.
E siccome il calendario dei sogni è fatto come gli pare e piace, in quella data per me era Natale, con tanto di addobbi, musichette commoventi, profumo di dolci, colazione fumante già bell’e pronta, da far saltare giù dal letto uno scarafaggio assopito al calduccio sotto il vecchio piumone.
Ella aveva in braccio un fagotto con una specie di bambolotto che non vedevo distintamente, ma pensavo che fosse un bambino dalla sagoma della copertina celeste.
Ad un certo punto era cresciuto e non solo camminava, ma s’era allungato vistosamente, movendosi pian pianino per la stanza, perché si sa che anche il tempo di crescere nel sogno è tutto a modo suo.
Egli sorrideva incuriosito verso me.
“Ecco, sono qui, perché così si abitua al Natale”, mi ha detto teneramente la madre.
Quando mi sono svegliata ho guardato le rondini che hanno due nidi sotto la mia tettoia, poi la magnolia fiorita da poco in giardino ed ho deciso di cercare prima o poi quel bambino, immaginando per un istante che mi stia aspettando da qualche parte del mondo.
A meno che non l’uccidano prima.
Allora non farei in tempo che nel sogno.
Prendi a cuore le cose importanti
Egli suonava la marimba all’angolo della mia strada. Strano strumento per Amadeus, ma il fare dispettoso e irriverente di chi è avvezzo a dire sempre la sua era rivelatore di chi poteva essere.
Al solito arrivava in tempo come la sua musica al mio orecchio distratto.
E parlava alla mente nel silenzio delle pause.
“La maggior parte del genere umano è per la morte. Pochi sono per la vita. Basta osservare come gli invidiosi scrutano i vivi, la bellezza, la giovinezza esteriore, quella interiore, la carica, ritenendole provvisorie, non definitive come la gelida morte. Ignorano gli stolti che la vita fiorisce ovunque, sempre, non si sa come. E persino qualche umano come me è eterno. Non posso essere modesto, perché l’ ho constatato da morto”.
“Vallo a spiegare agli uomini delle grotte - dissi io - se ci riesci ti offro da bere”. Al solito ero ombroso e molto infelice.
Quello rideva di gusto, ma di me che me la prendevo per inezie, come lumachina senza midollo spinale.
“Quando avrai staccato mille volte la tua ombra da te, capirai perché io mi diverto e tu no. Ed ho saputo farlo anche da corpo vivente, poiché avevo i miei trastulli musicali, la vita, non la morte, il niente. E’ solo per questo che i tuoi odiosi suicidi assassini sono stupidi e non andranno lontano. Come fai a dare importanza ad uomini che odiano la musica come fosse opera del demonio e non la cosa più sublime dell’universo, la sua vitalità? Stai pur sicura, cocchina, che finiranno presto. Del resto è ciò che vogliono. Ridiamoci su. Canta che ti passa. Là ci darem la mano, là mi dirai di sì!”
Nulla troppo
Davanti all’orologio nero col pendolo rotto che non scandiva più nessun tempo, nè lento, nè accelerato, ma oscillava lievemente come mosso dal vento caldo di scirocco che passava sotto alle porte chiuse, Ramon prese a scrivere ininterrottamente, come posseduto da una forza interiore. Egli si sentiva macchinalmente guidato da nitide visioni, sia del passato, che del futuro, come avesse in mano non una penna quasi finita, ma una sfera di cristallo che segnava un bizzarro presente.
Ogni cosa era chiara, al posto suo, come in una classifica dall’uno al sei, o dall’uno al nove.
A fianco dei fogli su cui scriveva a ruota libera, c’era ancora segnata la nota sulla ricerca di un grazioso mammifero, incontrato da poco, di cui doveva accertare il genere. Si trattava di una faina, o donnola, o martora, mustela, magari visone?
E come era arrivata lì la bestiola, ai bordi del campo d’orzo? Ne aveva intravisto la sagoma da lontano, ma aveva capito all’istante che non si trattava nè di un gatto, nè di un topo.
Ramon giocava mentalmente, cucinando piatti prelibati da vero chef. Quanti anni di giochi pericolosi rivedeva, sorridendo!
E nulla era ancora troppo, soprattutto quando si trattava di vita, numero uno.
Poi c’era e rimaneva eterna seconda, la libertà, una libertà totale, senza patteggiamenti o saggezza ruffiana, libertà selvaggia.
Quella che serve all’arte e alla scienza, mai abbastanza, quasi irraggiungibile, come il pozzo d’acqua, miraggio nel deserto.
Egli si ritrovava inoltre un fiuto sopraffino nell’indovinare gli avvenimenti prossimi e amava molto la ricerca della verità, della giustizia più giusta.
Non aveva mai capito coloro che fanno di tutto per sfuggire ad ambedue, come se non fossero messe là proprio per il genere umano, non si sa bene per quale imperscrutabile disegno totale. O solo per controllare ogni sua mossa maldestra.
A seguire, nella difficile classifica, ecco l’amore, che per Ramon era una cosa alquanto bizzarra, inspiegabile e rompicoglioni, a cui s’accostava come una serpolina saltafossi che non sa d’essere pericolosa.
S’era trovato nel mezzo di scelte obbligate, richiami della sua foresta interiore, scelte fatte per scarti e resti, con un sottile nodo alla gola. Ed erano quelli gli amori, quelli per cui all’inizio non spenderesti una lira, nè parole altisonanti, ma solo rimpianti per come si stava bene prima da soli, senza. Disperazioni di libertà perdute chissà dove, in cambio di dolci fetori d’ovile, d’appartenenza, inevitabili, a volte meravigliosi, a volte pesanti come macigni che non possono rotolare giù dal monte a schiacciare mosche e zanzare.
Eppure l’amore riusciva a scavalcare nella classifica persino l’amata bellezza, chissà, forse per un imbecillimento progressivo della mente pur sempre umana.
L’amore aveva ancora più vantaggio nei confronti dei piaceri, più leggeri, più incostanti, più aleatori della bellezza stessa. Misteri eleusini.
Di tutte queste voci nella sua classifica personale, Ramon continuava a pensare che non ce ne fossero mai abbastanza. Ma dove era la saggezza del “nulla troppo”?
Per lui era così lontana a venire.
Eppure la cercava dove era il confine. Difficile da scovare. Ramon si scatenava in ogni cosa che faceva e il limite s’allontanava costantemente.
Era felice? A volte tanto. Era sereno? Raramente. Era vivo? Sempre. Doveva semplicemente mettere insieme i pezzi con fantasia in mille modi diversi.
Forse, un giorno, ma gli occorreva più tempo, più ore di luce.
Ottima è la misura
Erano nate a distanza di pochi mesi. Loretta veniva in Italia d’estate dalla Svizzera. Era la più grande delle tre cugine. Fumava già di nascosto e aveva un ragazzo più vecchio di lei, un tipo alla Cat Stevens prima che si convertisse all’Islam. Appena ella arrivava, iniziava un gioco con la cugina più piccola, quella tonta, facendola girare a ruota, tenendola saldamente per le mani. Poi, all’improvviso, la lasciava cadere alla meno peggio come capitava.
La campagnola si rialzava a fatica coi bernoccoli e non rideva più. Andavano in giardino e Loretta cominciava ad impartire le istruzioni del caso. “Non si può tenere gli asparagi a crescere tra i mughetti, non ti vergogni?”.
La campagnola adorava mangiare gli asparagi e odorare i mughetti e sopportava ogni critica, perché pensava che sua cugina non era poi così cattiva come voleva apparire.
Gli adulti dicevano che Loretta era così perversa, perché suo padre se n’era andato di casa, rubandole i pochi soldini del salvadanaio.
D’inverno la sempliciotta cugina giocava invece con la Licia, nella casa disabitata degli zii svizzeri, prima d’andare al garage della casa in costruzione, o agli autoscontri, dove erano attese dai vari amichetti maschi, quasi tutti dietro alla Licia in minigonna, calze fine, tacchi alti e a volte già truccata da grande anche in faccia.
Nella stanza della zia olandese c’era un armadio pieno di vestiti, e dentro ai cassetti tanti gioielli finti, boccette colorate di profumi acquistati a poco, al reparto del grande magazzino dove la zia era commessa cassiera.
Le due giovinette giocavano alla serie televisiva “I banditi del re”. La Licia sposava un conte e diventava ricchissima, avvolta di perle e piume di struzzo. L’altra invece scappava con tale bandito Morgan, e viveva un’avventura dietro l’altra, vestita da maschio.
Oggi, dopo tanti anni, le tre cugine si sono ritrovate a prendere un tè assieme.
Eccole qua. Loretta è diventata la più brava mammina di questo mondo, con tre marmocchi da crescere assieme ad un amorfo signore svizzero, occhialuto e serissimo.
E fa assistenza sociale a bambini difficili.
La Licia ha accalappiato il proprietario di una catena di alberghi e vive ai bordi di una piscina anche d’inverno, cambiandosi continuamente abiti e gioielli a seconda dell’ora del giorno.
La cugina più piccola è diventata più cattivella. Gira come una treggia il mondo, in compagnia di un bandito dei computers, strano tipo di nome Bambi.
La contadinella ha inoltre imparato un po’ a vestirsi e a non farsi scaraventare a terra.
Possiamo dire a ragion veduta che la vita è andata a pennello a tutte e tre.
Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole
Juan era un ingegnere informatico, pallido superfumatore, freddo come un frigorifero regolato al minimo.
Da un po’ di tempo lo avevano mandato agli uffici della polizia addetta ai crimini in rete. Lì restava anche a mangiare, dormire e a fare altre poche cose davanti ai computers zeppi di siti del mondo intero, minacciosi, infettati, gli ultimi in via di guarigione dagli attacchi dei turchi e dei brasiliani.
Si sentiva come un soldato al fronte, a cui di volta in volta affidano una missione ad alto rischio. E agiva di conseguenza, implacabile, lavorando accuratamente per annientare i suoi nemici.
Andò a finire che fu arruolato sul serio dall’esercito delle nazioni terrestri in guerra contro una bizzarra setta araba che aveva dichiarato guerra al resto del mondo, rivendicando il diritto al dominio totale in nome di un vecchio cammello del deserto, che quella adorava come incarnazione del dio petrolio.
Nascondevano accuratamente la povera bestia ignara assieme a cibarie prelibate, in grotte scavate appositamente per salvarlo dagli attacchi dal cielo e da terra, perché doveva restare vivo per compiacere con la sua presenza i fanatici mandati a morire per sterminare i nemici della nuova religione mondiale.
L’esercito aveva chiamato il nostro esperto informatico, perché esaminasse attentamente le esecuzioni capitali che quei fumetti macabri mandavano oramai incessantemente in rete, per convincere tutti della loro cattiva superiorità, chiedendo in cambio vesti sempre più suntuose per il cammellone, mentre loro restavano sempre più conciati, armati fino ai denti.
Le esecuzioni erano accompagnate da assurdi proclami in siti fatti veramente in maniera pedestre, brutti a tal punto da indignare Juan più del fatto che bene o male vedeva continuamente scene da brivido.
Finora egli aveva rintracciato alcuni server di paesi europei e analizzato le espressioni più pittoresche dei nuovi profeti con il migliore traduttore automatico.
Era nervoso, perché non poteva aiutare di più a rintracciare i covi veri e propri dei beduini impazziti, guardando a vuoto un omicidio dietro l’altro.
Per reazione alle scene che osservava dalla mattina alla sera gli veniva il gran ridere, immaginando che non fossero poi così tremende, poiché dopo un certo lasso di tempo subentrava fortemente il ridicolo.
Forse era un bene farle vedere nelle scuole ai bambini, perché non avrebbero avuto paura, di sicuro meno che a immaginarle.
E poi i piccoli hanno uno spiccatissimo senso del grottesco. C’era sul serio da ridere a farci l’abitudine, con quegli omaccioni incappucciati alla meno peggio coi fuciloni lanciarazzi branditi a scimitarra.
E il povero boia, con quella specie di roncola ammazzacapponi, buona anche per spaccar legna, appoggiata alla spalla abbassata per sovraccarico, cogli occhi da coniglio sotto ai buchi della stoffa nera! Da sbellicarsi.
Siti arabi fatti da programmatori per modo di dire, antiestetici, poco funzionali. Siti arabi delle teste mozze. Hai voglia a sbattersi. Ma si può usare al contrario la scrollbar, perché i testi vanno letti da destra a sinistra?
Almeno imparate a tradurre questo, altro che rapire la gente per un cammello.
Juan giurò a se stesso di non farsi vedere così ironico e sorridente dai militari, ma di scovare da solo il cammello e riconsegnarlo al deserto, se mai avesse scoperto un qualsiasi indizio sul luogo dove era custodita la grande bestia gobba.
Bada a te stesso
Ho perso la memoria lentamente, in un modo che mi permette di tanto in tanto visioni d’una bambina capricciosa in un orto, poi un’adolescente rotonda e altezzosa che lavava i capelli, scotendo la testa come un puledro in una stalla sozza, e poi più niente.
Nel prosieguo ho incontrato monache buone, professori amorevoli e palestre che non facevano per me. E ancora teatranti massoni e galantuomini per cui ero un’amica povera. E poi professori cattivi e politici invidiosi e vendicativi, perché non avevo più tessera alcuna. Ho rifiutato bricioline e compromessi troppo rasoterra.
Un giorno, colma di speranze giovanili, sono andata a visitare una villona campestre, sperando d’incontrare un editore toscano su consiglio di un amico fantasma, ma ho trovato solo i giardinieri, i cani da guardia e cartelli di divieto di parcheggio.
Sono andata a conoscere due giornalisti molto popolari di opposte fazioni. Ho trovato molto alcool, smarrimento, poi botte da orbi e disprezzo. Una vecchia portiera saggia mi disse che era una fortuna la mia diversità, di non buttarla via per tali personaggi. E che appena fatto abbastanza danaro, anche lei se la sarebbe svignata a gambe levate. Gambe mie non è vergogna!
A testa alta, decisissima, ho preso la mia via traversa con entusiasmo, senza rimpianti, senza mai voltarmi indietro.
Adesso ho ancora intorno alcune figurine di quel passato, come in un teatrino mobile o nel nastro che fa girare i bersagli da colpire per vincere i pelouches alle fiere di paese.
So di adempiere a precisi doveri di razza e di famiglia e, nel parlare, nell’incontrare, nel sorridere con tali figurine di presepe, mi sento bene e a posto, avendo la perfetta consapevolezza di non ricordare bene nulla, d’inventarmi così solo una maniera dolce d’interagire con qualcuno.
Mi sento buona, un angioletto.
Lavoro, aiuto, soccorro, perdono, come avessi un paio d’alucce fluorescenti sulla schiena d’adolescente scatenata.
Ironia della sorte, saggezza segreta dopo amari bocconi, lacrimucce infantili, capricci da primadonna esaurita e un po’ stupida nonostante estemporanee genialità.
Questi sono i criteri con cui mi do una regolata ogni tanto. E funziona che è una meraviglia.
Non desiderare l’impossibile
Una specie di mammalucco era il vigilante della grotta nera. Si vedeva raramente la sua sagoma enorme stagliarsi controluce, l’unica luminosità che penetrava a certe ore del giorno dentro alla prigione. Ero lì dalla nascita e non conoscevo altro in questo pianeta infelice.
Sono cresciuto nella grotta del mostro, spiando ogni sua mossa, ogni sua debolezza, ogni occasione per svignarsela verso la luce, ma c’era sempre quell’enorme ammasso di carne disumana ad ostruire il buco d’uscita.
Il mostro invece era più piccolo, molto barbuto, secco secco, e dominava tutti con la furberia, la malvagità estrema.
Una volta cresciuto ho iniziato a pensare seriamente di essere di un’altra razza, visto che niente di ciò a cui aspiravo era lì dentro, nè lo sarebbe mai stato.
Mi piacevano fiori violacei che nascevano tra la sabbia della grotta umida, i bagni nel fiume sotterraneo quando non c’era più nessuno, nei lunghi giorni della guerra sopra la grotta per sterminare liberatori invisibili mai giunti fin lì.
Cominciai molto presto a sperare di vederne spuntare qualcuno prima di morire per vecchiaia o malattia di caverna, una peste che prendeva alle ossa per l’umidità eccessiva.
Stando quasi sempre al buio mi facevano male gli occhi nello sforzo di guardare lontano verso la luce che filtrava, nella speranza che cadesse improvvisamente il mammalucco del mostro colpito a morte.
Avrei voluto andare là sopra e scappare, ma non ne avevo il coraggio e il mostro era troppo astuto per non essersi accorto delle mie intenzioni, o meglio, mi credeva terrorizzato dalla guerra e dalla morte.
Ero disprezzato da tutti, come le donne che servivano cibo e lavavano il mostro e le sue vesti.
Qualcuno rideva senza denti dei versetti che segnavo sulle parti bianche del mio consunto Corano.
Un giorno come tanti altri, mentre contavo i peli bianchi della barba per capire la mia età, il mio stato di deterioramento, galleggiò nell’acqua sporca di sangue la montagna di ciccia del mammalucco.
Ero terrorizzato, al pensiero che la colpa potesse ricadere su di me, l’unico rimasto sottoterra.
Anche le donne erano salite a combattere da qualche tempo e non tornavano più.
Come era potuto succedere dunque? Che il mammalucco avesse sbattuto contro una roccia solida accidentalmente?
Poi entrò un bambino soldato, senza peli, pallido e liscio, ridendo.
“Hai fame?” mi disse. “Tira la coda al cane”.
E poi: “Hai sete? Tira la coda al lepre”.
Era la mia lingua.
Io scappai verso la buca d’ingresso e vidi un cielo notturno pieno di luci.
“Lucciola, lucciola, vien da me. Ti darò il pan del re, pan del re e della regina. Lucciola, lucciola, vien vicina”.
Non c’era più nessun mostro. M’aveva fatto vedere il firmamento un bambino armato fino ai denti.
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