Prosa
» Romanesque
» Allo stato brado
» Girandola
» Sette Sapienti
» Recreation
» Mandala
» Cavalieri erranti
» Sabba
Poesia
» Oltre cortina
» Un filtro amoroso
» Plautinus
» Cieco mondo
» Plancton
» Jack O'Lantern
» Pastelli Giotto
» Mab
» Preludi a Lutin
versione italiana
english version
|
|
Non siete voi a distruggere natura
capace d’adattarsi ad ogni aberrazione.
Dopo la profanazione è lei a distruggervi.
Quando passa il cantore
come un vecchio prete sulla salita
che aspetta i suoi ultimi giorni
chiudi subito gli usci
poiché la morte è al suo fianco.
Non credere che sia il vento
a smuovere i campanelli.
Serra la porta al cantore.
Gennaio bifronte guarda all’anno trascorso
sperando che il nuovo sia migliore
e banchetta col boccale di vino.
Ha tagliato la legna con la scure
ecco, la fiamma divampa.
Febbraio prepara gli arnesi
per i mestieri di marzo
che pota e aggiusta i vitigni.
Aprile annuncia la resurrezione
e maggio scatena le guerre
perché l’uomo ha bisogno di queste
per calpestare veloce la terra.
Giugno miete altissime spighe
che sfamino in abbondanza.
L’aiuta a terminare i lavori
luglio senza una mano, con la falce rotta
ma un grande sacco zeppo
e agosto raccoglie i frutti
battendo i cerchi delle botti
che settembre riempirà di succo d’uva.
Ottobre barbuto semina stanco
novembre chino e splendido
fa il raccoglitore di rapi
fino a dicembre che scanna il maiale.
Poi ricomincia il giro della ruota
sotto un firmamento sconosciuto
ancora da esplorare all’infinito.
Vieni fuori dal cono d’ombra
lascia i fogli strappati
eremita musicista alieno.
Non vedi dove siamo?
Cerchi tuo padre in cielo
e sei sospeso come un vampiro
tra qui e il niente. Anche tu
ora sai che c’è solamente
questa ora di cicale al campo
come le note.Riprendi a suonare
anche se sei morto misteriosamente.
Non vedi che siamo assieme?
Guarda, voliamo. Beirut è in guerra
quanto fumo. C’è tuo padre?
La chitarra è sopra la collina
come se Marc fosse qui
a dipingere nervosamente.
Ci ritroviamo Sid, adios
suonerai per sempre, è chiaro
ed io spargerò i miei lamenti.
Le mucche pascolano al muro rotto.
E’ il posto incomprensibile
dove ti trovi adesso.
Il tuo spettro elisabettiano
s’esibisce con le cicale nel campo
e spia la mia terrazza
dal cono d’ombra. Io rido
Sid piange disperatamente.
Sono stato avvelenato da giovane.
Impazzito vagavo in terra, come fossi
tra le stelle che non cadono mai
disegnate accuratamente da qualcuno
che studiava i loro chiarori
come origine delle cose più belle.
Mentre in molti pregavano gli dèi
io seguivo il cantore cieco
cui avevano strappato gli occhi
perché non giudicasse i suoi re.
La burrasca porta ancora in giro
atomi invisibili del mio corpo
che cadono sopra il tuo mondo
incendiato da mani assassine
vicino alle colonne d’Ercole.
E scorgi una guerra in corso
chiedendo quanto durerà. Tu vuoi gioia
tra fanatici, idoli, preghiere
perché avvenga l’esplosione del tempio.
Gente che segue profezie sciagurate.
Non avere timori inutili
e se puoi conserva i miei atomi.
Sarai cullato dalle maree
Arturo ti sorprenderà a sorridere
immaginando gli anziani studiosi
dentro ad ogni tempio ricostruito.
Natura crea e disintegra le cose
più d’ogni scellerato e potente.
Ma dopo il tuono, ecco l’arcobaleno
e mai cosa muore del tutto.
Sia questo motivo di giubilo
senza dannosa esaltazione, o fede.
Qualcuno apre gli spazi bianchi lasciando i numeri, le scansioni
e non torna più indietro, tra le rovine
che la storia accumula senza riguardo
l’una sopra l’altra. E templi, e chiese
teatri di sbranamenti, sinagoga, colonna spezzata.
Da dove vengono fuori le disgrazie umane?
Dal vaso di Pandora, acquistato
al mercato dell’usato occidentale.
Stupidi assuefatti al benessere
si scoprono ancora più vigliacchi
di fronte ai palazzi d’oro
le regge imbottite di razzi.
Attorno muoiono di fame
sete, aids, lebbra, malaria.
Chi penserà a loro? Chi va a morire
per amore del prossimo, malato
di perdono, di presuntuoso dolore
o chi va a morire per odio
contagiato da invidiosa follia?
Nessuno che accumuli nell’ombra
i simulacri della contesa.
Perché siamo giunti qui
dopo splendide distese
di natura e storia d’altri tempi
depositate a caso in ogni dove?
Turisti che vagano tra numeri
scansioni che aprono gli spazi bianchi
e non tornano più indietro.
Un bagno immenso di sangue.
C’è sempre una panchina su cui sedere
un’ombra d’albero amica
una chiesa da visitare
un cappottone per il freddo
che sogni nudo d’estate.
Un amore immaginario
uno che squilla impaziente
e che poi non farà niente.
Un caffè da bere digiuno
come fosse un’ostia sacra
una telefonata da fare
che non farai mai.
Una bici parcheggiata male
un genitore, o parente assillante
a rompere quelli che non hai
che metterai, strada facendo
quando imparerai anche tu
che fortuna è essere fuori
giocare con la pace dell’ora
mentre gli altri fanno solo la spesa.
Sbagliare, annusare, scappare
e riparare con riso amaro.
Visitare siti senza pagare, campare
quando in molti vogliono crepare.
Un giorno in più allora
è tutto l’oro del mondo
nella tua stagione naturale
in cui aspiri ad un baccanale
per finta, perché non sai
se andare avanti o indietro
indietro o avanti
e forse lo scoprirai dopo.
Stagione naturale, terminale
intesa come centrale, micidiale
per amore, desiderio e l’ombra.
Ignoro chi mi ha chiamato
la nebulosa Civetta.
Ogni mille anni terrestri
che sono molti di meno per me
cerco di mostrare qualcosa
che mi rassomiglia, che rappresenti
almeno un desiderio, un impulso
per chi ha modo d’osservarmi
più o meno da vicino.
L’incanto, col passare del tempo
dura sempre di meno
e allora torno a fare
ciò che indica il mio nome.
Mi stanco di mostrare pareti
mobili e monili luminosi
e quando me ne vado, oscuro
chi si trovava a fianco, spingendolo
in un prolungato rimpianto.
Ma io devo seguire le leggi
che governano da sempre i cieli
distendermi come posso sopra il nero
e godermela a distanze abissali
da quassù scrutare i miei vicini
le peripezie che fanno per respirare.
A me basta una visione perfetta
occhi aperti sul silenzioso andare.
Quando è crollato il vecchio ponte
sono caduti in acqua quintali d’oro
che prima si specchiavano vanitosamente.
I più grassi delinquenti piangevano
con le loro mogli sfatte
perché erano lì per comperare.
Solo la statua dell’antico orafo
ridacchiava tutta soddisfatta.
Passò un garzone in bicicletta che cantava.
“Dormiva, moriva, ma cercava l’amore.
Perché non affoghi anche tu?”
Il sole fece capolino dalle torri
e l’uragano del 2017 cessò.
I musicisti inglesi per primi
tornarono sulle piazze melmose
e occuparono la città per sempre.
Ancora sulle acque verde ramarro
galleggiavano ciabatte e zaffiri.
Amici che adorate il tramonto
sopra paesi scavati sulle rocce
presepi sorti attorno al mulino ad acqua.
Il mugnaio vive come vostro custode.
Non fate bruciare i boschi marini
dove, quando finisce il sole
voi raccogliete funghi e lamponi.
Non mandate per il mondo
i vostri figli e nipoti.
Restate sospesi lassù, con la grande madre.
Uscì dalla banca centrale
con la cravatta e i capelli al vento
la valigetta sempre più vuota.
Due gendarmi lo guardavano severi
e due preti erano scandalizzati.
Un aroma di bistecca catturava
ciurme d’affamati attorno alle colonne.
Non volevano visitare musei
ma andare per osterie
rimediando gli avanzi a stento
e farla per strada, bestemmiando.
Rientrò alla banca centrale
senza aver toccato cibo
emaciato, senza valigetta.
L’aveva lasciata in custodia ai palazzinari
come pegno per una casa in centro.
Finirono tutti dietro le sbarre
e quando lui uscì
divenne statua vivente a Piazza Navona
di ciò ch’era stato realmente
un sorridente impresario impazzito
con cravatta e peli sporchi
scolpiti per aria col gel.
Chi passava rideva sarcastico
lanciava monete, scattava foto.
L’elegantone si salvò, quella sera infernale
quando il Tevere straripò.
Oggi è rimasto solo
con le attonite statue.
Non c’è passante, né facile elemosina.
Se entrate nel territorio dell’alce
lì comanda la sua prole e il vento
che l’aiuta a scavare le buche.
Se ti fermi alla stazione della prigione
non ripartirai che a fatica
dopo aver fatto opere pie
per finta, per spiare. Prova
ad evadere dal salone di bellezza
e tieniti unghie sporche, capelli incolti.
E’ meglio che sembrare una mummia
esposta al museo dei rifacimenti.
Mirna, fatina dai capelli bianchi
ha fatto bambini come lei
e sono splendidi sotto la pioggia
che cade abbondante ad Helsinki.
La stessa solitudine accompagna
ancora una fuga dalla prigione
ma ora conosci le regole
le direzioni giuste, e scarabocchi
ad ogni frenata del convoglio
ignorando culi inamidati
cercatori di clandestini morti
e gran signori dallo sguardo volgare.
Mirna t’invita a mangiare
il dolce al ribes e cannella
con un thè molto orientale.
Sì, sono io, qui tutto bene
finché si è vivi. Arrivo.
Dormirò nella buca della renna
e l’orso che passa mi risparmierà
perché è goloso solo di fragole.
I sapienti avevano già annunciato
che il dio era solo di passaggio.
In un punto preciso del globo
c’è la riunione straordinaria
degli ultimi uomini santi.
Lasciano la loro religione
perché non credono più a niente
e sembrano felici, appesi al cielo
come pionieri del firmamento.
Qualcuno ha nascosto in cuore
segreti inconfessabili. Una divinità
tenuta a lungo per comodo
ad infiammare fedeli e profeti.
Chissà come sarebbe senza altari
a dialogare con omega centauri
o con stelle talmente distanti
da scorgerle solo ogni tanto.
Se uno ha lo spirito a pezzi
può sempre aprire la finestra
sulla buia notte calorosa
immaginando dietro lo scenario.
Forse Venere avrebbe più luce
rendendo l’umano più calmo.
Attorno a queste terre
comando io, come un despota
come il coccodrillo nella palude
della mia città fantasma.
Il papa bianco riceve gli angeli
e quello nero scaccia il demonio.
E’ brutta stagione oramai
anche per i meteorologi
fino a che il fiume infuriato
non farà pace con la gente
che ha cacciato l’artista
ed ha curato il mostro peloso.
E’ un fiume che muta colore
ora è verde, ora è giallo
ora grigio e marrone
e tutti lo odiano. E’ spietato
vendicativo, maleducato.
Non rispetta chi vive lì vicino
e non guarda in faccia nessuno.
Quando ha voglia di uscire, esce
sazio di piogge atlantiche.
Anche senza molta acqua
uccide chi lo fissa
che precipita volontariamente
entro l’onda cheta ed assassina.
Dicono che io abbia una bella bocca
e degli occhi che bucano il silenzio.
Non faccio rumore alcuno
quale lago melmoso, puzzolente.
Appena posso butto giù
le sagome sopra i ponti d’oro.
Di tutti i fiumi sono l’infernale.
Sono conosciuto, temuto come tale.
Io sono il fiume dell’Ade.
1 Se non ti trovi bene nel tuo mondo
vieni in un posto più selvaggio.
Lì spira il vento Pazzacchione
che entra nelle orecchie sporche
un po’ dure a recepire
i rumori sfondi del pianeta.
Una volta dentro ai padiglioni
Pazzacchione non esce più
e tu vivi coi fischi continui
finché lui non ti divora
e ti spedisce ancora più lontano.
E’ un vento molto galante
che fa tornare a casa senza scarpe
le ragazze in libera uscita
come statue scalze e nude.
2
Se ti trovi bene nel tuo mondo
le pietre ti faranno impazzire
messe l’una sopra l’altra
da geni morti da troppi secoli.
Di voi resterà poca cosa
poiché la natura aiuterà la storia
a cancellare i nomi che vi siete dati
l’un l’altro per considerazione.
E’ già iniziato l’ultimo atto
inutile modificare il copione.
Immensi fantasmi s’allargano
sopra di voi a chiedere vendetta.
Io non vorrei essere lì
nei vostri posti abusivi
che dovrete lasciare in fretta.
Toccherà a voi, infine
scappare come evasi
dalla nuova legione straniera.
Mentre cresceva l’erba
la tagliavo con dita incollate
ed essa ricresceva di nuovo.
Andy mi ha detto dell’ultima cena.
Ho bevuto thè, caffè, vino, birra
aspettando che arrivasse la luna.
Nessuno ha mangiato cioccolatini
nessuno beveva, ed avevano nasi paonazzi.
Andy mi ha ammonito: “Ehi, Nico
ora non credere a chi parla di me
come un’anima santa del paradiso”.
Sei preparata per ogni cosa proibita
e se quello in cui credi
varcasse l’oceano e l’aria
alla fioca luce calante
ordineresti un’esistenza inconsueta
con un matrimonio pressappoco perfetto
e il funerale dell’infante di corte.
Farà in tempo a finire i gessetti
con cui scarabocchia l’aria
pensando a mappe favolose
come fossero quadri d’autore?
Il tempo scorre tic e tac
e quando c’è il sole pieno
lui mette i guanti di lana
e quando fa un freddo boia
lui va seminudo, vagando.
Spettinato, incurante di sé, della via
è un umano che fa effetto
da una vita sull’esteta profondo.
Amo una specie di scienziato
dietro alla materia del cosmo.
I suoi progetti su tutti i muri
sono la mia trama naturale
su cui adagiare volentieri
i regali del senno selvaggio.
Oscillazioni d’atomo. Non è niente.
Lunghe ombre dalle foglie, dai rami
squarciati da esplosioni rossastre.
Forme estranee invadono la valle
e muoiono in tanti gli uomini
poi ne rinascono altrettanti
sotto la luce che corre in salita.
Quante offerte al disegno divino
alla provvidenza che manca all’appello
t’aiutano a sconfiggere la paura
prima di vedere ad occhio nudo
che mentre tu vivi oscillante
molto si decompone, lasciando
che sorgano ancora i pianeti.
Ho passato stagioni di ballo
poi quelle disperse agli umori
altre ancora di duri lavori
e poi le riposanti pensate
che t’avvicinano alle galassie.
Ed ogni desiderio, malattia di potere
avidità per cosa provvisoria
si disfaceva e ricomponeva veloce
sopra mucchi di carbone ardente.
Oscillazioni d’atomi, prima e dopo.
Non ti ricordi di tanto
dovendo cominciare daccapo
mentre i mutamenti avanzano
e divorano insaziabilmente.
La splendente indifferenza
ti conduce con mani di velluto
dove il giorno sorge due volte
e la notte ricopre per sempre
ma tu sei ugualmente gaio
di proseguire per la via lattea
come umano goloso, fetente
alla ricerca di curiose dolcezze.
Con la giusta misura, con l’occhio
fisso altrove. E intanto vivi.
Dove ci condurrà questa mano leggera
il serrare le palpebre al vento
osservando i fenomeni naturali
dal finestrino del cesso umano
sul treno di un’unica classe
con signori e cafoni d’ogni età
ignari del metro che siglerà
i centimetri di lunghezza e larghezza
da mettere in un forno a mantenere
o a bruciare per pochi secondi?
L’esistenza della vecchia ragazza
è l’esplosione di una stella immensa
talmente luminosa, polverizzata
in invisibili pezzi di conversazioni
nasi in su e in giù, bocche
da una cartolina multicolore
con su scritto: “Io ti voglio bene”
nei molteplici linguaggi umani.
Questa ballerina d’altri tempi
nascosta sotto spesse lenti
guarda malamente il fiume
alla ricerca d’una polverina
che la ricompatti nell’immensa luce
frammento su frammento luccicante.
Essa non ha più nome e cognome
se non per gioco. Lei ora è Pulsar.
Cercava il sole tra la nebbia
un difficile equilibrio del cielo
che non riusciva a decifrare
quando il giorno diviene
come buio e non cambia mai.
Era la prima ed unica volta
che usciva per nuove terre.
Sentiva le sue gambe fiacche
il pensiero stava setacciando
una maniera diversa di vivere
che non era niente male davvero.
Ognuno poteva sognare, divenire
ciò che fa sorridere sempre
sfregando soddisfatti le mani.
Bastava che sfumasse la nebbia
ci avrebbe visto più chiaro
sulle sue pagine vuote
avrebbe preso forma lo spartito.
L’apparenza del passato, i riti
le false verità, le recitazioni
del rosario al desco dei potenti
ogni cosa sparì nel mondo nebbioso.
A poco a poco sentì una forza, un moto
pulsione verso l’ingresso al sole
e il cavaliere proseguì
nella splendida cavalcata
tra le nubi bigie di pioggia.
Avvertì il brusio aldilà
d’una vivace popolazione
una tribù nipponica d’artisti
custode, protettrice degli avventori.
Il sole infine filtrò tra i fumi.
E’ inchiodato ai suoi ritratti
quasi volesse saltarci dentro
assorbito dal povero Triska
o dall’esile russalka a trecce.
E’ una bizzarra galleria.
Una femmina è morta stecchita
confusa tra un ladro e un assassino.
E’ solo il triste principino
piange, bagnando i suoi pizzetti
mentre il ricco saltimbanco
insegna l’arte dell’illusione.
Il saggio ascolta ogni sospiro
soppesa la sabbia della clessidra.
Una ragazza cuce la gonna
per ballare alla sua festa
e fuggire nella grande città.
L’indagatore rilegge ogni libro
alla cerca di nuovi misteri.
Confusione in questa mostra
senza autori, presentazioni
senza età, né gioco diabolico
tra quadro e uomo che non invecchia.
Una ricerca appassionata
di parti giuste per l’attore.
Gli s’addice un certo rigore
un giorno in più per la cipria
sbaciucchiare dietro al tendone
vivere quasi miseramente
poiché più estetico del lusso.
L’invisibile sorella è lì
esposta controsole. Attende
pazientemente il suo turno
mostrando solo il netto profilo
d’una smorfia ironica, annoiata
dal fumo insolito che sale su
dopo una notte sotto tempesta.
allo specchio si vede intera
le succede molto spesso
di sbagliare i connotati.
Ma noi dobbiamo immaginare
come sarà la sua parte mancante
che adesso dorme soddisfatta.
Perché è sempre una sorpresa
la luna quando si riempie.
Quale richiamo della foresta
ci fa tornare quasi bambini
che vivono attorno alla torta ripiena?
La pianta cresce, la bestia ruzza
ed io vedo l’artista tenue
che incede con scarpe strette.
E’ pronta l’astronave che trasporta
chi vuole andare altrove
verso un posto illuminato
riscaldato da due o più soli.
E’ un rifiorire continuo d’ogni cosa
sotto ai molteplici raggi spioventi.
Le notti rilucono altrettanto
di più lune, stelle senza nome
pressoché ignote alla scienza.
E’ un posto particolare
dove alcuni possono stare
ed altri s’ustionano facilmente
prima d’uscire fuori di senno.
Ecco, partenza accelerata.
Chi resta a terra è sfortunato
chi va via ha tanti soli
e può giocare quanto vuole.
Scendono giù le ombre dai castelli
sino alla valle del fiume assassino
dispettoso bambino. Alle torri sopra le ville
i campanili, le culle dei poveri, dei ricchi
e i mazzi di fiori per gli affogati.
Nella terra prigioniera di despoti strani
incestuosi, malsani. I belli sono tristi
i liberi tornano prima di morire.
Firenze non c’è più da tanto
da quando litigarono con le acque
per terrore delle parole di un libro
nei giorni in cui il falco pellegrino
costruì il nido sotto la cupola.
Affacciato sopra il passeggio al corso
interrompe la sua partita a scacchi
annoiato. Non sa cosa comprare
è troppo ricco per gioirne.
E’ del genere umano
e non può che essere infelice
quando chiude il mercato del mondo.
Che cosa farà del suo tempo
non serve a niente, a nessuno.
Può bruciarlo e gettarlo nel Gange
o fermarlo in passerella
fingendo d’essere il padrone
d’una manciata d’anni asfittici.
Personaggi che credeva eterni
sono destinati all’estinzione.
E’ stanco dei loro nomi
e non gl’importa più molto
di salvare l’animale e la pianta.
Ogni cosa di cemento armato
gli rassomiglia, l’accompagna.
E chi è felice, è illuso per poco
chi non lo è soffre spaventato.
Né l’uno, né l’altro ormai
gli sono a fianco passo a passo.
Ha già la faccia di bronzo
e tra un po’ inevitabilmente
sarà il convitato di pietra.
Codice bianco. Tu cammini
sopra la panna montata. Leggera
una nuvola pulisce la strada
e tu indossi il vestito della cresima
candido di trine e pizzetti.
Denti bianchi ti ridono dall’alto
e qualcuno che non ne ha più
ti chiama da sopra le scale.
E’ tuo nonno che vuole il tabacco
per la sua pipa biancastra.
La madia è infarinata
e la vecchia gatta Pina
s’è sporcata tutti i baffoni.
Codice rosso è il burrone pietroso.
Tu con gli occhi chiusi
che saluti il mondo per sempre
mentre la macchina sbatte
rimbalzando sullo strapiombo
e ti salvano due zolle di terra.
Una stanza rossa, una poltrona
con l’amore naturalmente
che si muove sotto i vestiti
incendiando le guance di gocce.
La lunga discesa sconnessa
da ogni preciso orologio
e l’amore ha i suoi tempi sudati.
Il codice verde sei tu, corridore
l’energia d’ogni giorno che nasce
velocità e canzoni che finiscono
l’una dietro l’altra, non importa
poiché ne trovi di nuove.
E fuggi, fuggi, cercando
paesaggi per la tua storia
che finirà comunque tranquilla
sotto una scala bianca
mentre fumi una sigaretta bianca.
Avrai addosso un benessere rosso.
I Misteriosi passaggi, soffi
dalla materia finemente lavorata
fan sì che da voce a voce
si trasmettono messaggi nella nebbia.
Non da fantasmi a vivi
nel buio della notte eterna
ma da similitudini atomiche
che a volte s’intersecano, s’attraggono.
Elementari intercettazioni
in luoghi particolari, vacui
possono colpire i nostri sensi
a tal punto da non distinguere più
dove c’è immaginazione pura
e fatti alla luce del sole.
Inevitabili carichi, eredità
di chi ci ha preceduto
nel bene, nel male
in grandezza, in miseria.
Senza chiedere nulla, semplicemente
gli avi vogliono vivere ancora.
Senza cerimonie, allergici
ad ogni ritualità civile
essi riappaiono dal profondo
per evidenti similitudini.
Anche a volerlo, con ragione
non c’è modo di sottrarsi
a queste incombenze naturali.
II
Il mio volto è un segreto
vivisezionato da mani sporche.
Smettetela di cercarlo, andate via.
Le colpe non scompaiono per strada
inutile è ogni sigillo, ogni tributo.
Se potessi scendere da questa statua
sapreste cosa è il dolore.
Una nostalgia mai appagata
mi fa amare le antiche dimore
e le case sorte a fiume
in attesa del traghettatore.
Ora porrei a testa in giù
i pupazzi che mi recitano ovunque.
Imbrattati di cose sozze
si fan belli con me
con evidente abuso di potere.
E di loro vedreste solo i piedi.
III
E sempre dal profondo sonno
o da quello lieve, mattutino
sortiscono parole astruse, non tue
che lì per lì ti sembrano normali
ma evidentemente non lo sono
e al risveglio sai con certezza
che vengono dalla notte dei tempi.
Sono risposte, consigli, chiarimenti
degli umani simili a te
che non ricordi più, e ti dispiace.
Sss... non lo dire a nessuno.
Resta fedele alla natura
e la tua anima s’unirà facilmente
alla tenebrosa origine comune.
IV
Che cosa hanno fatto al guitto
che ciarlava vicino al mercato?
L’hanno venduto per poche lire
ad un macellaio di maiali
alla cerca di facili guadagni.
E sopra al suo teatro adesso
han costruito uno squallido tempio
che dovrebbe cacciar via il diavolo.
Al posto degli attori antichi
gli esorcisti affilano i coltelli.
E più avanti in una libreria
vendono santini a rime baciate
tra un fattaccio di sangue e l’altro.
Qui in un tempo assai distante
un patriarca saggio e generoso
costruì un’isola stupenda.
Ed ora non c’è corte di sorta
che possa concedersi un Lasca
nemmeno un Lichera a vender frutta
o un puro, semplice giullare di Dio.
Qui assumono buffoni a contratto
di quelli che si prestano a tutto.
Esplode un carnevale armato
proiettili al posto dei coriandoli
dietro a madame Europa, grassa
più suonata di un campanile.
Matrona scesa giù in strada
dai suoi palazzi cimiteriali
fasciata con volpi del deserto
su ciabatte da crocerossina.
Stelle filanti d’aerei in cielo
mentre l’isterica bercia ai passanti
che non li manda ai mortacci loro
anzi, li porta a bere caffè.
All’improvviso sussurra estatica
perché s’ispira alla Magna Grecia
e allora sembra riprender fiato
trasmettendo al mondo intero
con alfabeto particolare
che dire è morto è poca cosa
per l’enigma da decifrare.
Arrivano i carri della sfilata
ad interrompere la conferenza
su come fermare posta in arrivo.
Mandatario è il tempo che fugge.
Il tempo veramente vola.
Dove tu hai visto qualcuno
dopo un istante è nuvola
e vaghi da solo
ascoltando sconosciuti all’angolo.
L’ingenuità ti fa credere
che ci sia sempre una fiaba
ancora da cominciare
dove hai appena posato la croce
per proseguire leggero.
Hai mai provato a sfuggire
alle tue innate stranezze
a non goderne ad un prezzo esoso
mentre gli altri passano
sotto il cappello di ferro
pur di non aver la tua sorte?
Le paniere sono colme
di teste mozzate male.
Gli amici se ne sono andati
senza entrare a vedere la croce
per ignoranza congenita, o paura.
M’accosto al sonno
ripassando qualche infinito
che nessuno capirebbe. La quiete
apre un varco al desiderio.
Non so fare altro nella sospensione
trampolino di lancio nel vuoto.
Ed ho un sogno allegro.
Ho provato a vedere questo posto
con le pagine di un altro diario
ma quell’essere era sotto passione
mentre io non ricordo che sia
sotto influsso d’amara ironia.
Non ci sono solo madonne
in attesa di porgere doni
a cavalieri ritardatari
e la reggia si strugge invano.
C’è qualcosa in giro che frena
la matta corsa del desìo
non sono solo io. L’altro
lo aveva portato già qui
l’amore che urlava dal treno
e camminava sotto il suo fiato.
Pause immense di anni
e poi esplosioni incontenibili
andamenti contro madre natura.
Mi vedo ripresa lentamente
come sfuocata, acquatica
e l’altro catturato dal suono.
Ho visto che il fuoco
può vincere l’acqua
ma era un disegno bizzarro
seppellito dalla pioggia a dirotto.
Nei giorni di pioggia bevo thè
senza teiera. Caffè decaffeinato
e poi birra pura. Se smette il cielo
di piangere le sue miserie
esco, e non bevo che acqua
di sorgenti dove ha piovuto
e c’è liquido in abbondanza
per i campi ed il raccolto.
Rabdomante che cerca di giorno
una manciata di cose belle
da evocare nelle ore di sonno.
Ho incontrato un anziano signore
che vuol creare una villa
con pianta copiata a Pompei
dopo quella di Tegucigalpa.
E’ convinto che ciò sia
lo scopo della sua vita.
Lo accompagno a comprare la terra
e mi sento come in un film.
Così, se ne hai voglia
scegli il tuo tempo migliore
e vieni a colazione da me.
Ti farò vedere un quadro
di lacrime e terremoto
su quanto sono malvagi gli umani.
Ci sarà qualche santo anche per lui
nascosto bene per scampare al fato
inesorabile, in arrivo col raggio
della meridiana color smeraldo.
Sto leggendo i testi del passato
ma lì è silenzio sepolcrale
e fuori un chiasso estremo
mentre eseguono massacri
dove c’è la tomba gloriosa
di chi ha visto il futuro.
Quando tu lasci qualcosa
ti appare più splendido
anche se l’hai già visto
mille e mille volte.
C’è un’allegra comitiva
che tira a campare, a comprare
souvenirs per quando tornerà
canticchiando giù in Alabama.
Ci sarà qualche santo stasera
anche per lui, che non ha più nessuno.
Donne cinesi vendono veloci
sete e balocchi ai marocchini
in un angolo di mondo cambiato.
Meglio essere analfabeti, bastardi
che leggere allo specchio
d’esser vicino alla fine.
Rientrò in una morbida Roma
dove giovani arabi scalciavano
in un’allegra partita
mentre bei ragazzi americani
cantavano cori rinascimentali
per entrare alla festa religiosa.
Capì che i pezzi di merda
erano racchiusi ovunque
in palazzi o grotte
blindati da moneta su moneta.
Stava meglio all’idea
che fossero esigua minoranza
e che gli altri giocatori
o cantori d’ogni paese
li avrebbero assediati, sbaragliati
messi a tappeto prima o poi.
Quando era senza tanto
credeva in molte cose
e sognava molto di più.
La possibilità di cambiare
era ancora a portata di mano
e un’altra pasqua alle porte.
Dio a questo dovrebbe servire
a credere che i poteri non stan su
a forza d’ignoranza, di fame
di bastonate e poco zucchero
lanciato a ruffiani e mattoidi.
Mentre sfioro il mondo in casa
soddisfatto, aspettando buone nuove
assisto all’esodo di masse insaziabili
emigrazioni continue tra rovine sassose
cimeli d’antico impero e tane muschiose.
Il fiume è insozzato vistosamente
dagli avanzi dell’ultima cena
e l’incendio delle capanne di latta.
Eppure s’aggrappano alle rive
affogati e condannati, resuscitati
dopo la guerra, la fine d’una storia
troppo breve per essere raccontata.
Sono esaltato dal filtro amoroso
non avendo alcuna possibilità
d’appagare i miei sensi
che volando sopra i templi, solo.
Nato vicino a Pompei, di nobili origini
vissuto poco e bene, nonostante
l’apocalisse senza dei
secondo una natura urlante.
Il veleno mi scorre dentro
e vedo ogni giorno a venire
così chiaro da sembrarmi vero.
La mia Italia non è l’uggia d’oggi
i mostri ripuliti che scoreggiano piano
merda biodegradabile, cacca di mosche
morte appiccicate alla carta assassina.
La mia patria era la ragazza col ciuccio
che si sposa e va distante
catturata dal calendario scaduto
d’una famiglia che non c’è più.
C’è qualcosa che riporta indietro
al sapore della passata di pomodoro
preparato dalla ragazza con l’asino.
E m’accorgo che il futuro su Marte
è come quella semplice patria
che non si vergognava della povertà
purché pulita come il grano a maggio.
Sale sul treno di paese
l’attrice anziana, ben conservata
e bacia il suo accompagnatore.
Era l’Italia tanto felice
d’andare a dormire la sera
e di svegliarsi di nuovo al mattino.
I merdaioli sono sempre depressi
e ridono isterici per un nonnulla.
Viveva al villaggio musicale
nella strada del musico sbagliato.
Al piano di sopra abitavano
uomini che non dormivano più
e al piano di sotto a gran fatica
si svegliavano i morti di sonno.
Il carro era pieno di fiori marci
oggetti che durano meno della carne
se sballottati da un trasloco all’altro
senza una mano che li ripari.
Il sistemista smatassava i nodi
dei fili d’un telefono sfondo
ed era inutile trascinare valige
se ad inseguire c’è una bestia feroce.
Vive ancora oggi di fantasie
e si sveglia tutto sudato
perché prima o poi dovrà smetterla
sulla soglia della cappella d’argento.
Troppo nervoso, intollerante
verso il piano di sopra e di sotto.
L’assassino a volte si sbaglia
e mostra orgoglioso in piazza
le medaglie al valor civile
le foto di tutte le sue vittime
con l’invito a ritrovarne i corpi.
Chi passa è quasi commosso
dalla versione fantasiosa dei fatti
dove l’assassino è il salvatore.
Il volto dell’ultimo ammazzato
è esposto davanti al palazzo
e chi difende il suo aguzzino
passa ogni giorno a omaggiare.
In fondo allo specchio verde
ci sono le modelle di un pittore
che prima di dipingerne i corpi
le trucca e le veste da puttane
poi le vende per sposare, far figli
e gettarsi a mare da vecchie.
Ho fatto indigestione di plasma
di eccidi presentati come cerimonie
di baci da giuda a giuda
di cose italiane sporche.
E non c’è Arno che possa sciacquar via
ciò che il Tevere porta a galla
mostrando impietoso al mondo intero.
Il mio corpo disteso al sole
è quello dell’ilare babuino
ma anche quello dell’imperatore
e del cantore venuto dai campi
sotto Roma, a giocare per le sublimi vie.
Ogni animale grande e piccolo
potrebbe essere lui che ritorna
stanco d’Orfeo, delle sue suonate
così melense, inutili lamentele
d’amante sconfitto che non si rassegna
agli anni che passano per tutti
meno che per la culla soave
dove ogni creatura si svaga e s’adagia.
Ora mi godo il calore arancione
guardando l’indaco e il verde
ma più tardi sarà il nero velluto
a coprire il corpo e il pensiero.
Felice chi è nel posto mio
potendo andare in ogni dove
poiché lucertole, ragni, pipistrelli
hanno già svelato il mistero
e lo portano nelle sue mani
così che egli possa guarire.
Non c’è proprio nulla da inseguire
o che tu possa smarrire per strada
ma solamente l’estatico otium.
Vivi pure tranquillo, non essere sciocco.
Luna latina col capo fasciato
da mille interferenze planetarie
ogni tanto mi rannicchio e ti parlo
poiché solo così sono io stesso
un puzzle vagante tra nebulose e buchi.
Quanta polvere sale dalle esplosioni
seguite ad ogni conflitto lucente
mentre io dal Pantheon gioco all’impero
travestito da guerriero di latta!
E mi fanno mille fotografie
per poi tornare in tane da sorci
a ridere di oche e centurioni.
Alla fine della giornata mia
solo tu resti, la stessa luna
latina reduce dei tempi andati.
Allora mi spoglio di falsi allori
e torno sconsolato a Saxa Rubra.
Rifletto sulla cambiazione
e non c’è ratio che tenga qui
o chiomata senza religio.
Lungo il fiume sottoterra
vivono in tanti, accampati
alle porte dell’impero gassoso.
Saltano alla rinfusa sopra il treno
che passa ogni 10 minuti.
Vanno tra romani, etruschi, unni
vandali e cafoni. Zingarelli pestati
dai loro parenti già urbanizzati
stronchi, ciechi e miracolati
raramente seguaci di qualche dio.
Cavano gli occhi per un sesterzio
mandano femmine a prostituirsi
e danno fuoco ai loro nemici.
Pelli diverse sotto il fiume
che si nutrono di povere lontre
un dì libere di sollazzarsi
sul pelo dell’acqua acetosa.
Sono nato in un autobus
basso e stretto, il numero cinque.
Per questo continuo a girare
salire, scendere per l’Urbe.
Dieci anni di fermate improvvise
partenze e ritorni affannati
sguardi lanciati dalle porte
bloccate ai semafori rossi.
Sere in cui scrivo versetti
perché non riesco a scuotere
dalla metro uno sguardo d’intesa.
L’Urbe è la mia stanza dei giochi
e quando smetto con lei, rimetto a posto
bambole e pupazzetti immobili
lucidi, centrifugati, in fila
per domani e dopodomani.
L’Urbe mi regala tanti sogni
senza mai concedermi nulla.
Staccarsene è impossibile
come lasciare un amore sfuggente
o peggio ancora una droga pesante.
Inverosimile vita per l’Urbe
un miraggio che si perpetua.
Suonatore d’armonica mezzo scemo
in questo scorcio d’inizio secolare
che già qualcuno vorrebbe guidare
verso la piena dell’ira divina.
Sono giulivo per i fatti miei
seminudo di fronte al mattino.
Dò fiato al mio strumento
nell’algida città per campare
e m’accuccio nell’ubertosa campagna
scaldandomi come orso o capriolo.
Una di queste notti argentate
vidi uomini uccidersi tra loro.
Allora mi son preso un cagnolino
compagnia per sfidare la sorte.
Doggy mi difende da me stesso
ringhiando con minuscoli denti.
Sbuffa il trenino che dalla Tuscia
entra indiscreto nel cuore dell’Urbe.
Scendono furie, le donne velate
aggrottando le sopracciglia.
Politici, parassiti, sciò, sgomberare!
Giornalisti esauriti con la lingua di fuori.
Un tonto vestito da giamaicano
un cretino mille volte riciclato
sceso dalla villa di paparino.
La distilleria dell’Europa est
inonda di vodka l’aria ferma
ammazzacaffè a Tor di Quinto
passaggio a livello incustodito
umana natura in polpetta per cane.
Sono seduto sopra un buco nero
come farò a risalire?
Sogno o son desto? Non lo so.
Ho una fame brutalizzante
ci berrò sopra come al solito.
La compagnia mediorientale
suona le musiche del deserto.
C’è l’adolescente ricciuta
che sta tra i denti della lupa
in un teatro di travertino
spiando la festa del villaggio
racchiusa in un guscio di noce.
Ogni tanto ci trova davvero
un ritratto similare
vagare anch’esso per il parco.
Come lei si crederà solo
illuso da una statua vivente
nel suo garage, il musicista.
Lei pretende mille attenzioni
che io non posso più darle
e la ragione va e viene
quando devo lasciarla da sola.
Prigioniera trasparente, ha me
che la vedo, le credo ancora.
Hai rotto il pollice destro
con cui afferravi le cose.
Ora sei di traverso, mancino
scoprendo d’essere bravo
a fare tutto all’incontrario.
Timoroso di fronte agli umani
arrivando dal fronte di guerra
avvezzo a lacerazioni, non a balli.
Barcolli tra la nebbia dell’afa
che vela l’Urbe, tremolando.
Ti ricordi che avevi le gambe
prima che te le falciassero via
per dedicarti la prossima festa.
Aguzzi lo sguardo, o passeggero
tra i bimbi che piangono già
impazienti di morire in anticipo
mentre i vecchi puntano le scarpe
e non vogliono morire mai.
Qualcuno in piedi è già morto
senza farci nemmeno caso.
Oggi hai salvato la tua pelle
di lucertola con la coda mozzata
e non ti rimetterà biforcuta
sotto le ginocchia spezzate.
Nessuno ti conosce, ragazzo
ti lasceranno nei tuoi acciacchi
finché ti stancherai là
sulla collina spelacchiata.
Il posto dove ora stanno i vivi
è piccolo, impolverato, deforme
ed è immenso il cimitero, pieno
vuoto, tombe a terra, cappelle di pietra
nuovi lumicini plastificati, volti
conosciuti un po’, molto, per niente.
Ninnoli, fiori, cornici, sorrisi confusi
con la malattia e la morte.
Classificazione dei decessi, numerazione.
Al presente resta di ognuno
l’essenziale struttura, fattura
polvere, i momenti più belli
abbracci ad amici sconosciuti.
Non c’è altro sotto la solita volta
a meno che ce non ne sia sfuggita
un’altra che non figura
nell’ultima ricerca dei saggi.
Facciamo una sosta gradita
annusando l’odore speziato
che sale dal sottosuolo bagnato
da quattro gocce d’acqua rossa.
L’alba declina verso il pomeriggio
cerimonia non religiosa prima di te.
“Non avevo notato finora
quanto fossero stronzi gli umani
noiosi, scontati, peggiori
di qualsiasi animale terrestre.
Più bella e giusta è la natura
persino quando è spietata assassina
poiché le cose, le piante come le bestie
possono pure non aver anima
e campare o sopravvivere.
Gli umani saranno superdotati
ma non serve loro neanche il dio”.
Ho udito secche imprecazioni
proprio sotto la sua statua
ma l’imperatore non era a cavallo
era sceso alle tre di notte
a scrutare la distesa di rovine
e l’animale restava in attesa.
Pensai d’aver fatto un sogno.
Il cantore lavorava all’aperto
lento come il tempo variabile
con scatti improvvisi, assopito
dal veleno che sorseggiava
come acqua di sorgente pura.
Non voleva accanto gli umani
ma come il gatto e il merlo
amava udirli da lontano
e poi godere di solitudo.
Probabilmente non nacque agiato
o nobile come ora van dicendo
avendo entro sé le cose
che vogliono i ricchi, i potenti.
Contentandosi di fichi, di miele
disteso tra fitta vegetazione
egli divenne l’ultimo simbolo
dei secoli trascorsi sul trono terrestre.
Poi invasero il mondo antico
frotte di poveri affamati
alla ricerca della vita
subito dopo il terremoto.
Perché il tuo re ha un bagno
in oro massiccio, e tu
non hai acqua da bere?
Forse perché la terra suda
un liquido nero, e il re
beve anche una bibita scura
zuccherosa e gonfia di gas
sulla tua pelle, sui tuoi peli
sopra il tuo povero groppone.
Non ti danno mai niente
ribelle dell’oasi infelice
grande e grosso come sei
potente in polmoni, starnuti
o ruminante parsimonioso.
Allora il cammello soffiò
un sospiro estremo, rientrando
pacioso in un pacchetto di carta
talmente piccolo che si vedeva
a stento come la cruna dell’ago.
Ho visitato con la fantasia
un sito nuovo, inesplorato
in cui il re che aveva i liquidi scuri
faceva stare bene i poveri
i suoi sudditi fedeli
che non morivano più di stenti
bevendo acqua e gas colorati.
Qual è l’autorità suprema?
Tra la morte e il male
vince sempre la morte
che a volte uccide alla svelta
i mostri più osceni in circolazione.
Così, chi uccise bimbi e bestie
per il gusto di rubarne il cuore
perì sotto la lava del vulcano
con espressione di terrore estremo.
Nell’ultimo istante del mostro
la morte gli tolse la spavalderia
carbonizzò le sue unghie ad una ad una
quando egli era ancora vivo
e il fumo usciva bollente dai fori.
E’ la natura che purificò il mondo
da chi voleva bruciare i suoi simili.
La morte sorprese anche me
col filtro in mano, felice
d’essermi liberato di un incapace
un corpo disteso a dormire per sempre.
Ma io ridevo, senza paura della morte
perché non era il dolore, e tantomeno il male.
|
|
|